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ANDREA PISANI
Dall'Albania a Brindisi di Montagna all'Italia
 

BRINDISI DI MONTAGNA - L'abitato

L'ABITATO si stende da sud a nord, da S. Vincenzo a S. Giacomo, sul dorso di montagna rocciosa; sale ad 800 metri sul livello del mare, mentre il castello con la torretta va più in alto, ad 850 metri circa. Osservato dalla Serra del Ponte, ha la sagoma d'un, enorme cammello, con il Castello di gobba maggiore e la Scala di arcione anteriore, con il Serro Grande di collo e di capo, che, levato ad oriente, è sormontato da una notevole croce di legno.
Il monte discende, meno ripido, verso oriente con orti a secco popolati di mandorli, ed ha i piedi in dolce pendio nei vigneti verso il fiume, nelle volute tra le bocche dei valloni Monaco e Caprarizza; mentre con le rocce nude, a capi ed a vallette, tra salti, burroni, forre e ciglioni di frassini, si precipita verso borea nel torrente delle Grotte, nella parte più bassa del vallone Monaco, verso sud nella valle del Corvo e verso scirocco nei pozzi di Caprarizza; volge a ponente, ed ha i boschi alle spalle, in due grandi scaloni che a strapiombo van giù col Garoio tra i ciclopici e i caotici macigni di Borges, tra campi che si abbassano meno aspramente nel vallone della Grancia: là ove erano vigneti e noceti e ancora si serbano residui di palmenti, in forme di vasche, delle quali intrigate vitalbe nascondono le simulate origini bacchiche non remote.
Nei palmenti comunicanti tra essi lo studioso Cav. De Cicco, con una buona dose di fantasia, adagiava i miti di epoca neolitica.
Il 25 novembre 1902 il Cav. De Cicco, Ispettore di monumenti e scavi, ed io nelle Coste di Caprarizza e nelle vigne del Garoio rilevammo le forme di questi palmenti scavati in grossi blocchi arenarii, che, staccatisi dal monte, eran rimasti inclinati sul pendio. I palmenti, degradanti in livello, avevano le seguenti dimensioni : 1° di m. 1,70 x 1,75 x 1,60; 2° di m. 1,10 x 1,25 x 1,10; 3° di m. 1,32 x 1,32 x 0,70: 4° m. 1,10 x 0,99 x 0,55; 5° di m. 1 x 0,80 x 0,30; 6° di m. 0,80 x 0,55 x 0,30. Come dianzi è accennato, essi servivano una volta alla pigiatura dell'uva.
Dallo scalo di ferrovia si vedono le nuove muraglie sorreggenti alcuni tratti di via rotabile, che serpeggia per parecchi chilometri nel declivio, scaldandosi al sole o nascondendosi nelle gole delle valli di Meo e di Montulli. Si vede pure, spingendo malinconicamente lo sguardo nell'ascesa, la via mulattiera che più breve s'inerpica a fatica o taglia arditamente di botto l'altra e la sorpassa, quasi sbertucciandola; ma essa per poco si rallegra della vittoria, al traguardo, perchè le piogge e i geli la corrodono e l'avvallano in più punti, ché i vetturali con le più forti bestemmie non riescono a colmare.

