Storie di Donne Lucane
"racconti di figlie, madri, nonne."

Maria Schirone

 

 

Sant'Arcangelo - Germania...
e ritorno
Terra straniera Emma

Terra Straniera

di Pasqualina Satriano
(Tito, Potenza)

 

Un tempo non riuscivo a capire perché la canzone preferita da mia madre fosse Terra straniera. Ascoltavo, e risento ancora quel ritornello a me tanto familiare, non riuscendo però a darmi una spiegazione. Adesso, a distanza di anni, penso di capirne il significato e di poter dare un senso a quel continuo ripetersi di uguali parole. Come in un film già visto le scene continuano ad apparire sullo schermo, volti familiari, noti e sconosciuti, ma da sempre quelli più in difficoltà che sono dovuti partire verso terre più ricche, opulente o, forse, più fortunate!

Il bisogno e la necessità hanno provocato quel flusso migratorio di ampie dimensioni, fenomeno sconcertante della storia italiana contemporanea vissuto da tanti emigranti italiani che per cambiare condizioni di vita, per conquistare una maggiore dignità sociale ed economica hanno dovuto abbandonare i loro figli, le loro mogli, le loro famiglie e i loro paesi.

Proprio quei nostri paesi del Sud che vivevano quel disagio, quella povertà e quelle condizioni di vita misere, per una gran parte della popolazione, hanno offerto le braccia dei loro uomini e delle loro donne!

Scarsi e improduttivi furono i risultati ottenuti dalle iniziative statali per migliorare l’economia delle regioni dell’Italia meridionale; quindi, l’eco delle notizie provenienti dal nord Italia e dalle nazioni più vicine al nostro Paese attirò intere famiglie e uomini soli chiamati dal parente o dall’amico per un tozzo di pane guadagnato onestamente, abbandonando, però, tutto quel che possedevano: gli affetti, il paese, le tradizioni, le abitudini…

Si partiva, dunque, all’avventura, con un nodo alla gola, con le valigie in mano, ma con la speranza di ritornare un giorno.

Così mia madre, forse stanca di veder partire da tempo mio padre per la Svizzera e rimanere sempre da sola, con una bambina piccola da crescere; stanca di cercare sempre di risparmiare sul denaro che puntualmente arrivava per posta; di non voler rimanere per sempre una vedova bianca, cominciò a far pressione affinché potesse anche lei partire per aiutare e condividere quei sacrifici con mio padre. A spingerla ad allontanarsi dal paese[1] era anche il voler, a tutti i costi, raggiungere l’obiettivo di acquistare una casa. Sono passati molti anni, eppure ricordo come se fosse accaduto ieri, quando si cominciò a parlare di partenza!

Era l’estate del 1963, ma nessuna chiamata arrivava; inoltre c’ero io, una bambina di sette anni. A chi affidarmi?

I nonni erano anziani (allora si invecchiava prima nei nostri paesi), avevano la campagna con i propri ritmi da rispettare; non era una responsabilità da poco una bambina di quell’età senza la presenza dei genitori! Dai parenti? Non se ne parlava nemmeno, conoscendo il loro modo di pensare, visto che qualche volta si erano lasciati sfuggire frasi del tipo: “È una madre snaturata chi lascia il proprio figlio per seguire il marito”; oppure “ “Un uomo può stare anche da solo! È la madre che deve crescere i figli”, e così via.

Una mattina mia madre mi prese in braccio e cominciò a parlarmi di collegio, di partenze, di ritorni e altre cose che in quel momento non capivo; vedevo, però, mia madre piangere e mi veniva voglia solo di asciugare quelle lacrime che scendevano dal suo viso; quasi quasi ero io a consolare lei, dicendo di non preoccuparsi per me! Già, uno dei pregi di mia madre è sempre stato quello di rendermi partecipe e consapevole di tutto quanto accadeva o riguardava la famiglia, forse perché le occorreva una persona vicina con la quale dialogare. Certo questo comportamento mi ha fatto maturare e sentire un’adulta e, quindi, ricambiare una tale fiducia. Più tardi, riavutasi da quel momento di abbandono e di cedimento nel portare avanti il suo progetto, mi prese per mano e ci avviammo verso il Convento. Qui era ubicato il collegio che ospitava bambini orfani o con altri problemi familiari.

Chiese di parlare con il direttore del collegio e ottenne un lungo colloquio, in quanto furono espresse varie e motivate perplessità dal superiore. Tuttavia la determinazione di mia madre fu tale da far accettare la richiesta. Immediatamente fu comunicata la notizia a mio padre e si decise per la partenza, probabilmente per l’inizio del nuovo anno scolastico. Mia madre cominciò a preparare i documenti e tutto quanto poteva servire. Verso la fine di settembre arrivò mio padre dicendo di avere qualche speranza di lavoro per mia madre.

