<< precedente

INDICE

successivo >>


ANDREA PISANI
Dall'Albania a Brindisi di Montagna all'Italia
 

TERRA NOSTRA: FEUDALISMO E RISORGIMENTO

Le nostre commozioni più profonde nei fatti collettivi più notevoli sono state principalmente e quasi sempre di natura religiosa e di natura feudale. I motivi di natura politica, facendo astrazione dalle passeggiere beghe di amministrazione comunale, son venuti dall'alto ed hanno permeato con lentezza, di lontano, saltuariamente, prima gli strati superiori, la parte culta e benestante, in ultimo la massa popolare. E questo avveniva ed avviene dappertutto.
Le manifestazioni religiose, d'una sincerità commovente, per quanto concordi, calorose e frequenti, non si sono in generale confuse col fanatismo; e il nostro popolo si mantiene tuttora credente, sereno, però suscettibile alle riflessioni ed alla ragionevolezza: guai a tradirlo con la insincerità!
E delle opere religiose abbiamo parlato esaurientemente.
Fermiamoci di proposito su fatti di ordine economico e di ordine politico, nella nostra sfera di sentimenti e d'intelligenza e di aspirazioni, la quale si muove per lo più sotto l'impulso di agenti esterni.
La nostra popolazione si era mantenuta sobria, pacifica e laboriosa in tutto il periodo di signoria dei principi Sanseverino. Contro i soprusi, i divieti irragionevoli e disumani, le limitazioni arbitrarie, ha avuto esplosioni di sdegno e di rivolta, mai di estrema violenza; e perchè aveva osato levar la testa, fu fatta bersaglio di odio, di vendette e di strali giudiziarii più laceranti.
Aveva osato domandare, insistendo, l'affrancazione della terra madre da pesi feudali, divenuti insostenibili; voleva esercitare diritti civici sanzionati da usi secolari; voleva conservare negli anni di carestia gli scarsi raccolti per sementi: ecco quanto aveva osato e preteso, per cui fu staffilata in pieno viso ed ebbe addentati i polpacci dai cani sguinzagliati da' rabbiosi guardiani del palazzo dominante.
È la terra che mi ha lasciato mio padre con tale memoria sacra suol definire il nostro agricoltore la successione e il possesso.
Siamo vermi di terra dichiarano i nostri agricoltori quando vogliono umiliarsi alla infinita potenza di Dio ed alla sua volontà solamente; o quando lanciano un sarcasma ai potenti della terra per rinfacciare lo stato umiliante in cui son tenuti, mentre dan pane a tutti.
E baciano la terra e la fecondano. Si levano rinnovati, come Antèo, per ridar pane a tutti, anche a coloro che li han calpestati.
Risorgono nel lavoro a fasci poderosi o siedono sui covoni, come su troni, o cantano a gola piena, come sacerdoti intorno agli altari fatti di bighe.
E così terra nostra è l'affermazione solenne di patria e di tradizione, di usi, di costumi, di difesa, di concordia, di fusione d'energie e di materia che dà oggetto di amore nei secoli.
Guai a colui che calpesta il seminato al nostro contadino: calpesta l'amicizia. Guai a colui che gli taglia una zolla sul confine: gli morde il cuore.
Segue la vendetta, quasi sempre.
Il suo podere è intangibile. In esso trova la dignità e parla degli avi; vi si sente perfettamente libero ed è salace, epigrammatico, nelle chiose ai fatti del giorno, di cricche e di tresche; scioglie la lingua alle cose di governo per quanto ha raccolto da soldato nelle città e per quanto sente dire da chi legge il giornale; mentre sulla piazza, nei crocchi, quando s'immischia anche chi non è del suo abito, è sospettoso e taciturno e si limita a scambiare una furba occhiata che significa: non me la bevo, o ad emettere un sospiro che par alleggerisca il riserbo.
La chiesa e il prete sono lì ad eternare la religione dei padri e se vanno bene non son discussi, ma quando è il caso son ricamati con rispetto.
Il governo e la giustizia gli eran rimasti troppo lontani, troppo in alto; egli non riusciva a raggiungere la forma astratta ed aveva preciso bisogno di personificare. Egli conosceva il Signore, il padrone con i suoi fasti ed i suoi codazzi di bravi e di servitori, con le sue partite rumorose di caccia, con le sue prodigalità, con i suoi benefizii, con i suoi privilegi, i suoi capricci e le sue favorite, con le sue protezioni più o meno ostentate, con i suoi corrucci e le sue rappresaglie. A lui rimanevan le briciole e le ossa o la caccia di frodo, e non sempre la speranza di raccogliere i resti delle sue energie e i frutti delle sue fatiche, perchè doveva prima assicurare al feudatario le sue dovizie.
