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LA "LINGUA DELLE RONDINI"
A proposito di un saggio su Albino Pierro

I libri premiati nel 1994 per la sezione saggistica dei Premio Basilicata propongono, per vie assolutamente diverse e con obiettivi opposti, entrambi il problema della lingua. II saggio di Nicola De Blasi (1), l'italiano in Basilicata (Potenza, II Salice, 1994, pp. 223), excursus storico, dal Medioevo ai nostri giorni, dell'introduzione, assimilazione e caratteristiche regionali dell'italiano in Basilicata, è un lavoro prezioso, che sintetizza i dati delle ultime ricerche e contribuisce, in modo sostanziale, a ritrovare o meglio a scoprire ex novo un'identità più precisa per una regione così spesso incapace di sentirsi autonoma.
II saggio di Luigí D'Amato, premiato anch'esso per la sezione saggistica, si concreta sull'attività letteraria di un singolo autore, che opera un cammino inverso nella lingua, partendo dall'italiano e giungendo a riconquistare, attraverso lo scavo interiore, il dialetto, che diventa la cifra poetica di un mondo irreale, sospeso, simbolico. li saggio del D'Amato, significativamente intitolato Le parole ritrovate- Una lettura di Albino Pierro (Venosa, Osanna, 1993, pp. 192) descrive un itinerario della poesia del Pierro, dalle raccolte poetiche in italiano (Liriche, 1946; Nuove liriche, 1949; Mia madre passava, 1955) alla scelta del dialetto, scelta diversificata nei tempi e nei modi: sperimentazione nelle prime raccolte (A terra d'u ricorde, 1960; Metaponto, 1963; l`nammurete, 1963; Nd'u piccicarelle di Tursi, 1967), deciso espressionismo in quelle più recenti (Famme dorme, 1971; Nu belle fatte, 1975; Si mascre, 1980; Nun c'è pizze di munne, 1992). Nella scelta del dialetto, Pierro indica una strada, trova una soluzione personale alla dissoluzione del linguaggio poetico. Tra gli anni '50 e '60 "alla confluenza [...] di istanze e orientamenti nuovi di segno ideologico ma anche estetico diverso, ogni intellettuale o artista italiano che ha conosciuto la stagione idealistica e crociana deve mediare attraverso la questione tecnica del mezzo espressivo, del codice, la sua concezione dell'arte e il suo rapporto con la realtà" (L. D'AMATO, op. cit., p. 166).
La scelta dei dialetto, quindi, di questo tursitano arcaico che il Pierro si porta come bagaglio del mondo dell'infanzia, è in sintonia con gli sperimentalismi del dopoguerra e, contemporaneamente, con l'interesse che il mondo contadino meridionale e, in particolare quello lucano, suscita dopo l'uscita dei Cristo si è fermato a Eboli di Carlo levi dei 1945, delle raccolte di Rocco Scotellaro (E' fatto giorno, 1954; L'uva puttanella, 1956; Margherite e rosolacci, postumo 1978) e degli studi antropologici del De Martino (Sud e magia dei '53; Furore, simbolo, valore del '62).
La scoperta dei dialetto "assume il tono religioso di una rivelazione: la parola vivente dei dialetto, che è pur condannato a morire, a diventare lingua dei morti, è paragonata esplicitamente all'annuncio evangelico della resurrezione" (2).
Si è richiamato spesso, a proposito di Pierro e dei suo legame con Tursi, l'intimo rapporto che legò leopardi a Recanati - lo fa lo stesso Folena nell'articolo citato -, ma è un altro grande della letteratura italiana a costituire un antecedente decisivo per la poesia pierrana. Mi riferisco, com'è facile intuire e come spesso è stato sostenuto, al Pascoli e, insieme, al Pascoli del Fanciullino e a quello dello sperimentalismo linguistico simbolista. Pierro torna all'infanzia e ciò che ha visto, o meglio ciò che non ha visto (per una malattia fu costretto a letto bendato) costituisce materia fondante della sua poesia, radice mitica in un tempo hegelianamente fermo all'alternanza delle stagioni. Anche Pascoli resta "fanciullo" per evocare la poesia, dialogo continuo dell'infanzia con le cose della natura, ricordo di un'età dell'oro tramontata e ritrovata solo nel furor creativo.
Lo sperimentalismo pascoliamo, di cui parla Contini (3) - non a caso scopritore di Pierro (4) - mi sembra ben rappresentato da alcuni versi di una prima redazione della poesia Romagna (5) inclusa poi in Myricae senza questa prima parte, ricostruita e riportata da Maria Pascoli:

