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MARIO PAGANO - da: La Basilicata nel Mondo - 1924/27

La rivoluzione napoletana del 1799, a chi profondamente la consideri, appare come un generoso « non senso » storico, al quale soltanto il pensiero e le dottrine di Francesco Mario Pagano danno quel contenuto etico e sociale, che è la caratteristica fondamentale di tutte le rivoluzioni di popoli. Come, infatti, la rivoluzione francese ebbe il suo polo ideale intorno a Rousseau, a Voltaire e a D’Alembert, così la rivoluzione napoletana del ‘799 ebbe il suo centro logico nei Saggi politici e nel Processo criminale, le due opere, per le quali, come giudicò Vincenzo Cuoco, « nella carriera sublime della storia eterna del pensiero umano non si rinvengono che le orme di Pagano, per raggiungere i voli di Vico ».

Strana rivoluzione! S’iniziò buffonescamente con la fuga di un re da operetta, il quale, in quindici giorni, aveva riconquistato Roma al Papa, l’aveva riperduta, era stato disfatto dai francesi, che, incalzandolo alle reni, con quel suo ineffabile generale austriaco Mach, lo avevano serrato nella sua capitale, e finalmente — affacciandosi sulle alture di Capodimonte le cavallerie di Championnet — davanti alla paura, ch’egli aveva del suo popolo, e all’ignominia della capitolazione, abbandonava uno dei suoi regni, e si rendeva, a bordo di un vascello di Nelson, nella sua seconda capitale, tormentato dall’ incubo di doversi ridurre nel suo terzo regno onorario di Gerusalemme.

Per ordine della Regina, la flotta napoletana arse, rogo immane, sulle acque del Golfo, dietro la fuga del re.

E il prologo si chiuse dietro questo velano di fiamma, sulle urla del popolo e dei lazzari. Seguì la difesa epica dei lazzani e del popolo napoletano, che, per tre giorni, tennero in iscacco le truppe di Championnet. Ma i patrioti napoletani non presero l'iniziativa di proclamar la Repubblica, e attesero che la istituisse il generale francese, il quale, conquistatore di fatto e di diritto, ebbe tuttavia il tatto di non atteggiarsi che a liberatore.

I napoletani, compresi i patrioti, delirarono per il simpatico conquistatore, che aveva piantato su tutte le piazze l’albero della libertà. Vincenzo Monti ed Eleonora Pimentel Fonseca, l'inspirata, bellissima sibilla, che fu poi la Martire magnifica, gli tessevano ogni giorno le laudi sul « Monitore Napolitano ».

Championnet chiamò al reggimento della Repubblica Partenopea i più insigni e illuminati patrioti e diede a Mario Pagano l'incarico di compilare la Costituzione, modellandola però sulla costituzione repubblicana Francese dell’anno terzo.

A proposito di questa Costituzione napoletana, Vincenzo Cuoco, che ne fu oppositore, così si esprime in una lettera a Vincenzo Russo : « Il progetto donatoci da Pagano è migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina, ma al pari di queste è troppo francese, è troppo poco napoletana. Lo edificio di Pagano è costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava: l’architetto è grande, ma la materia del suo edificio non è che creta ».

Mario Pagano, al governo della Repubblica, si palesò subito il cervèllo più realistico del suo tempo. Mentre tutti facevano sogni di poeti e tripudiavano nella gioia della libertà, solamente pochi si preoccupavano di approntare i mezzi per difenderla e conservarla contro l’eventuale e facilmente prevedibile reazione della tirannide. Molti s’illudevano che a conservar la Repubblica Partenopea bastasse l’esercito di Championnet, quasi che possa avere consistenza e garanzia di stabilità e di sicurezza uno Stato affidato alla difesa di braccia straniere. Mario Pagano, invece, intuì la necessità precisa che la Repubblica avesse un suo proprio esercito, fosse, anzi, tutto un popolo in armi, e, nel suo primo discorso di governo, ammonì in questo senso il popolo festante.

