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Senise - "da: La Basilicata nel Mondo - 1924/1927"

Senise è posto a cavaliere di una collina di arenaria, i cui fianchi scendono, ad est, nel «fosso di Spaccone», inciso profondamente dalle acque, ad ovest, nella valle del «Calancone». La base della sua area triangolare è limitata dai «Giardini», appezzamenti seminatori e coltivati ad ortaglie, scendenti in dolce declivio verso il torrente Serapotamo. Le due strade di circumvallazione convergono al vertice nord e si allargano in una aperta spianata, detta di S. Biagio, che è un passeggio aristocratico. Ne partono due strade rotabili: l’una raggiunge la nazionale Sapri-Ionio, l’altra scende, in bella curva, alla parte bassa del paese, lo attraversa in tutta la sua larghezza e ne esce per raggiungere la vicina Noepoli. In quel piano, fuori l’abitato, si van costruendo palazzi e case, che formeranno un nuovo rione; nuove case sorgono pure nei «Giardini», per uso degli ortolani.
A chi guarda il panorama, le case sembrano addossate alle case, ma le vie interne sono molto regolari e quasi tutte parallele, come se fossero state costruite secondo un piano regolatore; sono però inceppate e deturpate da scalinate, scalette, scaglioni di accesso per i piani superiori al livello stradale. La pavimentazione è a ciottoli irregolari, a ripiani, i quali risuonano delle scarpe ferrate umane e degli zoccoli ferrati degli animali da soma. Le strade sarebbero meno sporche, se il paese non fosse eminentemente agricolo e avesse almeno dei pozzi neri e non fosse cosi chiuso e denso di fabbricati, per l'impossibilità di uno sviluppo edilizio laterale. E manca l'acqua, promessa sempre e che non viene mai; i lavori dell’acquedotto, che dovrà dissetare gli abitanti e purificare sono sempre in costruzione lenta, interrotta, mentre le due fontane fuori del paese non danno acqua ben potabile; d’estate si soffre per la scarsezza, anche se succedono delle scene curiose e dolorose, di giorno e di notte, tra i numerosi pellegrini attingenti la linfa contesa a gocce.
Senise ha molte e piuttosto vaste piazze: la piazza del Popolo, caratteristica per la vendita rumorosa degli ortaggi e per le scene di gelosia di mestiere, ha una lapide di Garibaldi e un’altra ai nostri morti nell’ultima guerra. Seguono gli altri «larghi» del Rosario, della Chiesa, di Mandarino, del Castello. I supportici di Barletta, di Giorgino e qualche altro con fabbricati soprastanti sono usurpazioni di suolo...aereo e di... ben altro. Restano ancora in piedi le porte di S. Antonio, della Piazza, del Convento, di S. Caterina, il Portello, che chiudevano, come in una cinta, il paese; esiste ancora qualche torre, e quella detta di Capalbo è sventrata dalla rotabile meridionale. Vecchi muri di fabbricati sono nei due lati esterni del paese: nell’orientale rione di Santa Croce, e nell’occidentale, (tratto dalla casa Corizzo alla casa Falcone) sono angiporti e vicoli stretti e archi e brecce, tra cui quella cosiddetta di Don Macario, in alto, domina la mole imponente del Castello, con avanzi di merli sulla facciata boreale, posseduto per l’addietro da vari signori feudali, oggi ridotto a palazzo guerriero, a caserma dei RR. Carabinieri e all’asilo d’infanzia, fondato dalla gentildonna Finetta Donnaperna Della Ratta, vi si ammirano vestigia della antica opulenza e vastità, tra cui un salone con decorazioni campestri sulle alte pareti. Tutto dimostra che Senise doveva esser ben fortificato contro invasori saraceni, e contro i briganti, d’infausta memoria.
