PARTE IX
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Via Pretoria verso Piazza Sedile, sulla sinistra
il Palazzo Navarra, al suo posto sorse la Banca
d'Italia. |
« La Strara
stretta cumm' a nu stintine / storta ca nunn' s' vere principe o fine /
ma pare fatte apposta cumm' a nu cuscine / p'arreposà l'aggente sera e
matine ».
Certo, « la Strara » è la Via Pretoria, la prima, vera, grande via della
città. Bestemmiata, odiata, amata da forastieri e putenzesi sempre in
ogni epoca e da tutte le generazioni, che si sono succedute, ma da
sempre il cuore di Potenza, il punto di incontro « gn' veremme p' la "
Strara " », il luogo della passeggiata serale « gn' fascemm' nu gire p'
la "Strara " » e fu punto di riferimento dei perditempo e degli
innamorati ma anche delle massaie e degli uomini d'affari, degli
studenti come degli artigiani e contadini.
Fu il ritrovo obbligato perché tutto avveniva e si svolgeva in via
Pretoria, fu il punto di richiamo in alcune occasioni, le feste, ma fu
anche il punto da visitare per necessità perché i negozi, da quelli
alimentari a quelli per abbigliamento, da quelli che vendevano scarpe o
chiodi, erano tutti in via Pretoria. E la « Strara » non rimase mai
sola, né nei giorni feriali e, tantomeno, nei giorni festivi, con punte
di maggiore affollamento, senza distinzione se la giornata era festiva o
lavorativa, da mezzogiorno alle tredici, tredici e trenta e dalle
diciannove alle ventuno, ventuno e trenta.
I clienti più assidui furono, e lo sono ancora oggi, i giovani, che, con
il calore e il colore proprio dell'età, le attribuivano l'aspetto
gioioso, scherzoso, anche perché « la uagliona » si cercava e si
incontrava solo a via Pretoria, e i giovani erano disponibili soltanto
in quelle ore, quando uscivano dalle scuole e quando avevano finito di
studiare o di lavorare.
Ma lo « struscio p' la Strara » piaceva un po' a tutti, curiosi e
abitudinari, giovani, anziani e vecchi, professionisti, artigiani e
contadini, uomini e donne, piaceva per vedere e per farsi vedere, per
ammirare e criticare, piaceva a chi « s'avìa 'mpustà cu lu variniedd'
nuove » ma anche a « lu strazzare e male vesture ».
Gli stessi forestieri, quelli di passaggio per Potenza e quelli che vi
abitavano, superata la prima fase di curiosità per questa « Strara », di
cui tutti parlavano, divennero degli abitudinari e, forse, più
abitudinari degli stessi putenzesi. Insomma, la strada dalle mille
contraddizioni e che era capace di suscitare sentimenti diversi e
contrastanti, era capace anche di penetrare nella mente, nel cuore,
nell'animo di tutti e tale da diventare una specie di « frieva... di
malatìa... di paccìa » e per tutti. t difficile pigliare sonno a stomaco
vuoto ma era ancora più difficile senza aver fatto almeno « nu gire p'
la Strara ».
Perciò ha ragione il poeta: « a ogni puntone gn'è tutta na storia /
vecchia e ormai luntana nuova e viva / storia d' 'rrise d' lagrime e d'
boria / ca tu conti e dicci senza tante evviva ».
Ed è la storia di Potenza, dei suoi uomini, dei suoi avvenimenti, è la
storia dei putenzesi, di quelli che vissero a Potenza, di quelli che
passarono ma non la dimenticarono nè furono dimenticati.
Perché, continua il poeta: « ... Hai visto tutto e tutto hai suppurtà /
ciucce machine zampitte e lu scarpine / 'cchì s' la spassava e 'cchì gìa
a fatìa / facce scure e saluti cu l'inchine / mali cristiani e tanta
gente degna / ch'ha onorato e onora tutta la città / puteie brutte e cu
li 'pporte a 'ddegna / lu neozie alihante e ca t' fà 'ncantà... ».