« Sì, cittadini — Egli disse — siamo liberi: godiamo: ma ricordiamo che la libertà siede sopra sgabello di armi, di tributi, e di virtù, e che le armi in repubblica non riposano, né i tributi scemano, se la virtù non eccelle. A questi tre obbietti intenderanno le costituzioni e le leggi del governo. Voi, però che libero è il dire, aiutate gl’ingegni nostri: noi accetteremo con gratitudine i consigli, li seguiremo, se buoni. Ma udite, giovani ardenti di libertà, che qui vi palesate per l’allegrezza che vi brilla negli occhi, udite gli avvisi d’uomo incanutito, più che per anni, nei pensieri di patria e negli stenti delle prigioni correte alle armi e siate nelle armi obbedienti al comando. Tutte le virtù adornano le repubbliche, ma la virtù che più splende sta nei campi; il senno, l’eloquenza, l'ingegno avanzano gli stati; il valore guerriero li conserva : le repubbliche dei primi popoli, perocchè in repubblica le società cominciano, erano rozze, ignoranti, barbare, ma durevoli perché guerriere. Le repubbliche di civiltà corrotta presto caddero: benché abbondassero buone leggi, statuti, oratori, tutti i sostegni e gli incitamenti alla virtù: ma le infingarde avevano tollerato che le armi cadessero. Perciò in voi più che in noi stanno le speranza di libertà. Il governo provvisorio legittimo e costituito intende da questo istante ai debiti suoi: e voi, strenui giovani, correte da questo istante ai debiti vostri, date i vostri nomi alle bandiere di libertà, che ravviserete dai tre colori ».

Ma l’esercito della Repubblica Partenopea non ebbe tempo di costituirsi e organizzarsi, se non tumultuaniamente e nella forma volontaria delle legioni sacre. La coscrizione non si poté eseguire che assai irregolarmente.

Manthonè, preposto all’esercito, non prese sul serio il movimento di Ruffo, e scontò il suo errore sul patibolo nella maniera più nobile e più tragica. Forse, al pari del Tanucci, egli pensava che lo Stato di Napoteva e non doveva essere uno Stato militare.

Sicché, quando Magdonald, che in Napoli era succeduto a Championnet, bruscamente richiamato dal Direttorio francese, fu, a sua volta, richiamato, per accorrere a grandi marce, con tutte le guarnigioni francesi di Napoli, di Roma, e della Toscana verso la Cisalpina, sulla quale — assente il Bonaparte — si era scagliato il ciclone austro-russo di Siiwaroff e di Julay; al truce Cardinal Vicario, che con la croce, con la ferocia, con la menzogna, con lo spergiuro, aveva riconquistato la Calabria al Re, e si era avanzato nel cuore della Basilicata, a Matera, mentre il suo luogotenente Sciarpa riduceva a soggezione, con forze preponderanti, le eroiche resistenze repubblicane di Avigliano, Potenza, Muro, Tito, Picerno, San Fele, Monte Sant’Angelo; il Governo provvisorio della Repubblica Partenopea non poté opporre, alle orde sfrenate, che le legioni magnifiche di Ettore Caraffa, guerriero pio e valoroso come Goffredo, di Giuseppe Schipani, ardimentoso e generoso come l'Ettore omerico e come lui degno di epopea, di Agamennone Spano, di Francesco Federici, di Gennaro Serra, di Pasquale Matera, di Francesco Grimaldi, di Oronzio Massa, quegli che fu poi inviato a trattare col cardinale Ruffo la capitolazione e la pace, ed ebbe la visione profetica del martirio imminente per sé e per i più insigni uomini della Repubblica Partenopea. A Marigliano e a Vigliena, i repubblicani scrissero la pagina più eterna e più vermiglia del loro eroismo.

« Chi guardando le rovine di Vigliena, — scrive Francesco Lomonaco, altro grande filosofo della nostra Basilicata, nato a Montalbano — non sarà preso di ammirazione, è un uomo a cui la schiavitù ha tolta la facoltà di pensare e di sentire, Io farei imprimere sui rottami di quel forte l’iscrizione: Passeggero! Annunzia a tutti i nemici della tirannide, a tutte le anime libere che imitino il nostro esempio, anziché vegetare all’ombra del dispotismo ».