IL CASTELLO è l'edifizio più antico. Le linee generali e la struttura compatta e massiccia dei muri di piccole pietre calcaree, l'assenza di stucchi, capitelli e cornici, la figura tozza e quadrangolare senza torrioni, cortine e merli, la forma delle finestre, piccole rispetto a tutta la mole, non accompagnate da verande o loggiate, con una torre isolata, che snella sfida dal vertice del picco il precipizio e i secoli: tutto ciò ricorda non una fortezza militare vera e propria, ma un'abitazione medioevale dei primi tempi, di ritiro e di raccoglimento.
Si vorrebbe far risalire la costruzione al IV secolo dell'era volgare, ai tempi, cioè, di decadenza dell'impero romano; ma anche se debba riferirsi a qualche secolo dopo, lo stile e la maniera non si allontanerebbero di molto, e sarebbe più accettabile la prima ipotesi che ci rimanda col pensiero alle orde assalitrici di Arabi e Saraceni, che risalivano dal golfo di Taranto lungo la vallata del Basento, ed alla necessità di trovar riparo e difesa sulle creste dei monti e nel folto dei boschi: necessità di salvezza che determinò la formazione in luoghi inaccessibili di molti paesi lucani; mentre la minaccia, lo spavento e la fretta di certo non avrebbero potuto favorire lo studio e l'arte accurata di architettura.
Doveva a quei tempi aver la rupe un aspetto assai più selvaggio, circondata sino in cima da fitte boscaglie, specialmente sul lato orientale. E il casamento fu dall'epoca delle signorie, da Carlo Magno, un luogo di convegno dei coloni che, tenuti sparsi nei dintorni, s'incontravano in esso per compiere atti di omaggio, di sottomissione e per pagare decime e terraggiere.
I Coronei, accingendosi alla fondazione del paese, trovarono nel castello una panetteria: un posto, cioè, di rifornimento di pane e di altri viveri.
La torretta, alta. m. 7,50 e altrettanto profonda, con una fossa scavata nel macigno, con due feritoie che alla fossa danno luce ed aria, dovè servire d'isolamento e di prigione, e spesso di patibolo per i depredatori, i ribelli e coloro che cadevano in disgrazia dei signori; e quelli che vi trovavano la morte del Conte Ugolino, venivano poi gettati dalla rupe in pasto alle volpi ed ai corvi: su ciò molto si sbizzarriva la fantasia popolare.
La torre fu dai duchi Anteriori convertita in una chiesetta e dedicata a S. Michele, il santo prediletto dei Longobardi, che lo avevano dipinto nei vessilli e inciso nelle monete: fu convertita forse per cancellare le torture e le ingiustizie: forse per dar sede all'Arcangelo nel punto più elevato del paese, più vicino al cielo, simboleggiando l'elevazione a Dio: come in ogni tempo sulle vette più eccelse dei monti è stata simboleggiata la divinità nell'erezione dei santuari.
Dietro la torretta il gesuita don Gioacchino Antenori fece costruire un casotto, in cui passava per una porticina a fianca dell'altare e in cui aveva un laboratorio per esperimenti chimici. Nel 1777 un fulmine abbatté il casotto, lasciando. tracce di lesioni anche nella torre; ed i fulmini più d'una volta poi, a memoria d'uomini, hanno percossa l'ardita torre che non doma, al posto dell'Arcangelo, mette al riparo da tempeste e da fucilate uno stormo di timide colombe.
Il castello allora raccoglieva ricchezze e segreti, aveva feste luminose, lauti conviti e ritorni da partite di caccia clamorose; da esso partivano voci e fischi di comando. Per negligenza del duca Giuseppe III degli Anteriori cadde in parte nel 1795. Nel 1810, il 12 luglio, vi presero stanza 56 legionari di truppa francese e lo danneggiarono. Passò in proprietà feudale prima ai signori Battaglia e poi, verso il 1830, ai signori Fittipaldi; gli eredi del Comm. Giuseppe Fittipaldi lo donarono al Comune alcun'anni addietro.
Nuovi e pochi vandali lo hanno indi spogliato, asportando tegoli, travi e infissi. Le intemperie continuano l'azione demolitrice.
Ora ha le occhiaie vuote nel gran teschio, l'occipite corroso e in qualche punto infranto; lo direi tragicamente muto e tetro, se nei plenilunii lo sguittire petulante della civetta e il lamentevole fischio dell'assiolo non avessero per ì suoi fantasmi un richiamo tra il grottesco e il beffardo.
Per rianimare il più antico e più alto fabbricato, per dargli altra vita e una degna riparazione, attesa da secoli, ed è giusto che l'abbia in questa rinascita di sentita romanità, vadano a porvi sede, là ove spazia la vista più ardita, i nostri giovani avanguardisti, e vi si alternino nelle adunate e vi si confondano, quando occorra, con le corporazioni di coscienti e rinfrancati agricoltori ; vi maturino nuovi e saldi propositi per le successive battaglie del grano; al loro sguardo si aprano di là le vie del lavoro per la campagna nostra, che è mortalmente annoiata dall'abbandono.