Ricordo ancora adesso le lacrime, le carezze, i baci e lo strazio di entrambi: mio padre, addirittura, non ebbe il coraggio di salire al Convento e mi salutò a metà strada! Ancora lei, mia madre, con coraggio, fiducia e determinazione mi salutò e mi affidò alle suore. Continuammo a salutarci, lei facendosi forza per allontanarsi e io da dietro i vetri di un grande finestrone.

I primi giorni furono tristi: sentivo la nostalgia dei miei genitori e, soprattutto, mi mancava tanto lei, mia madre, le sue carezze, le sue parole, la sua voce, il suo tenermi sulle ginocchia…

Tuttavia, man mano che il tempo passava e cominciavo a capire le situazioni familiari negative di alcuni bambini, con i quali avevo fatto amicizia, dividevo gran parte della giornata giocando, mangiando, studiando e facendo tante altre cose; mi resi conto che, in effetti, la mia era una situazione accettabile rispetto a tante forse senza speranza. Non vedevo l’ora che arrivasse Natale quando sarebbero tornati i miei genitori e, insieme a loro, anche i regali! Contribuì ad allentare la tensione dell’attesa anche la conduzione di vita comunitaria che trascorreva piena, completa, allegra e piacevole. Purtroppo anche quei giorni volarono via velocemente e a me rimasero solo i regali e i ricordi.

A giugno terminarono le scuole: ero stata promossa, quindi, secondo le promesse, meritavo di andare in vacanza con i miei in Svizzera. Tuttavia quella volta non fu possibile. Che delusione! Comunque, nel mese di luglio vennero i miei genitori e, per compensare quella promessa non mantenuta, si festeggiò la mia Prima Comunione.

Bisognava ripartire; ma la sera prima della partenza cominciai a far capricci, dicevo che non volevo più rimanere senza di loro e mia madre mi spiegò con poche e semplici parole la situazione di precarietà del suo lavoro all’estero. Aveva a lungo cercato un lavoro dignitoso e soddisfacente, ma aveva ottenuto solo poche giornate! Il tutto rendeva precaria e incerta la sua permanenza con la possibilità di essere rispedita in Italia. Povera mamma, senza conoscere la lingua tedesca, per la prima volta in una terra straniera, dove spesso ad un insulto rispondeva “grazie”, talvolta derisa e scacciata!

Le si richiedevano abilità e conoscenze non possedute, capacità mai esercitate e esperienze di lavoro in settori che forse per la prima volta sentiva nominare!

Tuttavia era decisa a rimanere, a ricacciare indietro le lacrime e a tenere duro. Con tenacia e costanza tutte le mattine, dopo aver preparato la colazione che mio padre doveva portarsi dietro sul lavoro in quanto non tornava per l’ora di pranzo, da sola si avventurava a chiedere lavoro, bussava, domandava, compilava moduli, aspettava… Un giorno le fu detto di presentarsi presso un convitto per studenti dove cercavano personale per aiutare in cucina. Tentò quella ennesima carta e la fortuna volle premiarla: fu assunta per un periodo di prova. Dopo un po’ di tempo ebbe la conferma definitiva, grazie anche alla benevolenza e all’interessamento da parte della direttrice del convitto. Costei era una donna eccezionale e soprattutto si esprimeva bene in italiano: ogni anno veniva a Roma dove aveva un figlio che studiava presso il Vaticano. Forse per un senso di altruismo o forse per quel senso di solidarietà che caratterizza le donne nei confronti dei più deboli quando si toccano le corde del cuore e degli affetti familiari, frau Junga aiutò in tutti i modi mia madre facendole da interprete e restandole vicina.

Anch’io ebbi il piacere di conoscerla: una donna alta e robusta, con gli occhi azzurri e i capelli biondi, molto cordiale e affettuosa; spesso mi faceva andare a casa sua, a giocare nel suo giardino con il suo gatto e poi mi regalava tanti dolci squisiti!

Finalmente arrivò anche per me il momento di andare in Svizzera durante l’estate del 1965, quando venne a prendermi mio padre. Preparammo le valigie e via alla stazione per prendere il treno che mi avrebbe portato da mamma! Una cosa per me rimane e rimarrà per sempre sinonimo di emigrazione: la valigia, quella di cartone duro e tenuta ben salda da corde robuste. Se ne vedevano tante nelle stazioni! Eppure mi dicevano che quelle erano comunque poche rispetto a quante se ne potevano contare nel periodo natalizio, quando ogni emigrante, che aveva qualcuno che lo aspettasse, ritornava a vederli.

Il viaggio durò molto tempo, eppure non riuscivo ad addormentarmi: quanta emozione in treno, nelle stazioni, al via vai di gente e di tutte quelle cose che non avevo mai visto. Trovammo la mamma ad aspettarci alla stazione e ci abbracciammo a lungo felici di rivederci.