La Repubblica Partenopea capitolò. Ma la capitolazione, firmata da Ruffo per il Re e da Megeant per la Repubblica Partenopea, che prometteva ai repubblicani salvezza di persone e di averi, libertà di partire o rimanere in Napoli, senza subir vessazioni di sorta, fu violata da Nelson e ricusata dal Re. Così, mentre sulle piazze di Napoli la plebaglia e le irrompenti orde di Ruffo arrostivano i repubblicani al fuoco dei bivacchi notturni, e un satanico prete Rinaldi, sgherro del Cardinale, si vantava di cannibalismo, quanti il Mezzogiorno d’Italia aveva di uomini migliori, per ingegno, per virtù, per fierezza di carattere, onestà di vita, amore di patria e di libertà, venivano imprigionati e condannati al patibolo. Si vuole che Ruffo, nauseato di tanto eccidio, pregasse Dio di perdonargli la colpa di aver ridonato il regno a un re tanto stupido e malvagio, e che il Segretario di Nelson, scrivendo a un suo amico, a Maone, gli dicesse « Noi commettiamo le più orribili scelleraggini per rimettere su trono il più stupido dei re »

Napoli, scrisse così, sotto la più turpe e idiota delle tirannidi, la pagina più gloriosa e più degna di Eschilo nella tragedia italiana per la libertà. Tutti furono eroi, tutti furono santi. Da Francesco Caracciolo, il più gran genio marinano del tempo, a Eleonora Pimentel, che, dopo aver bevuto una tazza di caffè, salì sul palco di morte, serenamente, dicendo: Forsan haec olim meminisse juvabit; da Pasquale Baffi a Nicolò Fiorentino, da Conforti a Scotti, la storia delle ascensioni umane, dopo i martiri cristiani, non ne aveva avuto altri più degni.

Era la generazione, che Mario Pagano — il più grande fra tutti i martiri partenopei — aveva informata di sé, predisponendola spiritualmente a voler morire piuttosto che piegare le ginocchia alla tirannia.

E, secondo l’esempio e l'insegnamento del Maestro, moriva sorridendo, pregando, amando, benedicendo, ammonendo a sperare, insegnando a frangere le catene della schiavitù. Tra le vittime illustri di questo tempo, degnissima di memoria, la veneranda, apostolica, messianica figura del vescovo Giovanni Andrea Serrao, di Potenza, massacrato per ordine di Ruffo, dagli sgherri di Sciarpa.



***



Francesco Mario Pagano nacque a Brienza, Comune della nostra Basilicata, nell’anno 1748. Giovinetto, si trasferì a Napoli, ove in quel tempo fioriva, nel massimo del suo splendore, la grande scuola filosofica e giuridica napolitana, ed ove ebbe a maestro Antonio Genovesi, faro di alta e libera dottrina.

Ben presto, facendosi notare per le sue doti di mente e di cuore, fu ammesso a frequentare i salotti patrizi di casa Grimaldi, di casa Serra e di casa Popoli, sospetti alla Corte, e specialmente alla Regina, come raduni di liberali e di repubblicani, e nei quali, in realtà, conveniva il fìor fiore degli uomini più eminenti nel campo delle lettere, delle arti, delle scienze, della filosofia, del diritto. Vi era assiduo Gaetano Filangieri, il quale, affascinato dall’ingegno fresco e potente di Mario Pagano, dalla sua ingenuità, dal candore angelico della sua anima, dal suo amore per la libertà, e dal suo sprezzo per i tiranni, prese a proteggerlo, ad amarlo, a consigliano, a rendergli più viva e ardente la fiamma di liberazione, che il giovinetto lucano teneva chiusa nel cuore.

Nel frattempo, egli continuò nei suoi studi di diritto e di filosofia, si addottorò in giurisprudenza. Eloquente come Demostene, dotto come Platone, generoso, ardente, insofferente di ogni costrizione del pensiero, del diritto coltivò specialmente la parte criminale, l’odierno diritto penale, perché — dice Atto Vannucci — nell’ impegno della pena di morte, al suo cuore era più dolce salvare la vita che gli averi dei cittadini.

Le sue difese, gagliarde d’impeto, potenti di inconfutabile dottrina, attrassero su Pagano l’attenzione di tutti i sapienti di Napoli, e tutti, unanimemente, designarono lui, quando bisognò nominare il professore di diritto criminale all’Università degli studi. Dalla pubblica cattedra egli si diè a combattere vigorosamente, con lo sdegno che è proprio degli apostoli, la corruzione della Magistratura e del Foro. Le gioventù, le moltitudini traevano in massa a udire la parola del Maestro di quella generazione; e in quegli animi di generosi, aperti naturalmente alla giustizia e alla libertà, la sua dottrina semplice e vera spandeva i germi, che, più tardi, sotto la raffica sanguinaria della reazione imperversante, li dovevano trasformare in martiri e in eroi, degni del più alto pensiero e del più alto dolore.