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Starace a Potenza fra Prefetto e Federale ...
Ebbe tutti i difetti ma seppe « vivere un giorno da
leone »...
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Quell'uom
dal fiero aspetto? ... Macché. ...solo effetto divisa ... perché
scelse « cento anni da
pecora ».
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E proprio dai
negozi « cu li 'pporte a 'ddegna » che partono i miei ricordi della via
Pretoria e con i ricordi delle porte vi è il ricordo della
pavimentazione a basole di pietra, che di tanto in tanto e, quando
diventavano lisce e lucide, per l'uso, venivano « spuntate », cioè
battute con il mazzuolo a punte dai maestri della pietra.
Da allora cominciano i miei ricordi di personaggi, negozianti, amici
visti e conosciuti per la via Pretoria, i ricordi dei solenni funerali
della gente ricca o che contava, ma anche della gente comune perché
ognuno ci teneva a non fare brutte figure ed anche per il rispetto al
morto.
Il ricordo delle sfilate per le adunate oceaniche e vi erano tutti, «
putenzesi e frastieri », si cominciava con i figli della lupa (i più
piccini) e si continuava con i balilla, gli avanguardisti, le camice
nere della prima ora, della seconda, della terza, la Milizia Volontaria
Sicurezza Nazionale, alla cui testa, pettoruto più che mai, ricordo il
Console Torraca, ne aveva la stazza, circa due metri di altezza per
circa il quintale e mezzo di peso, non è difficile riconoscerlo nella
mia documentazione fotografica. E poi, ancora, le donne, dalle giovani
italiane alle massaie rurali, gli ex-combattenti con insegne e medaglie
(qualcuno anche la medaglia della prima comunione) e la via Pretoria
rimbombava di passi cadenzati, di eiaeia-ala-là, di canti patriottici,
con fanfare e tamburi, in una selva di stendardi e gagliardetti, di
braccia levate nel saluto ro mano. Vi erano tutti anche quelli che, dopo
la caduta del fascismo, si affrettarono a professare altre fedi, ed
erano in prima fila tronfi e pettoruti, e guarda caso, sono stati in
prima fila anche in altri partiti e, esclusi i morti, sono in prima fila
anche oggi e, con molta faccia tosta e senza alcun pudore, sono pronti a
dare del « fascista » a chi, sia nella forma che nella sostanza, con il
fascismo non ha avuto mai a che fare.
Sicuro vi erano anche i preti con zimarra e fregi e come erano marziali
e il passaggio davanti alla tribuna delle autorità aveva del grottesco,
passo dell'oca con ampi movimenti degli arti superiori, già goffo di per
sé se fatto da persone fisicamente idonee, tale da fare «" scompisciare
dalle risate » (per rubare una simpatica frase di Toto perché quanto mai
azzeccata) quando era eseguito da panzoni e artrosici in difficoltà di
equilibrio e di respiro, specialmente quando veniva
comandato « l'attenti a » (destra o sinistra) a seconda del lato dove
fosse stata sistemata la tribuna.
E se i pretini erano in fila con gli altri a marciare, sulla tribuna fra
le accurate divise dei capi, fra labari e gagliardetti faceva spicco,
con stola e mozzetta, il nostro Arcivescovo e non mancava mai, così come
non si scordava mai, a conclusione della Santa Messa, di recitare la «
Preghiera per il Duce e per il Re ». E. fin qui, direi, poco male
perché, in fondo, il Concordato l'aveva voluto e concluso il Duce e un
pizzico di riconoscenza, dimostrata con una semplice preghiera, era
quanto meno si potesse fare ma la vita, almeno per le persone, che sono,
si credono, o sono ritenute di una certa qualità morale e culturale, non
è soltanto apparenza, forma, convenienza ma dovrebbe essere anche
sostanza e coerenza. Il passato non si rinnega perché ci appartiene ed è
documentato; è chiaro che, se fu cattivo, non bisogna ricostruirlo e per
non ricostruirlo bisogna fare diversamente e meglio e per fare
diversamente e meglio ci vogliono qualità perché il cammino di un
qualsiasi rinnovamento non è fatto di propositi e preghiere ma di
conoscenza, idee, programmi, opere altrimenti si cade, come siamo
caduti, in « quel fascismo grigio », di cui Lucio Tufano, nel già citato
articolo, si occupa con durezza spietata, anche se sofferta, ma con
veritiera chiarezza.