LE CHIESE Non dobbiamo trascurare l’ipotesi, affacciata da un antico manoscritto, che i normanni fin dal 1040, dai tempi di Guglielmo Fortebraccio o Braccio di ferro, e dei fratelli Roberto, Umfredo e Ruggiero I, con le loro serie di conti, di duchi e di principi, ebbero domini anche sul nostro paese (1), dominio che passó ai successori francesi, agli Angioini, nel 1266, dopo la battaglia di Benevento, e durò 168 anni, cioè sino al 1434.
Ebbene, nelle fabbriche delle nostre chiese, negli avanzi trovati dai Coronei nuovi venuti, tanto nelle linee fondamentali che nella struttura muraria (pietra viva e malta) furono di fatto riconosciuti sistemi francesi di costruzione. E nelle epigrafe incise su basamenti di colonne rovesciate nella chiesa diruta di S. Giacomo, nei nomi di Ulianazo e di Capuius Papder, si è voluto riconoscere una eco lontana di accento francese di pii fondatori.
Fra i ruderi di S. Giacomo, su una parete verso borea, si vedevano in bassorilievi la colonna del flagello di Gesù; l'Angelo della Croce e il Calice: ciò conferma l'opinione di competenti che la chiesa fosse stata in tempi più remoti dedicata alla passione di Gesù Cristo.
Essa fu riedificata sulle rovine, nel 1628, per volontà dell'arciprete greco don Francesco Vianò e di suo fratello Alessandro, i quali le costituirono una cospicua dote con atto del notaio Don Bartolomeo Greco e la dedicarono all'apostolo S. Giacomo.
La cappella, con la sua dote, come dirò più avanti, passò nel 1657 al prete don Basilio Bellezza; ma, essendo già lesa nella volta e rimasta senza alcun riparo, rovinò nella notte del 2 novembre 1787. Aniello Eugenio Bellezza, quale erede, vendè per suo conto due belle campane, che erano rimaste sospese nel vecchio campanile.
La chiesa di S. Giacomo non fu più innalzata e alcuni profanatori, in cerca di immaginari tesori, ne rovistarono e tormentarono le viscere a più riprese. Ora, ad eccezione di qualche pilastro rovesciato, poco o nulla rimane del tempio, perchè gli avanzi delle ruine sono stati utilizzati in fabbriche private. Rimane un piccolo e scarnito fabbricato laterale, che serviva di canonica.

