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NICOLA CIANCI DI SANSEVERINO

 

da: La Basilicata nel Mondo - 1924-1927
 

Vita alacre, proba, studiosa, dedita al bene e alla scienza, congiunta a nobiltà di natali e agiatezza di famiglia, così può riassumersi la carriera mortale di Nicola Cianci di Sanseverino, nato in Castelgrande il 6 aprile 1834 e finito nel pieno esercizio delle sue funzioni di magistrato il 12 luglio 1908. Reggeva spesso le udienze della gloriosa
Corte di Cassazione di Napoli, e così lo ricorda il senatore Pietro Capaldo, nel celebrare il centenario di quel Supremo Collegio, che fu inaugurato nel dì 7 gennaio 1809 dal famoso Tommaso Caravita, il quale, da Presidente del Sacro Regio Consiglio passò, in quell’anno alla presidenza della Gran Corte di Cassazione, istituita da Re Gioacchino Murat.
A causa del disastro di Reggio e di Messina del dicembre 1908, il discorso del Capaldo fu rimandato al 21 marzo del 1909 e, con maggiore solennità, innanzi a S. A. R. il Duca di Aosta, ai più alti magistrati e funzionari dello Stato, si tenne la storica adunanza, che fu l’ultima manifestazione della Suprema Corte di Napoli.
“Ai lavori della Corte presero parte, nel decorso anno, due esimi magistrati, che ora non sono più tra noi: il consigliere Giuseppe Cosenza, collocato a riposo per limiti di età ed il consigliere Nicola Cianci di Sanseverino, rapito ai vivi.
Nicola Cianci, spirito ardente ed indipendente, mente colta per varietà e vastità di cognizioni, uomo e magistrato, che voleva parere disdegnoso e rigido, ma riusciva ad essere semplicemente giusto, e, all’occorrenza, pietoso.
A questo elogio fa riscontro l'altro tributatogli dal prof. Luigi Masucci nella commemorazione di Nicola Cianci all’Accademia Pontaniana di Napoli, (vol. XXXIX degli atti, anno 1909) in cui così descrive la figura dell’illustre magistrato, quando, ricordandone la parola facile ed ornata, l’inflessibilità del carattere e la coscienza illibata, dice di lui, i suoi superiori gli fecero percorrere quasi due terzi della carriera nel Pubblico Ministero ,, e così prosegue.
Nell’esercizio dei suo ufficio, egli s’ispirò sempre al principio che una giustizia pronta ed energica può, con l’efficacia dell’esempio, frenare i malvagi, rincorare i buoni e tener desto nel popolo il senso morale; ma ricordo pure che se la fede nell’energia della repressione lo tenne lontano da una sistematica e sentimentale mitezza, non lo spinse però mai ad un rigore inopportuno, e non gl’impedì di essere pietoso, quando nella pietà scorgeva non una pericolosa debolezza, ma un ragionevole impulso dell’animo.
Questo è prova che, nella vastità della sua mente acuta e lungimirante, Nicola Cianci antivedeva e, in certo qual modo, precorreva gli sviluppi moderni della nuova scienza e della nuova scuola dei grandi criminalisti riformatori italiani, i quali hanno dato al mondo la nuova teoria, in materia di pene, e dimostrato come l’efficacia della prevenzione non sia da meno della repressione, ai fini della difesa, e vorrei dire, della profilassi della società.
Sia nelle discipline penali, ai quali studi lo legavano le funzioni di Pubblico Ministero nelle Corti di Assise, sia in quelle civili, pubblicò dotti lavori, a cui non mancarono autorevoli lodi, fra le quali eccelle quella dei più eminenti fra i criminalisti, quali i senatori Errico Pessina e Luigi Lucchini. (Bollettino Bibliografico della Rivista Penale — serie 2.a, volume unico n. 877).
Ma, oltre al campo del diritto pubblico e privato, la sua mente spaziava nella letteratura, nella storia e nello studio delle arti belle, lasciando in tutti i campi un’orma profonda, come può vedersi dagli atti dell’Accademia Pontaniana, o suscitando, da documenti del tutto ignorati, la figura storica di Matteo Cristiano da Castelgrande, legista e guerriero del secolo XVII (atti dell’Accademia del 1892-93) o rivendicando le tradizioni della scuola pittorica del Solimene (atti del 1904) o illustrando gli scrittori napolitani della seconda metà del secolo XIX, quali il Campagna, il Baldacchini e Nicola Sole, il poeta di Senise, del quale fu ammiratore e continuatore.
La sua versatilità d’ ingegno era mirabile e in tutte le cose, che imprendeva, egli riusciva ugualmente bene. Aveva una cultura, da dar dei punti a un clericus del Rinascimento. E la sapeva animare del suo eloquio vivo e terso, denso di pensiero e scintillante di spirito. La sua conversazione era sommamente dilettevole, istruttiva ed educativa. Aveva le doti comunicative dei grandi maestri e il senso naturale della selezione, al quale si riconoscono i grandi, i veri critici.
Tutte le discipline, tutto lo scibiie lo trovavano ugualmente pronto alla dissertazione. in ogni campo egli poteva dire una parola sua.
Risplendono di bellezza e di suono i versi di Nicola Cianci che, con la musa del De Musset, celebrò, col nome di Muzio Rossi, un poeta morente, e, librato sulle ali della poesia, con ardore patriottico, cantò le glorie di Amalfi e di Pesto (volume Versi e Prose Prato, Giachetti 1892). Quindi fu poeta, letterato, giurista e nella carriera di magistrato, con la dignità della persona, dava maggior risalto alle sue doti, che lo rendevano impareggiabile amico di quanti ebbero la fortuna di avvicinano.
In mezzo agli studi ed all’intenso lavoro coltivò l’amore della famiglia ed i ricordi del natio paese, armonizzandoli col grande amore di Patria e di libertà, che due volte, a Salerno e a Napoli, gli fecero provare nella sua prima giovinezza il rigore della polizia borbonica. Ma le animose ribellioni e le pure idealità di patria ebbero alfine compimento. Nel rispecchiare le pure idealità del passato rinnoviamo oggi, nella Nazione risorta, l’esempio di chi ci precedette in questo amore, consacrando tutta la vita a profitto del proprio paese.
Così la sua vita fu anche un esempio luminoso di patriottismo ardente e disinteressato.
Tanto più ardente e disinteressato, che il suo patriottismo si educò alla scuola dei grandi iniziatori della rinascita della Patria, quando all’idea si doveva essere pronti a tutto sacrificare: anche la vita. Alla scuola degli apostoli e dei martiri il cui nome, circondato dall’aureola della immortalità, brilla nell’olimpo della Patria, ed è tramandato di generazione, perché la voce di quelli che furono prima inciti, ammaestri, consigli.


 

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