Certamente, non me la sento di aggredire quei due poliziotti, di buon
fiuto, che, durante il loro lungo periodo di servizio, arrestarono i
fascisti prima del 1922, gli antifascisti durante il ventennio e ancora
i fascisti dopo il 1945, era il loro mestiere e per questo venivano
pagati ma quelli « della prima fila o della tribuna d'onore » penso che
avrebbero fatto meglio a mettersi da parte, se non proprio a sparire.
Probabilmente trascinato dalle amarezze e delusioni del dopo-guerra
anche io mi feci incantare dalla politica ed entrai in un partito, non
ricco né di massa, mia madre, d'altronde, me l'aveva sempre detto « dove
sono pochi e sono poveri là ci sei sempre tu », nientemeno che nel
Movimento Sociale. Non l'avessi mai fatto, però, io non me ne sono mai
pentito perché è stata una esperienza in più nella conoscenza degli
uomini o, per meglio dire, nella conoscenza della ipocrisia, della
cattiveria, dell'affarismo degli uomini.
Il nostro popolo non ha difettato, certo, di spirito servile ma nemmeno
ha abbondato in coraggio e, questo, a mio avviso, ha determinato non
solo la stazionarietà delle nostre misere condizioni della nostra vita
umana e sociale, ma, addirittura, il regresso nel progresso de gli
altri. Nessuno li cacciava di casa il 21 aprile, Natale di Roma, il 28
ottobre, la Marcia su Roma, il 24 maggio ecc. ecc. ma non mancava
nessuno e tutti avevano la divisa, che indossavano impeccabilmente e con
molto sussiego ed anche con tanta spavalderia. Alcuni, e non è una
storia creata dalla mia fantasia, andavano a letto, la sera precedente,
già in divisa per poter essere tra i primi all'adunata del giorno dopo.
Malinconie, tristezze, certo, ma ogni epoca ha avuto un suo volto
esteriore perché nella sostanza ogni epoca è stata fatta e dominata
dagli uomini e gli uomini sono stati, sono e saranno... benpensanti e
accomodanti... « tiegne li figli 'ncasa » « 'cch' aggia fà » « chianta
lu zippe add'ò vole lu patrone » « Attacca lu ciucce add'ò vole lu
patrone » ... anche se i Sindacati sbraitano contro il padrone
ma... a parole perché anche loro attaccano lu ciucce add'ò vole lu
patrone. Anche Pietro rinnegò Gesù, e per ben tre volte, al cantar del
gallo, e che l'abbiano fatto quelli che Pietro non erano al cantar delle
bombe americane poco male a dimostrazione che la vita è bella ed è tutta
da vivere.
Di serio resta soltanto la via Pretoria, che narra nel silenzio, che
parla senza enfasi e senza atteggiamenti, che « nunn s'è ammiscà cu la
spurcizia ca stu monne tene... » ed è per questa sua caratteristica
intima, di certo superiore alla sua esteriorità, in alcuni tratti
deturpata dalla mano degli uomini, che è entrata nell'anima dei poeti e
non soltanto dei poeti nostrani.