Il 29 giugno 1595 fu giurato dai capi di famiglie il proposito, in pubblico parlamento, di riedificare una cappella nel centro dell'abitato, sulle ruine di altra abbattuta dal terremoto del dicembre 1456: su tale. deliberazione ritorneremo parlando del benemerito sindaco Giobbe Barbati.
Esistevano, dunque, non solo il castello, ma alcune chiese tra le querce sacre e tra le ombre di raccoglimento e di mistero della montagna.
LA CHIESA fu intitolata a S. NICOLO' DI BARI, santo patrono molto a cuore al popolo illirico, santo glorioso e universale della chiesa orientale ed occidentale, e furono i Coronei a rappresentarlo nella statua, che si conserva e di cui si ignora l'autore e la provenienza. La chiesa fu riedificata dalla volontà piena e dal fervore del popolo nostro e completata verso il 1627: è tuttavia la maggiore.
Il Principe di Bisignano volle offrirle una sua contribuzione; cosicché dal 1628 essa potè avere sacerdoti propri: greci, ma cattolici.
Come si vede, l'altare maggiore è rivolto, secondo il rito, ad oriente, verso il portone di attuale ingresso: l'entrata prima era ad occidente, nell'arco del presbiterio. La sagrestia, invece, era ove, è la cappella di S. Giuseppe.
Dobbiamo principalmente all'ottimo arciprete Don Gerardo Amati (1627) l'ingrandimento e la trasformazione in cattedrale. Egli, in vero, fece costruire il cappellone sull'altare maggiore e dalle fondamenta le navate laterali o bracci; dispose ed effettuò il cambiamento dell'ingresso.
La chiesa nelle sue linee d'insieme, come nei suoi particolari, non ha rari pregi architettonici ed artistici; però, la navata principale e il coro sono, nell'ampiezza, nei pilastri, nelle volte e nei capitelli, uniformemente e con semplicità armonizzati, quali una stessa mente li ha progettati; ma le cappelle laterali sono dissimili in tutto, perchè addossate alla navata principale in momenti diversi per opera di famiglie private, a secondo della possibilità finanziaria e del gusto di ognuna di esse.
La prima cappella laterale a sinistra entrando, ove è la statua di S. ANTONIO DI PADOVA, fu aggiunta a spese di Teodoro Ariropoli, venuto da Napoli nel 1661. In essa vi è anche una piccola statua di S. Rocco, donata dal medico don Bonaventura Montulli il 15 aprile 1797.
La seconda cappella, dello Spirito Santo, fu nel 1672 fatta edificare da Francesco Pisani, detto Cicco; egli per devozione fece dipingere da artista della scuola napoletana dello Zingaro il quadro ,che ancora si vede sull'altare. A fianco vi sono, inoltre: il quadro di S. Antonio Abate, acquistato ed esposto dall'arciprete don Gerardo Amati, e quello di S. Lucia, portato da Napoli dallo stesso don Bonaventura Montulli ed esposto nel 1806.
La cappella modestissima di S. Giuseppe, a destra entrando dal portone, fu fatta edificare da Pietrantonio Lauria, e l'oblato Giovanni Pisani di Pietro la dotò di una vigna. La cappella serviva di sagrestia nei primi tempi, e nel sotterraneo venivano deposte le salme dei preti, mentre altre erano state sepolte nella cappella di S. Giacomo. Nel 1735 le salme furono esumate e deposte nel sotterraneo del coro, ove in seguito vennero seppelliti altri preti latini; come si legge nelle incisioni della pietra sepolcrale.
Anche questo nuovo ordine di cose si deve attribuire all'arciprete Amati.
La seconda cappella, a destra di S. Michele, fu costruita per volontà ed a spese del cantore don Nicola Belli, verso il 1750; la piccola statua di S. Michele era stata già acquistata da suo padre, Michele. La cappella fu restaurata nel 1905 dal cantore don Vincenzo Belli.
Dopo l'ingresso dalla parte dell'orologio vien la cappella dell'Addolorata, che fu eretta nel 1740 a spese del sarto Angelo Guarniero, oriundo di Padula, marito di Margherita Canadeo. Le statue che vi si ammirano, dell'Addolorata, di Gesù legato alla colonna e di Gesù morto, sono opere dello scultore Giovanni Maria Netri di Albano, a cui furono ordinate dallo stesso Guarniero.
La costruzione della cappella del Rosario è coeva a quella della chiesa madre. La statua della madonna è fattura dello stesso artista che dipinse il quadro dello Spirito Santo.
L'intagliatore Domenico Pignone di Potenza, d'una certa fama, costruì in legno ed intagliò il primo altar maggiore e quello esistente nel Rosario.
L'arciprete don Gerardo Amati aveva con tenace proposito provveduto non solo ad ampliare la chiesa madre, ma a darle decoro e solennità: furono da lui acquistati l'organo, costruito e messo a posto da Leonardo Carelli di Valle di Novi, le campane e le pitture ad olio dell'Assunzione e del Rosario, bei dipinti del Pietrafesa, incorniciati e tenuti in alto nel coro. Dopo avere speso gran parte della sua esistenza in opere misericordiose e dopo aver prodigato al suo popolo tante cure di rinnovazione morale, egli morì il 14 novembre 1766.
A continuare l'apostolato, con !a stessa fede e con pari fervore, gli successe don Nicola Tito, di profonda dottrina.
Questi fece costruire nel 1775 il cappellone del presbiterio, rifare la cupola del campanile, che era stata abbattuta da un vento impetuoso il 22 novembre 1768; abbellire il coro ed arredarlo di sedili di noce intarsiato, fattura bellissima di Pascale Sales, nativo di S. Martino, residente in Tricarico; fece scolpire in marmo l'altare maggiore da Matteo Massotta di Napoli: altare che fu consacrato l'11 giugno 1778 dall'arcivescovo Francesco Zunico.
La chiesa madre, dopo la morte (1783) dell'arciprete Don Nicola Tito, non fu ben tenuta e venne lentamente deteriorandosi; ma ad essa nel 1810, mentre per opera degli eredi Basta veniva ricomposta decorosamente la prospettiva della cappella di S. Maria, provvide il medico Bonaventura Montulli, il quale con mezzi raccolti tra i fedeli, in meno d'un mese, cioè dal 17 settembre al 15 ottobre, fece eseguire i lavori necessarii evitando la caduta della facciata principale ad oriente.
Nulla più si è fatto dal 1800 nè recentemente per migliorarla: tranne pochi lavori di manutenzione e di pavimentazione. Le volte principali presentavano notevoli lesioni. L'alto campanile ha fenditure in tutta la sua altezza perchè pericolante, è stato demolito una dozzina d'anni addietro nella cupola e nell'ultimo piano; il suo campanone, fuso ai tempi dell'arciprete De Grazia, nel 1802, da Paolo Olita di Pignola, quel nostro campanone, una volta così profondo e vibrante, ha la voce rotta e stanca come d'un rauco rimprovero per l'immeritato lungo abbandono; essa pare dolente di non poter, come una volta, toccare di lontano il cuore del nuovo peregrin d'amore e, al cader del giorno, di non ripetere con lui gravemente: Ave Maria.
Opera architettonica notevole è la volta della Cappella dedicata alla Madonna del CARMINE, attribuita per disegno e direzione al nostro illustre conterraneo Domenico Sannazzaro, primo architetto del Regno, ed eseguita da Nicola Villamena di Tolve nel 1754: tutto per volontà ed a spese del duca Giuseppe Domenico Antinori, e alcuni duchi della sua famiglia sono sepolti in questa cappella, ove si vedono le lapidi senza alcuna iscrizione.
In un muro laterale, a destra dell'altare del Carmine, vi è il sarcofago di S. LORENZINO.
Nel 1770 il duca Don Flaminio Antinori sposó Mariantonia Goyzueta, figlia di Don Giovanni, segretario di stato di Filippo II, e di donna Isidra Carpentiero, entrambi spagnoli. La giovine sposa, ben accolta dai nostri paesani e pregata da essi, fece portare da Napoli il corpo di S. Lorenzino martire, che era stato donato alla sua nobile casa dal cardinale Acquaviva. Il trasporto della preziosa cassa fu curato da Leonardo Cortese, potentino, il quale la depositò nel castello e consegnò le chiavi alla duchessa Goyzueta ed alla suocera di lei, donna Barbara Sifoli. Il 29 aprile 1771, con grande solennità, con l'intervento del duca di Craco, del vescovo di Potenza, Domenico Rossi, assistita da dodici missionarii, la famiglia Artinori fece deporre il Santo nell'artistica nicchia, esponendolo con tutte le pompe religiose alla venerazione dei fedeli brindisini, ai quali furono distribuiti bioccoli di catone in cui era stato avvolto il corpo del martire e santo. Il vescovo Rossi, per atto autentico, racchiuse nell'urna il seguente scritto:
«In quodam Cimiteri a S.e Helene hic Rome inventus est lapis cum hac inscriptione: Hic jacet corpus S.ti Laurentj martiris, qui in Aretio Tuscic vinit annos tresdecim, et mense quatuor, una cum phiala ejus sanguine aspersa» e suggellò l'urna, lasciando fuori d'essa, nella nicchia, la fiala col sangue, perchè ogni anno fosse esposta sull'altare e portata in processione. Questa funzione da molti anni non viene più compiuta.
L'ardente desiderio e le preghiere vivissime rivolte dai nostri maggiori antenati per avere in paese le reliquie d'un santo sono manifestazioni di quella febbre che durava da parecchi secoli e della quale parla eloquentemente il Comm. Giacomo Racioppi. E nei secoli più antichi fu febbre più vasta e vero delirio «per le città, i regni, i principi: tale fu per le chiese, i cenobi, i vescovadi. Alle reliquie famose traggono torme di popolo supplichevoli di spirituali conforti, di temporali benefizii; i miracoli, che premiano la fede ingenua, susseguono; la fama ne echeggia lontano; nuove torme affluiscono; ed affluiscono, premio di benefiziii ottenuti o sperati, le oblazioni dei popoli. E fu, nella opinione del tempo, onore alla città, al cenobio, alla chiesa, il possesso di reliquie preclare per miracoli insigni; fu nota d'inferiorità il non averne».
Così era avvenuto in Trivigno con S. Basileo, in Tricarico con S. Innocenzo, in Vaglio con S. Faustino.