Il governo e la giustizia per lui eran nelle mani dei pochi che comandavano in paese: in costoro vedeva le leggi e il mezzo di eluderle e l'elusione costituiva una onesta fortuna; quindi, completa dedizione o il rancore e l'odio e l'isolata vendetta, meditata, covata e consumata nelle tenebre; o l'esplosione incontenibile in forma collettiva di fuoco e di fiamme, come in luminarie di festa.
La politica di governo, di lontano riflesso, arrivava alle nostre popolazioni quale debole, scialba e falsata luce boreale attraverso le nuvolaglie di caste privilegiate e di correnti d'ambizioni e d'egoismi. Le umili piante rimanevan nane, poco o nulla riscaldate, sferzate dai venti algidi, spogliate da frequenti grandinate devastatrici.
La politica veniva intesa nei soli avvenimenti di guerra fra popoli: segno precursore la chiamata alle armi; attori e storici i soldati che avevan fortuna di raccontare quello che avevan compiuto o visto di compiere. Così tra noi Nicola Cappiello; morto all'età di novantanove anni, descriveva il passaggio della Beresina. Il figlio Giuseppe ben sapeva dell'attentato di Vegeslao Milano e della fuga di Francesco II a Gaeta.
Nicola Larocca di Giuseppe Gerardo, Vincenzo Pisani e Michele Lucca avevano partecipato all'assedio di Venezia ed all'apertura della Breccia di Porta Pia, e zappando narravano tali fatti ai compagni avidi di sapere.
Come ho detto già, la politica in nome e parte dei nostri contadini la facevano a modo loro i signori; i preti e i sapienti, i condottieri, i masnadieri e gli arruffapopoli.
Però i nostri contadini, anche dopo mezzo secolo di scuola, di storia e di morale civile, anche se ingentiliti dalle nuove e svariate forme di civiltà son rimasti con un simpatico fondamento di incredulità, che non è sempre di rozzezza e ostinatezza refrattarie ad ogni benefica opera di persuasione, ma di prudenza e di attesa che non guastano: è d'igienica quarantena.
Li vediamo: non stringono con slancio, alla prima offerta di aiuto, la mano che si protende amica.
In molti comuni, specialmente nelle Puglie e in Basilicata e ovunque si stendeva ozioso il latifondo a sfidare le braccia nerborute dei contadini, ovunque era stato un fermento di origine feudale o demaniale, terminata la guerra, erano scoppiate rivolte sanguinose di piazza, divampati incendii di uffici municipali. La guerra per successione di dinastie, per gelosia di commerci, per espansioni e conquiste, motivi estranei ad ogni interesse popolare, ogni volta ha restituito alle proprie terre le masse di uomini con una coscienza diversa, consapevole cioè del valore e dell'impeto delle forze riunite, anche se brute. E le masse a suon di tamburo ed a bandiera spiegata hanno invaso i latifondi e i demanii; e conflitti lunghi ed estenuanti, rinfocolati nelle associazioni e nelle leghe, si son protesi per assisie e tribunali.
Dualismo due volte millenario, fra padroni e servi, tra nobili e plebei, tra latifondisti e frazionisti, tra capitalisti, datori e lavoratori, fra produttori e parassiti: dualismo che ebbe un bagliore esotico col principio di nazionalizzazione della terra, che ora solamente e da noi solamente confluisce e si va mescolando nella volontà e nell'autorità supreme dello Stato, che modera e compone con leggi e corporazioni e sindacati, con librazioni di usi civici, con azioni energiche e risolutive, i rapporti della nazione stessa, che lavora e produce e che vuol essere con fermezza sicura dell'oggi e libera di svolgersi per l'avvenire nei rapporti interni ed esterni.
E questa fermezza sia suggello alle vicende torbide che riesumo succintamente solo per ragione storica. E non è vano il ricordo quando è un monito ai prepotenti ed ai disumani, un incitamento a formarsi una coscienza chiara di quello che si è e di quello che si può divenire, quando è un conforto agli umili che devono vivere in un'atmosfera trasparente e sentirsi coalizzati e sicuri nel lavoro sotto l'egida immediata di provvidenze statali.