Glauco Rino Nesi, toscano, poeta e scrittore, divenuto amico della
nostra città, non si è sottratto al fascino della « Strara » ed alla «
Strara » ha dedicato dei versi stupendi, un monumento di sincerità, di
affetto, di verità. Sono l'espressione di una particolare sensibilità
intellettuale, spirituale, umana verso la « Strara » che, nel corso
degli anni, ha superato se stessa, la sua natura materiale e si è
spiritualizzata perché si è fatto libro di storia, di storia umana e
civile e, perciò, vicina ai poeti: « Spruzzato dal profumo della sera /
infittisce il passeggio / a via Pretoria, salotto buono / della casa
avita. / Ogni piede che va, ogni parola / seppure non sbocciata / è
mossa d'un telaio / che intreccia — e non lo sa — / il buffo indovinello
della vita. / Ma quando è notte piena, / coi refoli del vento / (monello
senza età) che gioca a rimpiattino / tra sdruccioli e quintane / si dan
convegno l'ombre: / nel silenzio / leggero si diffonde / il sussurrio
dei morti / risorti a benedire la città. / Il bel salotto / della via
Pretoria / si fa libro di storia ».
La via Pretoria, dunque, è la nostra storia, lo afferma, con squisita
dolcezza, il poeta fiorentino Glauco Rino Nesi e lo afferma, con l'amore
del figlio, il nostro poeta dialettale Mario Albano in una sua poesia
del 1951 dal titolo semplice e secco: « Via Pretoria ».
« Gn'è tanta gente ca disce ca sì brutta / forse pecché sì vecchia donga
e stretta, / sta gente nun lu sà o lu fà apposta / ca tu sì pure 'npò la
storia nosta! / Sì tu la storia d'ogne Putenzese, / d' quedde 'rricche o
senza nu turnese. / Tu ca n' vire 'mbraccia a la cummara d' gì a lu
battezze appena nare, / n' vire, pò 'cchiù tarde, gì alla scola / e
'cchiù ranne cementenne la figliola, / n' vire, doppe, zite p' 'stà
strara / cu na sposa ricca o sfasulara ».
E Mario conclude la sua poesia, che gli amici del dialetto e di Potenza
potranno rileggere nella sua raccolta di poesie dal titolo « Cuntana
d'Aprile », così: « Perciò quedde ca vire nunn' t'importa / pecché tu
varde ma 'rresti sempe storta. / Forse è vere sì na brutta strara / ma
p' li putenzesi tu sì cara ».
Sarà anche una brutta strada ma per noi potentini è tanto cara e non
sopportiamo che altri ce la disprezzino, con incoscienza e
superficialità, si ribella Mario Albano in un'altra poesia, facente
parte della stessa raccolta, dal titolo « Pretoria afflitta » e scritta
nel 1982: « Ma nunn' è tutte quì lu chiante amare, / t'hanne chiamà «
Budello » / quest'è na curteddara all'anzacrese / e chi l'ha ditte o
nunn' è putenzese / o d' tì nunn' sà nisciuna storia: / mieglie farrìa a
gì a scavà cicoria! ».
Ma si ribella, anche in versi scritti in dialetto, e non in dialetto
potentino ma di Brindisi di Montagna, suo paese di origine, Domiziano,
Viola, putenzese di adozione, Ispettore Scolastico per tanti anni,
funzionario integerrimo, uomo probo, onesto, di intelligenza pronta e
vivace, di notevole cultura specifica e generale, poeta dialettale
efficace, piacevole, brioso, dalla vena satiricamente sottile e
pungente.
Ebbe casa in via Pretoria e da quel suo balcone, di fronte a
Ignomirelli, vide, osservò, elaborò e fissò in versi, di facile lettura
e ben comprensibili, figure, scenette, ambiente paesano e, complice il
dialetto con la sua forza espressiva, con perizia descrittiva non comune
riuscì a presentare tutto vivo e vitale, quasi come in una sequenza
cinematografica: « Tanta vote m'arrabbia chissà quante / a sente dice
male di Putenze; / Ie diche sì, nunn' è città 'alante / cum 'a Napule, a
Rome o a Firenze, / ma pò a ietterla 'nterra cume face / chiù dune non
di qua, ca li difiette, / a truvarle o a 'ngrannirle si cumpiace, / è
cumm' a dirne male pi dispiette.
Pò la Pritoria è proprie birsagliate: / chi la chiama vinedde e chi
stintine, / addù camine a spinte e 'umitate, / tra omene, signore e
signurine.