Quelle lezioni facevano pensare alla scuola di Socrate, all’Aeropago di Atene.

Elevatosi così in fama, già cinto il capo della raggiante aureola della gloria, Mario Pagano ebbe dal Tanucci — il ministro che, sulla via delle riforme liberaleggianti, fu fermato dalla regina austriaca — l'incarico di proporre la riforma della procedura criminale, nell’amministrazione della quale avvenivano abusi criminosi e sfoghi di passioni e di vendette, che hanno dell’ inverosimile. Egli, filantropo e filosofo, pose in tal modo i fondamenti della procedura criminale moderna. Insieme con La pena di morte di Cesare Beccaria, il suo libro sul Processo criminale costituisce una tappa ascensionale, un’epoca gloriosa negli annali dell’ umanità, il trapasso da un gradino più basso a uno più alto di quella interminabile scala della convivenza sociale dei popoli, che si chiama la civiltà.

L’opera di Mario Pagano, tradotta in tutte le lingue, lodata da tutti i giureconsulti di Europa, ebbe anche la menzione onorevole dell’assemblea nazionale di Francia.

Subito dopo, con i Saggi Politici, egli lanciò al mondo il suo più alto grido di giustizia, di passione, di libertà, di amore, di redenzione. In essi, esaminò con critica acutissima, gli ordinamenti sociali, percorse le epoche principali della civiltà, agitò le più gravi questioni sull’ordine naturale e politico delle società civili. Traccio maestrevolmente l’origine, i progressi degli ordinamenti civili, descrisse le vicende del genere umano, fece la filosofia della storia.

Il pensiero rivoluzionario del filosofo di Basilicata, il suo odio al despotismo, gli suscitarono contro, attizzato sapientemente dallo zelo dei falsi devoti, l'odio della Corte e la persecuzione della Regina austriaca.

I Saggi Politici furono sottoposti a una speciale inquisizione teologale, la quale doveva stabilire se Mario Pagano si fosse con quell’opera reso passibile di condanna materiale e morale, e se l’opera stessa dovesse essere denunciata ai furori della inquisizione romana.

Volle la buona sorte, che magna pars della commissione inquisizionale fosse il dottissimo prete Francesco Conforti, altro grande filosofo e apostolo della divina parola, che, più tardi, doveva essere degnissimo compagno di fede e di martirio del filosofo lucano. Egli mandò assolto da ogni accusa il grande scrittore dei Saggi.



***



Ma la tempesta degli odi contro Mario Pagano non si placò. Egli era troppo grande, nella inaccessibile torre di avorio del suo pensiero e della sua virtù, perché i menestrelli della regina austriaca Carolina non pensassero in tutti i modi ad amareggiare e annientare la vita di colui, che costituiva la più tremenda rampogna per le macchie della loro coscienza.

Lo scoppio della Rivoluzione Francese avvisò i tiranni come fosse ormai matura nello spirito delle genti l’ora storica di tradurre in realtà le teorie democratiche, che filosofi e pensatori venivano da oltre un secolo meditando, esponendo, predicando. Il grande moto popolare francese, dal quale doveva cominciare un’ era nuova del mondo, ebbe in Napoli vaste ripercussioni. Pagano, fiero assertore di libertà e di democrazia, odiatore implacabile del despotismo, ch’egli mirava a distruggere, amava però che la rivoluzione non fosse a Napoli importata dalla Francia, ma vi fosse fatta dalla Nazione, perché durasse. I più ardenti e meno lungimiranti patrioti napoletani, invece, non la pensavano così. Per essi ogni speranza di libertà era riposta nell’aiuto e nella imitazione della Francia e cospiravano per aprire i confini del Regno alle truppe repubblicane.