Bei palazzi si ergono qua e là, di bella costruzione anche a due e a tre piani, regolari, simmetrici con cortili e sontuose scalinate, hanno per lo più la tradizionale grande sala di entrata con l’annesso capace focolare (focagna), con il salone da ricevere (galleria), e con altri ambienti e sottostanti stalle, cantine, magazzini, rimesse. Ben addobbati, ben provvisti di libri, di armi, di ritratti, di diplomi, di documenti storici, di antichi vestiti dimostrano opulenza e signorilità non recente. Qua e la casucce povere, ma non misere, fornite di ogni ben di Dio, specialmente di prodotti suini: certe case di contadini sono depositi di generi alimentari vegetali, e di animali.
La Chiesa madre, nel centro del paese, vasta, ha un alto campanile e tre sonore e grosse campane, orgoglio dei cittadini. La Chiesa del Convento, all’angolo sud-est, con interessante prospettiva, faceva parte di un grande Convento di Francescani, ora ne è avulsa per l’aperto passaggio della strada rotabile. Ha belle statue e quadri, tra cui quello della Madonna di Costantinopoli, e di altri santi, ma bestemmiata con questi o con tutti i santi del Paradiso, a cui per compenso poi si celebrano rumorose e dispendiose feste. Il coro a intagli e intarsi in legno, l’abside, con cornici dorate, varie sacre immagini, sono opere pregevoli. Un contiguo salone è ora ridotto a Teatro Comunale e a garage del servizio automobilistico, il piano superiore, che era la sala dei convegni monacali dei vicini conventi, è appena riconoscibile dalla pristina magnificenza. Altri fabbricati sono diruti o pericolanti; restano soltanto in buono stato quelli adibiti a scuole elementari, e ad uffici municipali, il cenobio, che fu sollievo corporale dei monaci, è ridotto a case private. Nell’atrio i cittadini memori innalzarono un busto al deputato Marchese Cesare Donnaperna; lungo le pareti dei corridoi si ammirano dei dipinti rappresentanti la vita di San Francesco, con sotto dei versi dichiarativi, che qualche monaco compose... con i piedi. La vasta mole ha subito le ingiurie del tempo e degli uomini. Sic transit gloria... monacorum.
Altra chiesa, non priva di pregi architettonici, era quella della Trinità, ora rasa al suolo, ne rimane soltanto la cappelluccia di S. Michele Arcangelo. Sparita è pure, per ragioni edilizie, la cappella della Pietà, rimangono ancora quelle del Rosario, di S. Caterina, di S. Biagio e un’altra ridotta a custodia di animali.
Di un convento, la Gancia, famoso e ricco, dapprima trasformato in case di abitazioni, poi stroncato dalla rotabile, non rimane che il nome alla contrada, presso la Porta di S. Antonio.
Una vecchia tradizione narra che il paese era posto più in basso, verso la confluenza del Serapotamo col Sinni, ma per la mortifera malaria fu abbandonato e fabbricato là dove ora si trova.
La tradizione avrebbe un fondamento nel significato del toponimo Senise, che vorrebbe dire luogo del Sinni e non già colonia di Siena.
I nostri buoni nonni favoleggiarono che un cavalier di Siena, un Senese, andando alle Crociate, avrebbe fondato il paese omonimo. E siccome Siena, colonia di Roma, ha per emblema una lupa che allatta un bambino, anche Senise volle assumer questo, ma la critica, a base di documenti, ha dimostrato che Senise è anteriore alle Crociate. Lo stemma si ammira in un libro del censimento del 1753 (Catasto generale della Terra di Senise in Basilicata), importante documento conservato in quell’Archivio Municipale. Altri documenti storici sono un inventano dei dritti, dei redditi e possessi del principe di Bisignano nell’anno 1546, di proprietà Falcone, e dei libri di battezzati che rimontano al 1600, custoditi dall’ Arciprete. Ma chissà, in tante vecchie case, quanti altri documenti sono relegati e dai quali si potrebbe ricavare la Storia di Senise, di cui io ho dato soltanto un saggio altrove (Le origini di Senise).