Ma nunn' me fa, ti preghe, 'u chianciluse / a dice sempe male di
Putenze. / Sti criticanti, certe sò malanne / ca fanne veni proprie a
picundria: / sò gente, ie penze, ca addù vanne vanne / portene u murmurà
p cumpagnie ».
Certo, sono versi dedicati a Potenza dall'Autore e che io definirei un
omaggio, forse, doveroso ma, certamente, di squisita gentilezza, quasi
un bouché di fiori ,alla città che lo ospitava, un omaggio, non vorrei
essere accusato di retorica, da vecchio cavaliere e gentiluomo. E
Domiziano Viola scrisse tante poesie, ma come è accaduto a molti della
Basilicata, le scriveva e le conservava nei suoi tiretti, solo qualcuna
era stata pubblicata e qualcuna, musicata dall'ottimo maestro Nicola
Orlando, ebbe fortuna temporale. Ha lasciato un grande patrimonio
culturale e un immenso contributo alla vita ed alla vitalità del
dialetto, un patrimonio che sarebbe andato perduto se il figlio Aldo,
con l'amore per il padre, umano e comprensibile, ma anche per
particolare sensibilità verso la cultura, in genere, ed il dialetto, ha
raccolto in un libro, che sarà presto in libreria a disposizione degli
amici, degli appassionati e cultori delle cose di casa nostra.
La « Strara », dunque, della storia della città, sufficiente alla sua
funzione nei giorni feriali e comuni ma che diventava assolutamente
insufficiente nelle grandi occasioni e nelle festività ed ecco perché è
stata e, forse, è la via odiata e amata ma ricordata da tutti e cantata
dai poeti.
Naturalmente la sua importanza fu determinata dall'apertura della Piazza
dell'Intendenza o del Mercato, oggi Piazza Prefettura, che avvenne dopo
il 1840, perché tutta la vita cittadina era concentrata alla « Chiazza »
per antonomasia, la Piazza Sedile, e solo « la Chiazza » e la Chiesa di
San Gerardo furono i luoghi delle feste, della folla, del chiasso, degli
appuntamenti, degli incontri.
Credo sia doveroso che io ricordi per prima la festa di San Gerardo, sia
perché festa del Patrono della Città e, quindi, festa del decoro e
dell'interesse cittadino e della Chiesa Potentina e sia perché festa non
solo gioiosa del popolo ma festa di fede popolare e sia perché alla
festa di San Gerardo si collega la Sfilata dei Turchi.
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La Festa del
Patrono non era, certo, affidata al caso ed alla improvvisazione ma alla
sua organizzazione e riuscita si lavorava per tutto l'anno. Appena
finiva una si nominavano i procuratori per la festa dell'anno dopo.
I procuratori erano persone di rispetto, scelti, quindi, tra ricchi
proprietari e fra speciali rappresentanti delle varie classi sociali e
dovevano essere nelle condizioni di garantire, comunque, la riuscita
della festa, in proprio o con i fondi raccolti tra la gente, che
dovevano essere spesi e spesi bene. Ma la gente era generosa sia per
devozione ma anche per l'orgoglio e il piacere di avere una bella festa,
per ricordarla e per farla ricordare pure ai forestieri. Contribuivano
in natura con il grano, i granoni, il vino ed anche con i soldi e la «
cerca », la questua, durava tutto l'anno.
Ricordo che in tutti i negozi vi era « l'angiliedde », un salvadanaio,
con la figurina di San Gerardo, dentro cui finivano gli spiccioli, che
la gente riceveva di resto. Era un contributo non obbligato, volontario,
ma si faceva volentieri, accompagnato dal segno della croce e da un
invio di ripetuti baci verso l'immagine del Santo, tramite le dita
semiaperte della mano destra, in un ritmato va e vieni dalle labbra alla
figurina.
Si preparava la festa ma anche la gente si preparava alla festa,
prenotando o comprando per tempo l'oggettino d'oro, l'orologio per
ornarsi il giorno di festa, il vestito nuovo per non « scomparire ».