Dissidio forte nacque e crebbe subito tra i baroni Ovidio e Camillo D'Erario di Tolve, padre e figlio, signori dal 3 luglio 1606 al 1610 dei feudi di Albano e di Brindisi, ed i nostri ancora bellicosi Coronei: il dissidio, causato da mala signoria, culminò in una tragica ora di furia popolare, che trasse don Camillo dal castello e lo trascinò sino al largo della Chiaffa, ove la pietà vinse lo sdegno e serbò un'esistenza a più miti consigli: se non a più saggio governo, almeno a vita non d'imperio. Don Camillo il 10 luglio 1610, avendo perduto i feudi di Brindisi e di Albano, si ritirò in Tolve a vita privata.
Dissidii simili, contestazioni e giudizii, si ripeterono nel 1675, nel 1740 e nel 1773 fra il Comune e la casa dei duchi Antinori, e nel 1791 fra il Comune e la Certosa di Padula: nel 1740 il nostro Comune contro Giuseppe Domenico Antinori aveva prodotto trentatre capi di gravezze, che furono discussi nel 1751 dal presidente Mauri. Il Duca istituì, quindi, un fidecommesso.
Per spiegare questa attività di popolo è bene parlare ai lumi della storia circa il periodo che va dal 1740 al 1805, che si svolgeva propizio allo scioglimento dei legami di servitù ed alla liberazione delle terre da avvilenti gravezze.
Nel periodo fra il 1735 e il 1759 regnava Carlo III ed aveva per ministro Tannucci. L'azione della corona era gagliarda contro i nobili ed il clero.
Carlo III non voleva alcun potere intermedario fra re e popolo; abolì decime, frenò l'acquisto di manomorte, rivendicò alla potestà laica tutti gli atti di stato civile. Diede i primi colpi alle male piante della nobiltà, ma con prudenza. Tolse la bruttura del diritto di prelazione, per cui il colono non poteva vendere liberamente i prodotti, se non dando la precedenza ai signori, anzi non poteva far la raccolta, se prima non curasse quella del signore e del barone, e i diritti di pascolo impedivano la coltivazione.
Il re abolì tutto questo. I nobili e i baroni furono con sottile accorgimento attirati alla capitale e nella corte del re diventarono servi; ma ritornarono audaci ed invadenti durante il regno di Ferdinando IV, e dovremmo dire di Carolina, sua consorte ambiziosissima.
La rivoluzione francese aveva già valicato le Alpi e rapidamente percorreva gli Appennini con le armi vittoriose: i diritti dell'uomo erano la nuova parola d'ordine.
Ferdinando IV si avvicinò ultimo alla lega tra Inghilterra, Russia e Austria contro la Francia: si avvicinò solo dopo l'Austria, quando vide i Francesi approssimarsi a gran passi al suo regno, durante la repubblica romana.
Accolse in trionfo Nelson, che aveva riportato sulla squadra francese nell'agosto 1798 una vittoria navale nella rada di Abukir: nel Mediterraneo, a nord est di Alessandria d'Egitto. Ma al ritorno del generale francese Championnet, nel 1799, Napoli fremeva e il re fuggì in Sicilia. Napoli dal 15 al 20 gennaio versò in orrore e in lutto: si disse repubblica partenopea, ma fu ruina e caos!
..... Napoli per reazione è saccheggiata, è alla mercè della plebaglia, e le terre del regno sono percosse e taglieggiate da bande di briganti e di forsennati, a cui prendono parte sbirri, frati e preti, dei quali nelle Calabrie è a capo il cardinale Ruffo.
I repubblicani, i loro più gloriosi esponenti, pagano con la vita il grido di libertà: così tra il fiore di persone onorate e coraggiose; Mario Pagano (di Brienza, Basilicata), Domenico Cirillo, Gabriele Manthonè, Eleonora Pimentel, Francesco Conforti, Francesco Caracciolo e il Conte Ruvo.
Ferdinando IV premiò i capi delle crudeli masnade, da Palermo.
La pace Lunéville (febbraio 1801) gettò lo sgomento nella corte di Napoli, che vedendo avvicinarsi le armi del generale Gioacchino Murat, venne a patti segreti e mantenne a sue spese, finché durava la guerra tra Francia, Inghilterra e Turchia, quindicimila Francesi in alcune guarnigioni del litorale del Regno.
La giornata di Austerliz (2 dicembre 1805) ruppe d'un colpo il piano di Ferdinando IV, che si disponeva con ventimila soldati, tra Russi e Inglesi ed altrettanti Napoletani, a cacciare i Francesi dalle Marche e rimandarli sino al Po.