Deh! Ridiverde, come lo voglio io
quel ribechino che tu scorabilli
e suvvi tesser fila a parer mio,
fila d'argento, che squilli e scintillí! (6)

Ridiverde era l'amico e compagno di studi Severino Ferrari e la strofa, come si vede, è un insieme di onomatopee lontane dal significante o quantomeno oscure, che dimostra quell'interesse alle lingue, che per Pascoli fu fondamentale e non solo nel suo lavoro di poeta (Si ricordi che il Pascoli fu professore di latino e greco nei licei, di grammatica latina e di letteratura italiano nell'Università; è noto anche il suo interesse filologico per i testi classici e per lo studio delle lingue in senso scientifico). Per il pubblico non tursitano che legge Pierro, le poesie hanno lo stesso effetto non-sense, scrosciante di quei quattro versi pascoliani, come un motivo che non si riesce a dimenticare: è, per questo, io ritengo, che sentirle recitare dal poeta stesso - come egli fece in occasione del conferimento della laurea honoris causa all'Università della Basilicata o come è riportato in una videocassetta prodotta dalla Regione - fa l'effetto di una pioggia di sassi, dove si coglie innanzitutto, io strappo della vita, la sua crudele intensità.
Pascoli è essenziale nel richiamo all'uso che Pierro fa del dialetto, quella lingua morta, la lingua "gitana" delle rondini, la lingua "che più non si sa" (7), che trova il poeta balbettante a cercare non tanto il senso profondo delle parole, quanto la loro musica interiore, la danza che le raduna semanticamente.
 


NOTE
1 Dello stesso autore si veda il saggio La Basilicata, in L'italiano delle regioni. Lingua nazionale e identità regionale, a cura di Francesco Bruni, Torino, Utet, 1992, pp. 720-750.
2 G. FOLENA, Per Albino Pierro, a Stoccolma, in AA.VV., Pierro ai suo paese, Atti del convegno di Tursi 30-31 ottobre 1982 su "Lo poesia di Albino Pierro" a cura di Mario Marti, Galatina Congedo, 1985, p. 250; cfr. anche A. PIERRO, A terra d'u ricorde.
3 Cfr. G. CONTINI, Lo singolarità del linguaggio pascoliamo, in V. BRANCA C. GALIMBERTI, Civiltà letteraria d,Italia, Saggi critici e storici, Firenze, Sansoni, 1964, v. lll, pp. 678-689; Il linguaggio di Pascoli, in Variantí e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 219-224,
4 Cfr. G. CONTINI, postfazione alla raccolta del Pierro Com'ogghi' a fè?
5 La poesia apparve sulla "Cronaca bizantina" il 1` dicembre 1882 con il titolo Colascianata I a Severino Ferrari Ridiverde e appartiene alle prime prove del Pascoli. Il poeta, che a quel tempo insegnava a Matera, non la vide perché nessuno si curò di mandargliela e a Matera la "Cronaca bizantina" - ahimé - non arrivava.
6 M. PASCOLI, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Memorie curate e integrate da A. Vícinellí, Milano, Mondadori, 1961, p. 162.
7 Cfr. A. ANDREOLI, immagini metaletterarie nella poesia tursitana di Albino Pierro, in AA.VV., Pierro al suo paese: dieci anni dopo, Atti del Convegno di studi, Potenza, 12 maggio 1992, Galatina, Congedo, 1993, pp. 21-31, e, in particolare pp. 24-25.

 

    Testo di M. Teresa Imbriani
 tratto da  "BASILICATA REGIONE Notizie, 1995


 

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