Generosi e imprudenti, i cospiratori non usavano molte precauzioni. Le spie li irritavano, i tradimenti fioccavano, le mude delle prigioni borboniche erano stracolme di prigionieri, i patiboli traboccavano di vittime. Gli accusati non riuscivano, al più delle volte, neppure a trovare un avvocato che li volesse difendere, in quelle tragiche parodie giudiziarie, che terminavan sempre, invariabilmente, con sentenza di morte, perché l’ira, la vendetta, la persecuzione della regina, servita dal freddo, rebuttante cinismo di Acton, che, da ambasciatore d’ Inghilterra era divenuto il vero boia di Napoli, si abbatteva senza pietà sui difensori.

Mario Pagano si assunse perciò, virilmente, la difesa di ufficio di tutti quei generosi, senz’altra colpa che la sete di libertà, e si batté come un titano per salvare dalla morte i tre giovinetti, Galiani, Vitaliani e De Meo. Ma il sacrificio di questi tre puri fiori ventenni era voluto dalla regina, rabbiosamente, e il grande Pensatore di Basilicata, che, più tardi, avrebbe infamato, per tutti i secoli, col suo stesso martirio, quella regina, la sua reggia e il suo re, dové cedere al boia i tre corpi adolescenti.

Si può dire che il duello tragico, mortale, tra il genio di Mario Pagano, e la ferocia della piccola, coronata femminetta lasciva, anse proprio intorno ai corpi dei tre martiri ventenni.

Quell’Uomo pensava troppo: e il suo pensiero aveva la virtù di animare e infiammare tutte le cose, sulle quali si diffondeva.

Quell’Uomo era adorato dal popolo, che poteva incitare alla rivolta, Amava troppo la libertà: era assai probo. — Bisognava toglierlo di mezzo. Acton, credendo di prevenire anche in questo, galantemente, il desiderio della regina, le propose di farlo arrestare. Ma Carolina, temendo che lo arresto di Mario Pagano avrebbe avuto ripercussioni funeste sull'animo del popolo, che lo adorava, tentò le armi della blandizia e della seduzione per avere il fllosofo dalla sua parte.

Lo fece, perciò, nominare giudice nel Tribunale dell’Ammiragliato, lusingandosi così la povera reginetta di piegare l’animo e umiliare il genio di Mario Pagano nel servizio del dispotismo. Ma Egli, contro il volere e gl’intrighi della Corte e dei potenti, usi a ostacolare sempre il cammino della giustizia , per proteggere loschi affari e furfanti, ebbe l'animo di essere giustiziere, inflessibile e inesorabile, indipendente, anzi sovrano nelle sue funzioni di magistrato.

Si creò molti nuovi nemici, che vivevano di ingiustizia e di soprusi. Fra questi, quel Vanni, presidente della Giunta di Stato, abbiettissimo spione, tanto abbietto che si ebbe da ultimo il disprezzo della stessa regina, alla quale egli dipinse Mario Pagano come uomo pericolosissimo alla conservazione dello Stato.

Carolina, già assai male disposta verso di lui, contenne in sé il terrore che aveva di una possibile insurrezione di popolo, e fece arrestare il filosofo.

Per tredici mesi, Egli languì in un orrido sotterraneo, nel quale, poiché lo si voleva colpire nel pensiero potente e colpevole, gli fu tolto persino il conforto di poter leggere e scrivere, e nel quale non ebbe per tutto quel tempo altro giaciglio che la terra nuda, coperta di immondizie.

Volevano macerargli il corpo, estenuargli le membra, perché l’animo si fiaccasse, cedesse, piegasse, abiurasse. Ma a misura che le forze fisiche gli mancavano, la resistenza, la serenità spirituale di Mario Pagano accrescevano smisuratamente, quasi che gliele moltiplicasse, in modo inesauribile, la comunione con la morte, ad ogni attimo invocata e sperata vicina.

Lo misero, quindi, forse per le proteste di popoli e governi stranieri, in una carcere meno squallida, ove Egli scrisse il suo famoso discorso Del Bello nel quale trasfuse e rivelò tutta la potenza poetica della grande anima sua.

Di questo discorso — scrive Atto Vannucci — che sembra nato in mezzo alle dolcezze della pace e alle più soavi delizie. Con la fantasia e con l’affetto della sua purissima anima, Pagano andò a cercare fuori del carcere le immagini che non trovava intorno a sé.

Tanto Egli poteva astrarsi dalle miserie, dalle sofferenze, dalle privazioni della carne, per non patire che delle ansie e dei voli del suo spirito liberatore e glorificatore.