Napoleone proclamò decaduti i Borboni; mandò suo fratello Giuseppe col generale Messena a capo di quarantaduemila uomini per conquistare il Napoletano. Il Re fuggì di nuovo a Palermo con la sua famiglia e la corte: nel gennaio 1806.
Giuseppe (1) ebbe con sè a Napoli i repubblicani, gli uomini di studio e di cultura e la borghesia: i Francesi rappresentavano, in fondo, ogni forma civile, se non la migliore libertà; mentre i Borboni, dalla cui parte rimasero il clero per i privilegi e la plebe per le feste e la esenzione da ogni contributo materiale, ricordavano tristamente l'oppressione feudale con tutti gli orrori di ordinamenti medioevali.
«Del resto, la fiducia, che la parte eletta di Napoli poneva nel nuovo re, pare legittima. Giuseppe aveva fama di bontà e di mitezza. Amante degli studi letterari e del queto vivere, più che delle armi, era un filosofo amico dell'umanità; ma devoto al fratello, obbediente e bramoso di piacergli più che giovare al suo popolo, parve poi bastante all'ufficio di antico re e minore al carico di re nuovo. Pure con lui Napoli ebbe tosto ordinamenti e leggi alla francese, che migliorarono lo stato civile e morale del regno (2)».
Nel maggio 1808 Napoleone mise sul trono di Spagna, tolto ai Borboni Carlo IV e Ferdinando VII, padre e figlio, il fratello Giuseppe, ed a quello di Napoli destinò il cognato Gioacchino Murat. Questi governò coi principi di libertà della rivoluzione francese; ma, ambizioso e mutabile, geloso di Eugenio, vice rè d'Italia, nei rovesci di Napoleone (1814) passò tra i nemici di costui e gli andò contro.
Murat per l'incertezza di propositi e i sogni di unificazione d'Italia, la quale non si commuove alle sue vedute, assiste allo scompiglio del suo esercito a Tolentino, ove è battuto dagli Austriaci; rinunzia alla corona, fugge nella Provenza, ritorna in Calabria ed è fucilato nel Castello di Pizzo nell'ottobre 1815, all'età di quarantotto anni.
Raccontano che il re Ferdinando volle la sua testa presso di sè per rallegrarsene!
E gli avrebbero portata anche quella del nostro prete Mangoni, che aveva osate inneggiare a Giuseppe, padre del popolo, ed a Murat, indice dell'uguaglianza dei diritti! . . Ma. . . vi era chi, avendo assunto il compito di castigare il prete ardente, amico del popolino a cui prodigava la sua intelligenza e la sua volontà, preferì di tenerla sotto i suoi occhi per vederla più lentamente consumarsi.
Ecco spiegato come in quel giro di tempo, fra gli umili e i sottomessi, insorse la nostra municipalità, che voleva rivendicare, contro la opulenta Certosa di Padula e contro i duchi Antinori, il territorio e liberarlo di gravezze feudali. Ecco perchè modesti preti, quali Gerardo Mangoni e Giovanni Plescia, e un modesto avvocato, il Pelosa, trovarono l'ardire e la facondia e in seno alla Commissione reale sostennero i diritti dei nostro Comune.
Essi avevano osato e furono tenuti di mira. Il Mangoni fu calunniato quale eresiarca, ateo; fu perseguitato e punito dai suoi superiori gerarchici. Egli, più animoso e più fiero, raccolse così il premio dei suo studio e del suo slancio tribunizio. E i suoi avversari gioirono!
Caduto Napoleone a Waterloo il 18 giugno 1815, fucilato il Murat nell'ottobre successivo, caddero le speranze dei murattisti del Napoletano.
Il trattato di Vienna, nel giugno stesso dei 1815, aveva rimesso in piedi il diritto del più forte. Non fu rispettato nemmeno il diritto di «legittimità», che aveva dichiarato di contrapporre al diritto di sovranità popolare, dianzi proclamato dalla rivoluzione.
Creatura d'Austria; Ferdinando IV di Borbone entrò nella Santa alleanza (strettasi il 26 settembre) e con gli altri potenti quali e quanti attentati si accingeva a compiere in nome di Dio contro i più sacri diritti del popolo! Tiranno e bigotto!
Prodigó favori e gradi ai suoi fedeli; cancellò ogni traccia dell'ex ministro Tannucci; tolse ogni libertà e per non conservare le leggi francesi, se non quella che più gli piaceva, le fece rifondere in un codice napoletano.
Nel 1816, fatto più ardimentoso, si sbarazzò della costituzione, riunì l'amministrazione delle Provincie di qua e di là dello stretto di Messina e si chiamò Primo Re delle Due Sicilie.
