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MONTEMURRO
la perla dell'Agri

tratto da "LA BASILICATA NEL MONDO" 1924 /1927


 

Cantavano le fate dell’ Agri, nel soave sussurro delle acque, la divina poesia del lavoro e dell’operosità, in quella fredda notte di dicembre, quando, quasi per incanto, la terra tremò, si squassò, e l’ala fredda della morte battè gelida sulle nostre case, sui nostri fuochi e distrusse il nostro gregge, le nostre stalle.
Così nel canto di lamento del pastore dei monti lucani.

Montemurro, la perla d’Alto Val D’ Agri, come elegantemente e squisitamente volle definirla il compianto on. prof. Perrone, si stende mollemente e negligentemente sul declivio di una lunga collina, a rettangolo, a 720 metri sul livello del mare, alla sinistra dell’Agri, nei contrafforti appenninici, che degradano dal Vallo di Marsico verso la Calabria. Sembra, con le rustiche ed affumicate casette, che voglia sfidare i burroni. Vi si getta, anzi vi si slancia, ma poi se ne ritrae, quasi per spavento, e i suoi edifici s’aggrappano, s’accatastano l’uno sull’ altro, cosi come un branco di pecorelle, che si attardino nei meriggi di estate, sonnolente e mute, sotto l’ombra fresca dei chiomati alberi.

La natura ha voluto donarle un’ineffabile bellezza di pittorico paesaggio, a volte selvaggio, quasi a colmare il vuoto delle sciagure sofferte. Prati verdeggianti, distese di campi coltivati a grano, a vigneti, a legumi, fitte boscaglie, ridenti collinette e fianchi di monti a ulivi, a frutteti, a querceti, circondati da alti contrafforti, che si perdono e si confondono con gli azzurri vapori del cielo. Orizzonte meraviglioso, dove l'occhio umano si perde nella contemplazione dell’ infinito. E poi, l'orrendo bello! Burroni spaventosi, precipizi scavati a picco, sui quali le agili caprette s’arrampicano a brucare i ciuffi di gramigna; torrenti e valloni in un dolce sfondo di smaglianti colori.

Due bellissime vie larghe e spaziose, fiancheggiate da belli edifici, percorrono Montemurro in tutta la lunghezza per poi riunirsi nella piazza principale, che é la confluenza delle rotabili di Viggiano, Armento e Spinoso. I bei palazzi, le piccole e incantevoli ville, gli orti ed i giardini dall’ombra allettatrice, gli emponi vani, le sale da caffè, con squisiti dolci di produzione paesana, il circolo sociale, con i suoi poker e le sue calabreselle, hanno non so che di attraente, che ricrea e solleva.

La popolazione si aggira intorno ai 3700 abitanti e vi si vive la vita semplice e buona dei contadini, con le grandi tristezze e le infinite gioie, riscaldata dai dolci raggi della sublime concezione della santa religione di Cristo. Anche fra noi, come in molti altri paesi della nostra Basilicata, la mancanza di istruzione e le superstizioni impediscono al popolo di svilupparsi e progredire. Eppure Tolstoj, che ha vissuto la vita della povera gente russa, ha notato che non manca nel popolo una squisita intelligenza ed una subcosciente potenza artistica. Non bisognerebbe che educarlo. Ma, pure cosi com'esso e, non vi è gioia più pura, non vi sono palpiti e fremiti più belli che dimenticarsi nella soave dolcezza del luogo natio della triste realtà della vita.

Cosi Giacomo Leopardi:
Sempre caro mi fu quest’ ermo colle 

Nella grandezza armoniosa dei dintorni, circondati di silenzio e dalla luce splendente del sole, si aspira, con l’aria della gioia, il canto delle allodole, che trillano sui poggi, e si sente aprire il cuore ad un sentimento nuovo ed incantevole di riposo, che atterra i voli dello spirito e addormenta e smorza il desiderio sfrenato ed incessante di spiegare, di sapere, di comprendere. Tranquillità e solennità. La vita si svolge senza ombre né rumori: cantano gli uccelli, fremono le foglie degli alberi, che stendono l’ombra allettatrice dei loro rami ricurvi sugli argentei e mormoranti ruscelli; intonano i pastori con lo zufolo di canna le soavi canzoni; lavorano i contadini, s’affrettano gli artigiani. Sorrisi di uomini e di cose.

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Le origini ed il passato di Montemurro si perdono nelle folte nebbie del tempo, non perché i secoli non vi abbiano lasciato traccia di monumenti ed impresso orme immortali di gloria, ma perché gli elementi hanno esercitato ed esercitano la loro azione fatale, tristemente, inesorabilmente.