Finalmente, fu scarcerato. I giudici, pur nella loro infinita remissività indecorosa alla Corte, non trovarono, con tutto il loro zelo, di che decentemente condannare il filosofo. Ma, nel tempo stesso, si guardarono bene dal dichiaralo innocente. Come Ponzio Pilato, si contentarono di lavarsene le mani. Probabilmente, dissero a sé stessi : « Noi non vogliamo macchiarci della sorte di questo Uomo giusto ».

Gli furon tolte le cariche di professore e di giudice, e gli fu impedito anche di fare l’avvocato. Allora Mario Pagano fuggì da Napoli, divenuta per Lui terra di maledizione. Forse, come il Savio Cristiano, varcando i confini del regno, scosse la polvere dalle sue scarpe. Per via, corse gran rischio di essere arrestato, ma riuscì, dopo mille peripezie, a rifugiarsi in Roma, ove l’occupazione francese permetteva di respirare, sul Lungo Tevere, le aure della libertà. A Roma gli furon tributati onori, stima, affetto. Ma sul finire del 1798 dovette fuggirne, avanti la grottesca conquista delle truppe napoletane, capitanate da re Ferdinando e da Mach, e rifugiarsi nella capitale della Repubblica Cisalpina, Milano.

Qui lo colse la notizia della rivoluzione di Napoli, e sì mise subito in via per la sua Patria libera. Quando vi giunse, Championnet lo aveva già nominato tra i membri del Governo Provvisorio. Il popolo napoletano lo accolse in delirio, e lo elesse suo rappresentante per la commissione legislativa, nella quale Mario Pagano fu, come sempre, vindice austero e ineluttabile di giustizia e di libertà. Per amore della giustizia, difese la causa dei Baroni, sostenendo che —annullato per essi ogni privilegio — dovessero però venir compensati dei danni patiti nelle proprietà.

Ebbe contro tutte le furie dei democratici più estremi. Alto sulla tempesta delle ingiurie e delle accuse di tradimento alla causa del popolo, il grande filosofo, che impersonava e dominava tutto il Governo Provvisorio, rimase impassibile,

stid come torre ferma che non crolla

giammai la cima, per soffiar di vento

e con la parola, con l’esempio, coi fatti, continuò a consacrare tutto il suo genio potentissimo alla giustizia e alla libertà.

La sua costituzione della Repubblica Partenopea, nella quale Mario Pagano si rivelò classico legislatore, come al timone del Governo fu statista di ferro e di lunga veduta, dimostrando così, in ogni ramo del pensiero e dell’azione umana la versatilità e l'universalità del suo talento poderoso, fu accusata di aver troppo seguito le idee francesi. Ma l’accusa è anti-stonica e anti-critica, quando si pensi che la Repubblica Partenopea non fu l’stituzione statale, derivata da rivoluzione nazionale, come Mario Pagano volle sempre che fosse, ma istituzione francese, presidiata da un esercito francese, il cui generale, Championnet, esplicitamente gli fece obbligo di non dipartirsi dalle basi costituzionali dell’anno terzo dell’era francese.

Doveva Mario Pagano rifiutare l'incarico — come opina Vincenzo Cuoco — da poi che alla sua libertà e alle sue facoltà di legislatore, che, naturalmente, devono essere sconfinate, si ponevano vincoli ?

Non entriamo nel grande, profondo spirito del Filosofo Martire, il cui pensiero è sempre più vivo, perch’ Egli dimostrò col martirio la verità umana e divina della dottrina insegnata e praticata. Certo, carità di Patria lo indusse ad accettare 1l'incarico da Championnet. Ma, nel momento stesso che lo accettava, pensava, indubbiamente, che la Costituzione doveva essere riplasmata, non appena la Repubblica Partenopea, forte di armi e dell’ unione spirituale e nazionale di tutti i suoi cittadini, avrebbe dato prova di bastare a sé stessa, alla sua conservazione e al suo incremento.

Ma la Costituzione di Mario Pagano, della quale vanno segnalate l'istituzione del Tribunale Censorio e quella del Corpo degli Efori, presidio della sovranità popolare, argine contro le gare delle fazioni e i sovvertimenti civili, non ebbe tempo di esser promulgata ed entrare in vigore.