Nella mentovata deliberazione del 29 giugno 1595 del pubblico parlamento brindisino, che riguarda la edificazione della chiesa di S. Nicola di Bari, si legge che fu decisa la ricostruzione d'una CAPPELLA da dedicare a S. MARIA MATER MISERICORDIAE e dichiarata, come la chiesa madre, jus patronato dell'Università. L'iniziativa e lo sviluppo dell'opera si devono allo stesso sindaco Barbati.
La tradizione dice che prima del terremoto, devastatore di tutto, nel luogo ove fu eretta tale cappella vi era altra intitolata a S. Lino Papa. (2) In fatti, nella ricostruzione, durante gli scavi interni, furono scoperti affreschi raffiguranti santi e vescovi greci. E Leonardo Manes, agricoltore, probo e pio, si adoprò per ingrandirla e per abbellirla, facendovi erigere un altare intarsiato e dorato e l'organo, facendo portare più in alto il campanile e munirlo di altra piccola campana. Il nome del pio Manes pochi anni fa si leggeva ancora nell'icona dell'altare; ma l'altare, fu rimosso e sostituito con altro di marmo, acquistato con oblazioni di nostri paesani residenti nelle Americhe; e con l'averlo così tolto all'occhio e alla memoria del pubblico si è compiuto un atto inconsulto e ingiusto.
Gerardo Basta, della illustre famiglia di cui parlerò più avanti, quale procuratore di S. Maria, nel 1787 fece fabbricare di nuovo il coro e la cupola del campanile ed acquistò la campana maggiore che così dolcemente tocca e intenerisce il cuore. Egli morì nel 1794; la moglie Domenica d'Emilio e il figlio, Salvatore, tra il 1796 e il 1813, fecero restaurare, ampliare ed abbellire la cappella; costruire il portone e la prospettiva nel 1810 dal muratore Giovanni di Leo.
L'immagine bellissima della Madre di tutti, nell'atto di nutrire il bambino Gesù col frutto dolcissimo della sua materna grazia, con quel latte che doveva essere poi e fu linfa rinnovatrice dei cuori dell'umanità nei secoli mediante il più grande dei martiri e degli eroismi, l'immagine, dico, è opera d'un artista molto valente, di Giovanni di Gregorio, detto Pietrafesa, di fama chiara tra noi, allora: come ho detto altrove, autore di altri bei quadri, morì a Pignola.
Il quadro della Vergine Maria annerì al fumo che veniva dalla vicina sacrestia, che era nel campanile ed ove dimorava un certo Spatigliera, oblato e sacrestano; ma il quadro rimane inalterato nella divina dolce espressione.
 