Non è facile dare una spiegazione del suo nome. Alcuni parlano di una Dea Marcia e di un Mons mori, quasi che fosse una colonia di saraceni, ed altri ancora, come il dott. Albini, parlano di un Mons monos, composizione di due parole identiche, la prima latina, la seconda medioevale, con derivazione dallo spagnuolo. Io non sono alieno a dal credere che Montemurro sia derivato da Mons Muruli, che, italianizzato, suonerebbe monte di pietra.

Per la ricerca son partito dalle caratteristiche particolari del terreno, che servivano agli antichi per la denominazione dei villaggi; ora, il nostro terreno, ferace di oliveti e vigneti, che si alternano con ombrose selve e brulle petraie, è accidentato e circosparso di grosse pietre namiche, a guisa di iceberg, e di grossi massi, che furono sicuri nascondigli agli uomini delle selve, quando si scatenò la lotta della guardia nazionale contro i briganti.

Non si può precisare la data, in cui Montemurro sorse; però, non si può disconoscere l'origine romana, giacché esistevano le ville di Servillo e Valerio, nelle contrade che oggi si appellano Sorvigliano e Vallarano, (volgarizzazioni di Servillo e Valeriano). Paese considerevole certo fu sempre, perché ambita residenza del Vescovo di Tricanico, che l’aveva avuto in dono da Roberto, conte di Montescaglioso, e, dopo, da Federico II e dal principe di Bisignano, Pietro Sanseverino, con lunghe contese tra l’autorità ecclesiastica e quella civile. Cosi ne parla il Caputi nella storia di Grumento e Saponara: “ La giurisdizione di Montemurro è data nel 1564 dal principe Bisignano all’altro principe di Stigliano, che prese il titolo di Duca, e poi da Anna Carafa ad Alessandro Ussone. Questi nel volgere di un decennio, la cede in favore di Giovanni Berardirio d’Elia; e, dai suoi eredi, passa nel 1722 a Vespasiano Andreassi e al nipote Lucio Cavalcanti, duca di Bonvicino, che vende il tutto al sig. Albini e a suo genero Michele Arcangelo Netti. Le vicende del popolo sono note dal secolo XVIII in poi. Montemurno ha sempre agitata la fiaccola della libertà, consacrando gli sforzi dei figli suoi per rendere possibili le grandi vittorie della civiltà e del progresso, allorché si nisvegliò sotto l'influenza poderosa della rivoluzione francese. Durante il regno di Gioacchino Murat, una vendita della carboneria sorse pure in Montemurro e prosperò tanto, che, nel 1821, le Agapi (assemblee) si tenevano in una grande sala del soppresso monastero di S. Domenico. Nel 1850, fu installato un comitato di propaganda e di organizzazione, con a capo Giacinto Albini, il grande pro-scritto, coadiuvato dal Robilotta, Sinisgalli, Manna ed altri ardenti e tenaci rivoluzionari.
Tale comitato, nel 1857, passò per il terremoto a Corleto Perticara.

Dal 1850 al 60 è il più bel periodo di febbrile preparazione con carteggio con il comitato di Napoli. Persecuzioni, carceri, bando non intimorirono i prodi, e il 14 agosto 1860, sulla torre di Montemunro sventolava il tricolore, cucito nelle lunghe e snervanti veglie di trepidazione e di attesa dalle baronessine Netti; quel tricolore, che fu poi portato in trionfo a Corleto ed a Potenza, quando l'Albini ed il Mignon, il 18 agosto, proclamarono il Governo Provvisorio, prodittatori in nome di Garibaldi.

Terra di prodi, che rifulse nel 60, che si batté a Mentana nel 67, che compì l’opera di redenzione a Roma!,,

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Montemurro aveva ancora grande importanza anticamente per l’indomabile spirito di energia, di lavoro, di intraprendenza e di laboriosa parsimonia. Le industrie erano sviluppatissime ed un importante commercio affluiva da Napoli, il quale nel suo riflusso si spandeva a tutti gli altri luoghi della Basilicata. Molto rinomate erano anche le concerie delle pelli. Si esportavano cuoiami, tessuti, terraglie, ecc.

Ma tanta operosità, purtroppo, tanta indomabile energia volitiva fu stroncata di fatto la fatale notte del 16 dicembre 1857, quando la furia degli elementi fu superiore ad ogni immaginazione. I cittadini erano immersi nel sonno. Nella notte, sepolcralmente silenziosa, qualche cane da guardia guaiva dolorosamente, i cavalli scalpitavano alle greppie. D’un tratto la terra sussultò, tremò e la popolazione fu sepolta sotto le macerie, sogno e morte si tesero la mano in quel buio, s’abbracciarono e congiurarono. Quattromila morti e cinquecento feriti!

Alle volte, nelle lunghe insonnie, quando l’orologio batte glaciale ed arido il tocco, sento lo scalpitio affrettato di cavalli e di usci battuti. E’ il mercante, che torna da lontani paesi dove ha venduto i suoi ricercati prodotti; è il soldato romano, chiuso nella bruna corazza, che parte dopo aver salutata la fanciulla del suo cuore, mentre la leggiadra donzella, dai vaghi e costosi monili d’oro, piangente, saluta il fidanzato, che va in guerra.