Nelle campagne circostanti si van trovando oggetti antichi e medioevali, di cui possiede una piccola raccolta il dottor Giacomo della Ratta: arredi sacri trovati nel «Pantano» son posseduti oggi dai Musei di Napoli e di Taranto.
Il manoscritto suddetto del 1753 è un modello del genere per la sua compilazione: contiene per ordine alfabetico di nomi, non di cognomi, e di casati, le famiglie, il nome dei coniugi, dei figli, col loro mestiere e professione, con l’elenco dei beni mobili e immobili. Le vigne erano dichiarate per uso proprio, onde erano esenti da tasse. Qualche curiosità: abbondavano le vergini in capillis, che erano specie di monache di casa, non regolari. Furbette le nostre antenate : si tagliavano i capelli finché non fossero richieste in matrimonio... E le nostre donne allora si chiamavano Sivilia, Lucrezia, Dianora, Finaddea, Rosalia, Porsia, Zenobia, Ortensia, Lavinia, nomi ora scomparsi. Tanti cognomi sono estinti : Mandarini, Cotugno... e i La Menza dal titolo di « magnifici », di cui ricordo due zitellone, che vivevano nel palazzo detto di Monsignore sopra la piazza del Popolo.
Senise celebrava, come un rito, due fiere annuali (1-2 maggio), (12-13 dicembre), accorsatissime per la vendita di animali e di merci.
Ancora, nel vasto piano campestre sul Sinni, si vede l’ultimo rudere di un fabbricato, che era lungo lungo, con alle due ali botteghe contigue, e con i due estremi chiusi da colossali porte: era quello il sacro tempio del commercio (logge del Mercato). Man mano che le fiere periodiche han perduto d’importanza e sono sostituite da fiorenti botteghe cittadine, il fabbricato è andato deperendo e diroccando e le pietre sono altrove trasportate, da mani rapaci. Nei pressi, oggi, per le fiere, si costruiscono delle baracche provvisorie di tavole, ma le vendite sono scarse tanto di animali, quanto di merci: l’allevamento del bestiame, specialmente ovino, che costituiva una nostra grande industria, è molto ridotto. Le merci si vendono nei negoziucci dei paeselli nostri, importate per ferrovia e traini e camzons; qualche paese si serve ancora, per l’importazione, del Via vicale ottaianese, come nei passati tempi: egli va e ritorna da Napoli in provincia, su traini pesanti, a lunghe tappe portatore di merci commissionate.
Senise ha bei negozi provvisti di ogni genere ed è come l'emporio delle contrade vicine della valle del Serapotamo e del Sarmento e del medio e basso Sinni. Non ha industrie manifatturiere, se non per bisogni interni, invece è dovizioso esportatore di prodotti agricoli, tra cui abbondantemente gli ortaggi, che rendono molto ai laboriosi ortolani. Questi, nei vespri, specialmente estivi, si avviano pei paesi finitimi, a vendere ogni varietà di verdura e la polvere di peperone raffinata, piccante in varia gradazione. Io non ho visto, non so di ortolani più laboriosi e industriosi di quelli di Senise. Le loro cavalcature portano le pesanti some ed essi, a piedi fino a 10, 12 ore e più, di notte e di giorno, spesso assonnati, aggrappati spesso alle code dei loro somari, scendono, salgono, girano, per vie mulattiere, su sentieri, per letti di fiumi, attenti ai precipizi, affannosi. Quante volte han lasciato le stanche membra in fondo ad un burrone! È uno spettacolo che desta ammirazione per questa connaturata forza e attività, e pietoso ribrezzo, pensando che tutta quella fatica di schiavi, di paria si potrebbe risparmiare con un servizio di trasporto rotabile, sul quale io richiamai 1’attenzione in un giornale di Basilicata. Ma chi organizza, per questo santo scopo, quei martiri del lavoro?