Altra chiesuola, di cui non rimane alcun segno, tranne il nome dato alla contrada, era quella di S. Croce. Fu innalzata da Giuseppe Plescia e dal figlio Gaetano, sacerdote, nel largo della Chiaffa. Quivi pare che esistesse in tempi più remoti la chiesa madre: almeno per quanto dicono alcuni autori di manoscritti; mentre altri ritengono che fosse stata al Piano di Mincio, più vicino al primitivo abitato. Niun rudero ne fa testimonianza.
Tre missionarii piantarono il Calvario in prossimità di S. Croce; ma fu abbandonato; perchè un po' lontano dal paese non poteva essere custodito e difeso da incoscienti profanatori, che vi facevano entrare persino le bestie. Il cantore Michele Plescia, altro figlio di Giuseppe, fece portare gli arredi sacri nella cappella di S. Vincenzo, che dotò della bella statua tutt'ora visibile, e fece costruire poco discosto, un po' più in alto, l'attuale Calvario.
Verso il 1462, i fratelli Luca e Roberto Sanseverino, principi di Bisignano, prima di dividersi i loro beni come diremo più diffusamente parlando della Grancia, donarono all'ordine dei Padri Basiliani la badia di S. Maria dell'acqua calda, con il feudo di Pietro Morella.
Una cappella con le immagini di S. Basilio e di S. Maria dell'acqua calda sorgeva presso la cima del monte Romito: là ove comincia il declivio verso oriente e tra il folto spineto se ne osservano i ruderi. E di S. Basilio fu detta la vigna grande in prossimità delle Grotte: distrutta poi in gran parte.
I frati basiliani, nel 1514, restaurarono la chiesetta che è tuttavia nel vasto fabbricato, a pian terreno, a destra dell'ingresso principale della Grancia; vi eressero un altare e sovra nella parete vi fecero dipingere l'immagine di Maria Santissima, che denominata dell'Acqua Calda, ha in braccio il bambino Gesù ed ai lati S. Bruno e S. Demetrio. E dei Coronei venuti poi, delle famiglie Bellezza, dei Buscicchio, degli Ariropoli, degli Avianò, dei Sanazzari, dei Truppa e dei Prete molti presero i nomi di Basilio e di Demetrio.
Sull'altare gli stessi frati collocarono la statuetta di S. Lorenzo e i martirii del santo fecero riprodurre in affreschi sui muri laterali.
In tempi più vicini, dei padri certosini di Padula, il piano superiore, nella parte più comoda e illuminata, era destinato al procuratore Padre Priore che vi ospitava visitatori illustri e monsignori; in esso, all'estremo dell'ala destra, vi era una cappellina detta «Oratorio del Crocifisso» ove nei venerdì di marzo veniva esposta la corona di spine del Nazzareno.