Passa la mezzanotte, i fantasmi si dileguano, la realtà continua, immane, inesorabile...

E nella sua crudezza, continua a martoriare, ma anche a glorificare, lo sforzo immane di questa mia gente montemurrese, che, più forte e più tenace di ogni ira degli elementi, è abbarbicata alla sua terra, come l’edera, e, da ogni sciagura, risorge più temprata a sfidare l’avvenire, e, dopo aver composto nelle tombe i suoi morti, e ricostruito le sue case, riprende il cammino della vita e delle ascensioni.

Un altro grave disastro scosse la tenacia e la intraprendenza del popolo Montemurrese. Come se l'ora triste delle sventure non fosse scoccata del tutto, il 17 febbraio 1907 una frana colossale investì la parte alta del paese. L’enorme massa di terra si spostò, come una valanga terribile, schiantò le case e travolse nella sua corsa il resto di quelle che erano le nostre migliori industrie. I cittadini fuggirono, abbandonando tutto, solo portando nei cuori affetti immensi, dolori implacabili, avviandosi verso l' ignoto sotto nuovi cieli...

Sovente, nelle placide notti di estate, quando la brezza della sera cade e la luna risplende più vivida in cielo, si odono le fredde voci delle tenebre. Dai monti vien giù il fioco gemito di sepolti dimenticati a piè d’ un albero sotto la guardia d’ una grave mora ,,; dal fiume sale il sussurrio delle acque cristalline, che parlano di dolci idilli, di soavi amori.... Il passato e il presente s’ incontrano e si confondono nell’ imperscrutabile.

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Dopo tante sciagure, l'abitato fu ricostruito, ma la vita non è più quella di ieri: manca i! soffio dell’ energia, manca la giocondità delle lotte generose, manca lo spirito d’iniziativa. D’industrie, non se ne parla più, per il fenomeno emigratorio, che, togliendo la forza viva, essicca le risorse locali e isterilisce giornalmente la prosperità che esisteva. I giovani se ne vanno all'estero a commerciare, le donne e gli uomini vanno per i campi, spingendo il magro asinello, i fanciulli conducono al pascolo poche caprette. Tutto è distrutto! Alle furie del tempo e degli elementi, solo resiste il tradizionale bruno contadino, a continuare la sacra opera della vanga e dell’aratro, e la stecchita vecchierella, seduta al tramonto sul limitare della propria casetta, a filare la candida lana impregnata d’olio d’olivo.

Oggi, nella piazzetta principale, a sera, i fanciulli in frotte fanno un lieto rumore; per le vie ruzzolano le galline, e non manca di tanto in tanto qualche grosso maialetto, che va alla passeggiata vespertina in cerca di luridume.

Eppure, la triste vicenda di vita e di morte non ha saputo distruggere le bianche chiesette, in cui non si aggirano più i saiati frati, intenti a sorprendere dietro un confessionile due fanciulletti, non restii alle carezze, e poco timorati di Dio e dei Santi. Oggi la Chiesa principale è nell’antico convento di Sant’Antonio, molto rinomato perché aveva anticamente giurisdizione sugli altri conventi della valle dell’Agri. Molte altre chiese sono sparse per tutto l'abitato.

E’ degna di ricordo quella di San Domenico, residenza di altri frati, in cui ancora oggi si conserva un coro in legno di noce intarsiato del 1647. Un altro tempio magnifico sorgeva nella piazza di S. Maria. Da qualche colonna abbattuta, da qualche capitello spezzato, si può dedurre che era la magnificenza e la grandiosità della nostra gente operosa e audace. Oggi vi si erge, maestoso, il monumento ai Caduti, che sciolsero l’anima” al soffio della giustizia, al vento della libertà, della promessa, del futuro.

Intanto, prima di chiudere queste note, non posso non dire che un risveglio sembra travagli il mio fatale paesello, venti volte distrutto, venti volte risorto sulle sue rovine. Dall’impianto della luce elettrica al progetto per le fognature; dalla costruzione dell’asilo infantile, e delle altre opere annesse, alla costruzione della terza navata nella nostra chiesa principale; è tutto un programma di fede e di sacrificio, nella speranza che Montemurro ritorni ad essere quello, che fu un giorno, operoso e rinomato paese.

Lo si aspetta, lo si vuole questo giorno!

Allora, le pietre s’ alzeranno, e, dalla terra bruna sorgeranno i nostri tanti eroi, ricantando quei canti di fervida operosità, che triste il fato ci ha spezzato in gola.

 

DOMENICO MONTESANO         



tratto da "LA BASILICATA NEL MONDO" 1924 /1927

 


 

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