La superficie del comune è di ettari 18041, tra territoriale, agraria, e forestale: le «masserie» a produzione di cereali, con allevamenti di bestiame, costituiscono il principale provento dei proprietari. Le piantagioni della vite vanno sempre più estendendosi, con arte e con cura : ci son contrade veracissime di vini prelibati rossi e bianchi, ma non si sa produrre un tipo unico e l’esportazione resta limitata ai dintorni.

Artigiani, professionisti di ogni sorta lavorano, lavorano incessantemente, e sono tutti agiati, sono ricchi molti contadini, son pochi i «perditempo». Ma si emigra sempre: il contadiname emigra, 1’artigianato emigra, emigra lo spostato, il decaduto; si emigrerebbe ancora di più, se recenti restrizioni non lo impedissero. Nell’ America latina molti Senisesi si son formati una vistosa fortuna, pochi son rimasti poveri. Ma nessuno di quegli arricchiti è tornato per sempre: viene, butta un pò di danaro e ritorna alla fonte della sua ricchezza. Nessuna loro opera notevole, generosa, tra noi. Soltanto qualcuno con modesto peculio ha rifatto la casuccia avita, ha migliorato il campicello e si è trovato possessore di immobili per prestiti non soddisfatti, da coloro che aspettano, cercano «l’americano», per rinsanguare la loro azienda o per pagare vecchi debiti. Le casse postali di risparmio dicono, poi, quanto danaro mandino i mariti alle mogli.

Nel primo cinquantennio la popolazione aumentava, nel secondo è andata diminuendo.



Affacciamoci ad una finestra del paese, esposto a mezzogiorno.

Ecco in lontananza le propaggini del monte Pollino: invernate nevose, aspre giogaie, valloni precipiti , selve di abeti , casupole sparse radamente, ricettacoli sporadici per le pendici, sedi estive di greggi belanti, muggenti, brucanti fresche erbe, che danno saporosi latticini.

Alla nostra sinistra, su un cocuzzolo, l’alta Noepoli, con lo sfondo delle sue «porticelle», che sono sprofondamenti di frane e picchi di erosione meteorica. Giù, le rive del Sinni con «Massa-nuova », « Scazzanello », il « Sicileo », al quale le donne vanno a legnare e ne portano sul capo la redditizia soma, come bestie...

Ecco le rive opposte del Sinni, congiunte finalmente da un ponte; ecco il fiume sacro alla Storia della Magna Grecia, ripetente per millenni le strofe delle belle donne dal perfetto profilo e i canti delle lavandaie discinte, tuffati gli stinchi nudi nelle acque. Il fiume scende allargato tra rive boscose e terreni colti, che voracemente corrode nelle piene invernali. Deviato da rocce, forma un gomito e batte le sue acque sulle falde di un altipiano granifero a destra, di un piano feracissimo a sinistra, e strappa al laborioso contadino ulivi, orti, vigne, frutteti nelle contrade Pantanello, Pegno, Ischia, Pantano, Imbarco.

A destra, monti e montagne: il paese di Chiaromonte, nido di aquila, sorride civettuolo nel vasto orizzonte, il crinale, su cui è posto, degrada fino all’altipiano del Vesciglio, che allarga la visuale di Senise posto dirimpetto, a 353 metri, visuale allargata anche dalla valle tangente del Serapotamo, che sale fino al monte Alpe di Latronico e ha ripe scoscese verso i paesi di Calvera e di Carbone. Il suo divino paesaggio incomincia dal ponte che congiunge le rive distanti e continua fino alla sua confluenza col Sinni. Il ponte meraviglioso, a chi lo passa andando verso Chiaromonte, offre una veduta incantevole: la strada s’inoltra tra una natura lussureggiante, con sfondo il bosco del Fiego, lungo il quale la strada continua in molte ricurve, fresca, carezzata da rami pendenti, mentre lo sguardo si allarga si allarga sempre e sempre ti stan davanti i vasti letti biancheggianti della fiumana e del fiume e scopri sempre più lontani orizzonti.