LE CASE Il palazzo Antinori che forma un solo casamento con quello di Di Donato o Salomone e ci ricorda altra dimora di duchi, quelli più recenti di Montulli, di Gallo, di Fanchini, di Fanelli, di Surdo e di Tito, si distinguono innanzitutto dalla forma dell'entrata il portone che ha una certa linea scolpita e solenne nel frontone e nei pilastri, e poi dall'insieme di mole più vasta, di membri più complessi e di ambienti più comodi delle case comuni. Le quali sono di due piani, cioè d'un pian terreno e d'un primo piano; le une addossate alle altre, con muri comuni, con stalle, cantine e magazzini granai al pian terreno.
I casamenti di condominio, ora laterali ed ora nei diversi piani, danno in uso ad ogni proprietario o inquilino non più di due o tre stanze, prive di latrine e spesso di aria e di luce, per l'angustia delle finestre e degli abbaini; mentre per l'accumulo di letti, di casse e di masserizie, non sarebbe possibile imbiancare e disinfettare, senza mettere nella strada quanto si possiede, in esposizione edificante.
Non poche abitazioni antiche, per l'abbandono, sono rimaste a casalino, o pericolanti, sono state diroccate.
Qualche segno rimane delle antiche costruzioni: come nelle finestre murate di S. Giacomo, negli archi e nella loggetta di casa Plescia, nell'alto piramidale fumaiuolo, a guisa di minareto, che è sulla casa degli Allegretti (Becce), negli architravi robusti di quercia sugli ingressi, nei muri di pietre curve irregolari e piccoli, nella inclusione di travi nella muratura. Ma le antiche case vanno sparendo o si nascondono sotto il nuovo intonaco, e bisogna arrivare fin giù, nella Pulmonara, per vedere ancora qualcuna nello stato primitivo. Ricordiamo bene le case con abbondanza di quercia nei soffitti, nei pavimenti, nei divisorii, negli architravi di porte e di finestre, nelle intelaiature; le enormi travi della Grancia e del Castello. Ricordiamo i pavimenti di loto (tallone battuto) e di lastre naturali di pietra, irregolari, connesse con studio; il lucentore, come di pece greca o di asfalto, che prendevano i legnami del soffitto, il poggiuolo della lucerna e le pareti del focolare dal fumo denso, umido e grasso. Come nella casa di Ulisse, descritta da Omero, il fumo verniciava sì, ma deteriorava le armi, così si vedevano fucili, scure e falci sospese al capezzale del letto, fra immagini sacre e ramoscelli d'ulivo della Pasqua, perché il fuoco, non di rado, si faceva in mezzo alla stanza e il fumo andava per uscire dappertutto: per la porta, per la finestra, pel tetto, fra interstizii di assiti e intavolati, ed a volte era così fitto da togliere la vista delle cose, e gli interlocutori a brevissima distanza si dovevano intendere alla sola voce.
Un notevole risveglio nell'edilizia dobbiamo attribuirlo a tempi recenti, dal 1880. Il contatto di gente più evoluta, una concezione migliore della vita per quanto è salute e decoro; necessità igienica e morale, i risparmi e le sovvenzioni degli emigrati, ci han fatto vedere case riattate o rinnovate, altre di sana pianta: però mancanti anche queste delle comodità e degli accessorii che sono di carattere integrativo e che devono rispondere alle esigenze di igiene elementare e di civile coabitazione.
Il Municipio ha un locale proprio per uso di ufficio, da un trentennio, per risoluzione energica presa dagli amministratori del tempo della Cassa di Prestanze Agrarie.
Le scuole non ancora hanno una casa. I locali che per esse si prendono in fitto non sono adatti. Al Monte Sciupio da una dozzina d'anni si vede una nuova fabbrica appena uscita dalle fondamenta; avrebbe dovuto levarsi su, accogliere le novelle generazioni e mostrare col fatto come si vive insieme in una casa modesta sì ma pulita, completa e decorosa; ma difficoltà sorte durante la guerra la lasciano somigliante al lastricato d'inferno, che si dice fatto anch'esso dì sole buone intenzioni.
Per le strade manca l'illuminazione. Vi provvide una volta e per poco tempo il sindaco barone Antonio Blasi, con fanali a petrolio. Dieci o dodici anni fa il sindaco Ciro Lapeschi fece un esperimento, costoso, con lumi ad acetilene; l'esperimento, per necessità di cose, dovette cessare. Altro provvedimento è in corso e sarà definitivo con luce elettrica.
Le strade interne erano quasi tutte selciate; le due principali che in, lungo attraversano l'abitato, ora sono lastricate e ben tenute. La piazzetta, l'unica, che porta il nome di Vittorio Emanuele II, trasformata nella sua ampiezza in elegante marciapiede, sembra financo civettuola e graziosa quando il fitto e minuto fogliame e ì grappoli fioriti degli alberettì di acacia le regalano un bel verde, profumi ed ombrìe. Se potessero tornare i sindaci Barbati, Montulli, i due Andrea Surdo e coloro, tra i nostri zelanti antenati, che più anelavano al progresso, se vi potessero fra breve, al bagliore delle lampadine ad arco, fare un tranquillo serotino su e giù, penso che, sorpresi ed ammirati, dovrebbero sorridere d'ineffabile compiacenza.
. . . . Ma non sorriderebbero ricercando per i vicoletti tortuosi e ripidi un qualsiasi assestamento. Le piccole arterie non son degne delle grandi. Gli acquazzoni, nell'impeto, vi trasportano dal Brect e dal Piano del Medico letame e zavorra in abbondanza e ne fanno deposito nei gomiti e nelle strozzature. E la melma rimane lì a rimproverare la supina incuria delle nostre casigliane, che tutto attendono dal cielo, anche un nuovo e più forte acquazzone che spazzi e levighi il selciato che è davanti al loro abituro: così attendono, come manna, le provvidenze dello Stato e del Comune, e s'arrestano ad ogni ostacolo intrecciando le dita nelle mani riverse e ciondoloni, sospirando con lo sguardo levato al cielo e dolendosi del tristo “fato che al comun danno impera„.
Abbiamo un piano regolatore, ma non abbiamo ancora condutture e fogne, affidate al concorso e all'opera di famiglie, e vanamente.
Il cimitero, abbastanza ampliato, con nuovo recinto e con nuove cappelle, richiede ornamenti arborei e floreali, manutenzione continua e cure degne d'un pietoso grembo materno e d'un mesto asilo che
«. . . . . . . sacre le reliquie renda
Dall'insultar dei nembi, e dai profan
Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
E di fiori odorata arbore amica
Le ceneri di molli ombre consoli».