Poco distante c’era la casa, piccola e modesta; in comune con la proprietaria avevamo un piccolo giardino dove potevo giocare e guardare fuori dal cancelletto, visto che non potevo uscire da sola quando i miei genitori erano al lavoro. Trascorrevo le giornate facendo tutto quello che può fare una bambina di quell’età: confezionavo dei vestitini per le bambole, le facevo mangiare, o meglio quello che preparavo per loro lo mangiavo io. Con trepidazione aspettavo la sera, il sabato e la domenica quando potevo rimanere con mamma e papà; insieme andavamo a fare la spesa, a fare delle passeggiate, a scambiarci le visite con qualche altro emigrante, ad ascoltare la santa messa, in una chiesetta in periferia, celebrata da un prete italiano.

Il sabato, puntualmente, si andava al “Migros” a fare la spesa per la settimana oppure al negozio messo su dall’emigrante più intraprendente che faceva arrivare dall’Italia i suoi prodotti, per assaporare qualcosa di ‘nostro’, e quietando quella nostalgia che è sempre presente all’estero.

Quando ci si incontrava con qualche paesano si chiedevano subito le ultime notizie dall’Italia; molto spesso il paesano non era letteralmente tale, bensì un altro emigrante del paese vicino al nostro di provenienza, o semplicemente un altro italiano.

Per me arrivò il momento di partire per ritornare a scuola. La faccenda andò avanti così ancora per altri quattro anni, quando io ritornavo per le vacanze estive e ripartivo per iniziare il nuovo anno scolastico. Intanto mia madre aveva cambiato lavoro: era stata assunta come operaia alla Hero, una fabbrica di conserve alimentari. Era più soddisfatta in quanto guadagnava di più in base agli straordinari, anche se questo significava fare i turni di notte, anticipare o allungare l’orario di lavoro. Intanto ero diventata più grande, conoscevo meglio Frauenfeld e avevo fatto amicizia con bambini che vivevano la mia stessa condizione di figlia di emigranti. Qualche volta andavamo insieme a giocare ai giardini pubblici, sempre ben puliti, ordinati e curati, dove le foglie venivano raccolte perfino lungo i vialetti; altre volte ci incontravamo nelle rispettive case per poi andare ad aspettare i nostri genitori quando uscivano dal lavoro. Durante uno dei ritorni estivi, avendo i miei cambiato casa, conobbi la figlia del proprietario della nuova dimora: una ragazzina mia coetanea che però abitava in un paese vicino. Spesso la sua famiglia mi invitava a trascorrere qualche giorno con loro dove avevo modo di conoscere e scoprire nuove abitudini, stili di vita differenti… La mia amichetta mi insegnò anche a parlare la sua lingua!

Terminata la scuola media, dopo gli esami, ritornai ancora una volta in vacanza dai miei e vi rimasi - solo per quella volta che poi fu l’ultima – fino a Natale quando tutti e tre facemmo ritorno per sempre.

Mia madre non avrebbe voluto abbandonare quel lavoro che si era conquistata con le unghie; mio padre acconsentì alla mia richiesta di continuare gli studi a condizione che la famiglia non rimanesse più divisa; io vinsi quella prima battaglia. Forse perché non vedevo l’ora di iniziare la scuola superiore, di recarmi da Tito a Potenza, di rimanere per sempre con i miei genitori nella nuova casa, finalmente acquistata dopo tanti anni di sacrifici da parte loro; ma quell’anno, o meglio quel periodo, da ottobre a dicembre, fu lungo e interminabile, quasi insopportabile. Faceva tanto freddo: era un inverno tanto rigido che in casa l’insalata e la frutta congelavano! Per riempire le giornate svolsi qualche piccolo lavoretto per la fabbrica dove lavorava mia madre; andavo a prendermi della verdura, la pulivo e poi riportavo il tutto per ottenere una paghetta che corrispondeva alla quantità di lavoro svolto.

Per la prima volta in vita mia avevo lavorato e con il ricavato mi comprai un paio di scarpe di vernice rossa, con un po’ di tacco! Come le guardavo quelle scarpe, così belle, lucide e alla moda!

Arrivò l’attesissimo giorno e, con le valigie più colme perché questa volta si partiva per non fare più ritorno, potei vedere la quantità di emigranti che affollava le stazioni. Da Milano a Foggia non trovammo nemmeno un posto a sedere, rimanemmo in piedi nel corridoio, stretti da una marea di gente. Si sentivano tante voci, tanti dialetti, tutti con volti sorridenti e felici di ritornare a casa, da qualcuno che li stava aspettando.

Il rientro, inizialmente, fu facile: c’era la casa nuova da mettere a posto, i parenti e i conoscenti da rivedere e tante altre cose da fare. Dopo un po’, però, si ricominciò a soffrire per la stessa piaga di sempre: la mancanza di lavoro.

Per questo mio padre dovette ripartire.

E così ricominciava il ritornello: “Terra straniera quanta malinconia, tu mi portasti via…”

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