Questa lussureggiante vegetazione, irrigata dal duplice fiume, è spesso impaludata, onde la febbre malarica che abbatte, spossa, uccide, i lavoratori dei campi ne sono attaccati negl’infausti mesi di agosto e settembre, ma, dopo pillole o iniezioni di chinino, tornano agli usati lavori, e nell’inverno spesso sono inchiodati nel letto o su una sedia, vicino al focolare, dove battono i denti e treman di freddo, con davanti il fuoco ben nutrito. Che doloroso contrasto questa malaria in una conca tanto sorrisa dal verde.

Sui campi salenti dal Sinni e dal Serapotamo, in piano ubertoso, occhieggiano i «Cappuccini» nascosti tra ulivi e acacie; son ricordati nella storia boccaccesca di un tal Fra Maurizio, in quarantasette ottave del poeta cittadino Pasquale Antonio Crocco: « V’era in Senise, pria d’esser soppresso, Un conventin di frati capbuccini.... » con quel che segue, ma che io non posso riportare. Vi si ammira una bella chiesetta con altari e quadri pregevoli; l’edifizio è ridotto a casette campestri.

Il posto è un dolce loco romito di pace, quale fu per il nostro poeta Nicola Sole, il grande poeta nato a Senise, e che colà passò molti anni, all’ombra di un salice, immortalato da un suo canto. Immortali risuonano nei suoi versi luoghi e memorie della contrada i cui vivi e svariati colori, i limpidi ruscelli, gli usignuoli canori, tante scene campestri plasmarono la sua armonia. Senise fu la sua culla e la sua tomba.

Più verso il paese, il Camposanto, di recente rifatto e allargato con belle tombe, sacre alla memoria dei nostri poveri morti.

Presso il casino Crocco, in contrada Misossero, la « Salsa », che è una serie di pozzetti di acqua salata, cangianti spesso posto, intorno alla quale la leggenda ha ricamato tante false credenze. L’acqua salata è stata sempre attinta per usi domestici e probabilmente ha relazione cogli stillicidi di petrolio della vicina Cersosimo, a loro volta continuazione di vaste zone petrolifere, il cui sfruttamento, è, dopo Dio, l'idea fissa del Sacerdote Fucci.

Alle nostre spalle, colline aperte, su cui fan bella mostra parecchi casini, refrigerio dell’estiva caldura. Dappertutto campi : non, un palmo di terra che non sia coltivato, ovunque ulivi, querce, fichi, viti, meli, peri, cotogni, ciliegi, sorbi, ortaggi...tutto ogni ben di Dio ha questa conca d’oro ! Casucce rustiche, e pagliari, casini e casupole, ricoveri preadamitici spiccano sui poggi, sui ciglioni, o son nascosti tra il fogliame.

Diamo un ultimo sguardo al panorama, abbracciamo, in un solo sguardo, monti, piani, valli, fiumi, paesi nel verde perenne, in un vespro, in cui il sole occiduo manda i suoi ultimi bagliori sull’Alpe di Latronico, e salutiamo i comignoli fumanti per gl’imminenti desinari...e auguriamoci che un giorno su questi raggi solari si spandano i nugoli del fumo di una vaporiera, il cui fischio risuoni per queste deliziose convalli, e i carri ferroviari portino via i nostri abbondanti prodotti.

La luce elettrica si impianta, la ferrovia verrà, l’acqua verrà, la malaria dovrà essere fugata e allora, o bella Senise, il tuo destino sarà compiuto e ascenderai sempre più le vette della civiltà, a cui hai dritto.



da: La Basilicata nel Mondo - 1924/1927

Autore: PAOLO DE GRAZIA

 

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