A questa regola ubbidirono tutti: uomini e donne, signori e contadini,
giovani e vecchi. Anche quello era un modo per poter onorare meglio il
Santo.
Questi preparativi venivano intensificati dal momento che la « gloria »
delle campane o lo sparo dei mortaretti annunziavano che cominciava in
Chiesa la « novena », cioè la serie dei riti religiosi, che iniziavano
nove giorni prima della festa e culminavano il giorno della festa con «
il grande pontificale » del Vescovo, alla presenza di tutte le Autorità
e grande folla, tutte le Statue dei Santi delle varie Chiese della città
con le Congreghe in uniforme e la processione, che era veramente
maestosa e solenne.
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La Nave
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Il
Turco originale
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L'Angelledde |
Per tutto l'anno,
insomma, si viveva l'atmosfera della Festa di San Gerardo e non soltanto
nella febbrile ricerca dei mezzi economici ma nella programmazione e,
siccome doveva essere « sempe mieglie d' quedda dell'anno passato » si
cercavano contatti con complessi musicali bandistici più in voga o più
alla moda, con fochisti più specializzati in « rotelle e colpi scuri » e
più bravi per fantasia e perfezione di esecuzione, si andava alla
ricerca di giochi e divertimenti più nuovi e più originali. Il tutto,
oltre a rendere la Festa più bella e più gradita, dava lustro al
Comitato promotore, i cui componenti erano orgogliosi di ripetere nel
tempo « quann' fascer'm la festa noi... », quasi a dire che non vi era
stata più una festa così bella.
Questo avveniva a più alto livello ma a livello veramente popolare
l'anno trascorreva nell'attesa della sera della vigilia della Festa, la
sera del 29 maggio, la sera della sfilata o « parata » dei Turchi.
Una manifestazione talmente radicata nella mente e nel cuore della
gente, che senza la « nave », il « carro », i « Turchi » non riusciva
proprio a immaginare la Festa di San Gerardo. Una manifestazione, che,
nella sua originalità, metteva in luce la fantasia popolare, con la
creazione di scenette e figure, che elettrizzavano gli spettatori, che
creavano l'atmosfera suggestiva, festosa, anche di suspence e di
mistero.
Si cominciava già all'imbrunire. Grossi « fanoi », falò, venivano
formati con pezzi di legna, scroppi, sarmenti, in tutte le cuntane, i
vichi, i larghetti, lungo la via Pretoria e venivano a mano a mano
accesi con fiamme alte e fumo, che donavano alla città un'immagine
caratteristica ed anche una caratteristica illuminazione ma che, in
alcuni punti e, magari, dove soffiava vento contrario, mozzavano il
respiro.
Più alte erano le fiamme e più ricco era il « fanoio », quindi, più
generoso, in legna e scroppi, era stato il contributo degli abitanti
della cuntana.
Mentre si dava fuoco alla città e la gente aveva già modo di distrarsi,
di nascosto, nelle case, nelle stalle « gn'era chi s'ammuinava a vieste
li Turchi », che affluivano, appena pronti, in ordine sparso, davanti
alla Chiesa di San Gerardo, dove avveniva l'incolonnamento e da dove
iniziava il giro per la città.
Dovunque vi era gente incuriosita, festante « ca rusiava nucelline
americane e castagne d' lu prevere », ma la via Pretoria diventava
strabocchevole di folla giuliva, prodiga di applausi per tutti: Turchi,
Angiliedde, Gran-Turco, nave, Carro.
Ma chi erano i « Turchi »? Erano, in genere, contadini ben piantati,
robusti, che creavano, prima, nella loro mente e con la propria
immaginazione una certa figura che, per loro, era il « Turco » e che,
poi, mettevano in pratica il frutto della loro fantasia, rivestendosi di
fasce, fascitelle, turbanti, cimieri, ornamenti vari, nocche e fettucce,
quanto di meglio avessero avuto in casa di cianfrusaglie e oggettini
vari, e più richiesti erano i colori vivaci e sgargianti, dal rosso al
giallo, in particolare, quindi gonne bianche e mutande e mutandoni per
calzoni.