Il cardinale Ruffo era alle porte di Napoli. E Mario Pagano, il quale, fin dal suo primo atto di governo, aveva ammonito il popolo festante della necessità di avere un forte esercito nazionale, lasciò il palazzo del governo e si recò al campo, per difendere, anche col braccio, la Libertà e la Patria.

Durante il suo governo, generoso fra i generosi, odiato da tutti i nemici della giustizia, perseguitato da molti, non si vendicò di nessuno. Citava sempre la lettera che Dione scrisse ai suoi nemici, dopo aver resa la libertà a Siracusa, e, come un Savio antico, ripeteva le parole che Vespasiano, elevato all’impero, mandò a dire ad un suo nemico : d’ora in poi io temo più nulla da te.

Fatta la capitolazione, e ricusata dalla Regina, Mario Pagano fu arrestato a bordo della nave, che lo doveva condurre in Francia, secondo i patti stabiliti fra Ruffo e Megeant.

Languì in carcere per più mesi, durante i quali fu il consolatore dei suoi compagni di martirio.. Le prigioni di Stato borboniche rivaleggiarono allora col carcere Mamertino di Roma, ai tempi della persecuzione cristiana, e con le prigioni di Atene, al tempo di Socrate. Per sorreggere quei suoi figli spirituali ad affrontare eroicamente il patibolo, nel sottoterra delle prigioni, Mario Pagano li intratteneva in discussioni filosofiche circa la felicità futura; Eleonora Pimentel Fonseca cantava; Ettore Caraf a sognava le legioni, che non ebbe al suo comando, per battere il Ruffo.

— Noi non avremmo violato la capitolazione, diceva. — Condotto dei primi al Tribunale di Speziale, Mario Pagano non volle difendersi.

Credo inutile ogni difesa; per continua malvagità di uomini e tirannia di governo, mi d odiosa la vita; spero pace dopo la morte.

Macerato nella carne, di cui non aveva più che un velo sottile, quasi trasparente, tutto in Lui era già immortale. Il suo pensiero, il suo genio raggiavano come un faro, sulla sua fronte.

Speziale, l'infame, che insultò tutti, anche Conforti, anche Cirillo, anche Manthonè, rimase sbigottito e conquiso da quello aspetto, da quella calma di Dio impassibile.

Mario Pagano non era più che un Pensiero, oltre il dolore, oltre la vita, oltre la Morte, un Pensiero diffuso per tutti i tempi, su tutte le genti.

Come uccidere quel Pensiero, che faceva tremar le tirannidi ?



***



Il martire passò l'ultima notte in compagnia di Domenico Cirillo, Vincenzo Russo e Ignazio Ciala, che avevano chiesto in grazia di morire insieme con Lui.

Fino all’alba, come Socrate, lesse loro e commentò il Fedone di Platone. Quindi ricevé il Sacramento. E morì, sereno come un Dio che non soffre, il 6 ottobre 1799.

« Mario Pagano — scrisse Carlo Botta — al quale tutta la generazione riguardava con amore e con rispetto, fu mandato al patibolo dei primi: era vissuto innocente, vissuto desideroso di bene: né filosofo più acuto, né filantropo più benevolo mai si pose a voler migliorare questa umana razza, e consolar la terra. Errò, ma per illusione, e il suo onorato capo fu mostrato in cima agl’infami legni, sede solo dovuta ai capi di gente scellerata ed assassina. Non fè segno di timore, non fè segno di odio. Morì quale era vissuto, placido, innocente e puro. Il piansero da un estremo all’altro d’Italia con amare lacrime i suoi discepoli che come maestro e padre, e più ancora, come padre che come maestro li rimiravano. Li piansero con pari affetto tutti coloro, che credono che lo sforzarsi di felicitare la umanità è merito, e lo straziarla delitto. Non si potrà dir peggio dell’età nostra di questo, che un Mario Pagano sia morto sulle forche. Il nome dei Borboni ne è insozzato, in eterno ».



***



Con Mario Pagano, la Basilicata ha dato alla storia del mondo il più grande filosofo della Giustizia e della Ascensione umana, alla storia d’ Italia il più grande martire della sua Libertà.



da: La Basilicata nel Mondo - 1924/27

Autore: FERDINANDO SANTORO

 

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