Linfa naturale prima e vera della vita e degli esseri viventi è l'acqua ed alle contrade italiche ne ha tanta largita la provvidenza!
Dai monti nostri e fra le nostre rupi dovrebbe scaturirne in gran copia, limpida, cristallina e freschissima. Eppure dopo progetti su progetti, mutui, spese e giri lunghi di anni quella che giunge sino a noi è scarsa e non sempre potabile.
Già abbiamo accennato al fatto che sino al 1901 si attingeva l'acqua, per gli usi domestici, alle fontane Magagna, La Vecchia costruite entrambe nel 1867, durante il sindacato di Andrea Surdo Difesa, Grancia la più antica e nei periodi di magra ed altre modeste sorgenti, ma limpide e pure, come quelle di Rimmo, di Sibuzè, delle Noci, tutte, nel raggio di due chilometri dal centro. Si utilizzava, inoltre l'acqua piovana e raccogliticcia della Dirupata, per abbeverare le bestie, e quella di tre cisterne che sono nelle case private.
Pareva che la pubblica fonte, costruita sul limitare del paese nel 1901, raccogliendo alcune scaturigini del Cupolo e poi altre di Carlona più copiose ed anche più salubri, con la distribuzione ad altri fontanini situati nell'interno dell'abitato, dovesse sciogliere compiutamente e felicemente il problema più vitale della pubblica igiene: la burocrazia, gli appaltatori, la guerra e le frane lo hanno invece ritardato e ingarbugliato. E spesso, mentre la fontana monumentale versa gemente la sua sacra linfa nel risonante barile e si duole di non poter calmare la ressa degli assetati, i fontanini aridi, vani simulacri, dicono nel loro muto dolore ai passanti che han spezzate e vuote le vie del cuore.
Venga Mosè tra noi, si affretti: mentre teniamo a bada la sete fisica con le memorie del passato, che vorrebbero soddisfare la curiosità spirituale, venga Mosè a toccar la rupe ed a darci zampilli di acqua cristallina, freschissima e salutare.

Le notizie contenute in questa prima parte del libro sono state ricercate, raccolte e modificate pazientemente, vivendo per diciotto anni la vita pubblica brindisina, e seguendo le alterne e successive vicende e annotando il portato dei tempi.
Nel febbraio del 1900 ne fornii, circa l'origine del paese e la costituzione delle famiglie, al Prof. Stefano Zurani di Napoli (S. Lucia n. 5) e nel luglio successivo al Comitato Albanese "Pro –Patria” di Roma (Via Carlo Alberto n. 17 ).
Il Dott. Francesco Vallardi, editore di Milano (Via Magenta n. 48) nel 1902 mi chiese notizie complete, geografiche e storiche, sul nostro comune, in base al censimento 1901, proponendomi uno schema organico. In forma sommarla gli scrissi guanto di meglio avevo raccolto per l'inserzione nel “Dizionario geografico illustrato del Regno d'Italia”.
Nel 1903 ad un “Referendum sulle condizioni di Basilicata” diramato dall'Ing. G. Spera, che dimorava in Roma, risposi esaurientemente pel tramite del Comune, per dare suggello di esattezza ufficiale a guanto asserivo, e l'Ing. Spera lo attesta nella prefazione al suo libro sulla “Basilicata”, edito a Roma nel maggio 1903.

Nota dell'A.

lll

NOTE

(1) Nelle Puglie, a Melfi, a Rapolla o in molte altre località della Regione nostra i Normanni presero grande importanza.
(2) S. Lino Papa nacque a Volterra (Toscana); fu vescovo di Besanzone; eletto pontefice nel 87 dopo G.C., fu il secondo di Roma, dopo S. Pietro. Subì il martirio nel 78 e fu sepolto presso la tomba di San Pietro stesso.
 

 

 

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