I più sfilavano a cavallo di muli, bardati di gualdrappe, coperte,
fiocchi, con al collo « la sunagliera », cioè una robusta cinghia di
cuoio, a cui erano appesi campane e campanacci, che veniva agitata da «
turchi » a piedi, sistemati da un lato e dall'altro del collo del mulo
ed a piedi erano anche quelli che giravano distribuendo la fiasca con il
vino. Le bevute erano molte ed anche molto abbondanti tanto che, alla
fine del giro, quelli a piedi compassavano goffamente la strada e quelli
a cavallo non più tesi, impalati, con le gambe diritte, una mano
all'anca e l'altra con lo spadone ma ripiegati su stessi e ondeggianti,
paurosamente, da un lato all'altro e dall'avanti all'indietro. Sfilavano
anche « l'angiliedde », bambini, alcuni molto piccoli, a cavallo. Erano
chiamati così perché vestiti da angeli con accurati e molto elaborati
vestitini di seta, con le ali e aureole e corone, che portavano addosso
un mezzo negozio di gioielliere, con orologi persino sulle braccine,
catene pesanti e catenine, spille ed altri oggetti di oro. I bambini
facevano fatica a stare svegli, nonostante il gran chiasso che vi era
intorno, qualcuno era anche infreddolito, specie se, come capitava
spesso, la serata era fredda.
Accanto ai Turchi, agli scudieri addetti ad agitare « la sunagliera »,
vi erano anche i valletti, che portavano le torce a vento.
È chiaro, però, che le maggiori attenzioni erano rivolte al « Gran Turco
» e che, per un certo periodo di tempo, fu sinonimo di « Civuddine »
perché sempre il soprannominato « Civuddine » si assumeva l'onere e
l'onore di rappresentarlo, ma io ricordo anche « lu vaccinare », un alto
e robusto mulattiere, nostro vicino di casa all'Angilla vecchia, vestito
da « Gran Turco ».
Dunque, il « Gran Turco », vestito ancora più accuratamente con
gualdrappe e paludamenti vari e sgargianti, turbante con pennacchi,
baffi e lunga barba di stoppa, fumava in continuazione, seduto con molto
sussiego in una carrozza, pure ingualdrappata a festa.
La pipa, enorme, una specie di « pignatiedde », era tenuta ferma tra i
piedi e, naturalmente, lunga era la cannuccia. Era usanza che tutti i
tabacchini, esistenti luogo il percorso, rimanessero aperti fino al
passaggio del Gran Turco per il rifornimento del tabacco, che doveva
essere gratuito. Il Gran Turco era scortato da una o due coppie di
alabardieri a cavallo, che, non so per quali ragioni, avevano la faccia
più nera degli altri turchi. Per tingersi i turchi usavano il nerofumo
dei camini, delle caldaie, che non costava molto, qualcuno usava il
lucido per le scarpe, che bisognava comprare e non tutti avevano questa
possibilità. Seguiva il Gran Turco la « Nave », che era tirata e spinta
da forzuti, poi fu installata su camion, dove pigliavano posto bracciali
vestiti da marinai e un bambino vestito da vescovo, raffigurante San
Gerardo, che con le prime tre dita della mano destra benediceva
continuamente la gente, che, devotamente riceveva la benedizione,
facendosi il segno della Croce. Veniva, poi, il « Carro » con l'immagine
di San Gerardo, fatta a trasparenza e illuminata con lampioncini di
carta di vari colori, con bambini vestiti da angioletti festanti.
Il Carro veniva portato a spalla da bracciali, che, puntualmente e
devotamente, ad ogni fermata facevano rifornimento a garganella dalla
fiasca, sempre pronta. Seguiva la Musica e un numeroso gruppo di fedeli.
Vi era, insomma, il sacro e il profano, forse, più profano che sacro ma
tutto si svolgeva, veramente, con molta devozione e, perciò, non vi
erano incidenti, almeno io non ne ricordo, né atti di intolleranza o di
vandalismo.
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