Le unghie e i denti dei potenti e dei nobili si affondarono di nuovo nelle carni del popolo; mentre Murat aveva favorito i piccoli possessori, Ferdinando si era affrettato a ripristinare le proprietà demaniali.
La carestia e l'esacrato principe di Canosa furono, fra il despotismo e le crudeltà, i flagelli più terribili.
Il malcontento era generale: più acuto nelle Puglie, ove il tavoliere era stato condannato alla sterilità.
Ma si finse di dormire per congiurare nella notte e nei boschi. Accanto ai dormienti d'un sonno che non era riposo, ma imposizione di nefasta politica e di paura, passarono gli spettri corruschi di spie, di carnefici e di affamatori: i carbonari prima, i calderari poi, i conati rivoluzionari 1820 1821 di Laurenzana e di Calvello, i giuramenti e i propositi del campo di S. Michele, sui monti tra Marsico e Sala Consilina, accesero fra noi, nelle notti di ansie febbrili, la fiaccola della libertà per tener desti gli spiriti e infiammarli di rivoluzione.
La promulgazione dell'editto di costituzione spagnuola del 6 luglio 1820 fu fatta per smorzare il fuoco rivoluzionario che covava dappertutto; essa fu dai nostri, come da altri popoli lucani, festosamente accolta, ma non aspettata.
Ferdinando, re infido, col pretesto di salute mal ferma, commise il governo nelle mani del figlio Duca di Calabria; poi trescò col gabinetto del governo di Vienna, fu invitato e prese parte al congresso di Lubiana e il congresso gli intimò il ritiro della costituzione. Commedia con epilogo non nuovo di tradimento! «Quindi gli spiriti di libertà tacquero per lunga pezza; la provincia nostra fu tra le più cadavericamente tranquilla, né valsero a scuoterla i conati del prossimo Cilento».
Giunsero all'orecchio dei nostri padri i nomi degli audaci cospiratori fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, di Domenico Moro e di Nicola Ricciotti, venuti da Corfù ed approdati sulla spiaggia di Cotrone, nel giugno 1844, con l'intento di entrare in Cosenza, di liberare i prigionieri politici, di accendere la rivoluzione per l'unità d'Italia. Alcuni col tradimento mossero le popolazioni calabresi, che credettero di andar contro i Turchi (immaginare l'effetto di tale nome nell'animo di gente d'origine greca!) e con un battaglione di cacciatori presero in mezzo gli animosi, di poche decine, a S. Giovanni in Fiore e li portarono alla fucilazione. Fu un triste episodio che si chiuse in Cosenza il 23 luglio 1844.
La cospirazione di Francesco Crispi, di Giuseppe La Farina e di Giuseppe La Masa, siciliani, e la loro azione audace esplosero in un impeto di popolo il 12 gennaio 1848 a Palermo; l'agitazione si propagò rapida in Calabria e in Basilicata e sboccò il 27 gennaio in aperta conclamazione di libertà a Napoli, dove i nostri giovani ed animosi studenti si educavano e s'infiammavano ai pensieri ed alle parole di Giacinto Albini (3).
E Ferdinando II si decise a promulgare la costituzione il 10 febbraio con l'intimo pensiero di tradirla appena il tempo gli fosse sembrato opportuno.
I nostri soldati napoletani non presero parte alla prima guerra d'indipendenza contro l'Austria; vi presero poca parte i soli volontari.
Il Re delle Due Sicilie, richiesto da Carlo Alberto, se ne schermi; l'ingrandimento del Piemonte dava ombra al suo trono. E solo alle rimostranze popolari aveva lasciato partire i volontarii, poche centinaia; dovette poi, il 7 aprile, associarsi alla guerra con un corpo di 14000 uomini al comando del generale Guglielmo Pepe, tornato in patria dopo 27 anni d'esilio.
I Napoletani ebbero ordine di attendere sulla riva destra del Po l'esito degli accordi che stavano prendendo Pio IX e i principi italiani. I volontari d'ogni parte distesi nel piano lombardo, senza unità di comando, venivano sopraffatti dal nemico; pel pentimento di Pio IX quelli dello stato pontificio si ritirarono.
Guglielmo Pepe, benché richiamato dal suo Re, disobbedì, passò il Po con un migliaio d'uomini e si gettò entro Venezia.
La prima guerra d'indipendenza si era chiusa con la catastrofe di Novara, del 23 marzo 1849.
Ferdinando II, in conflitto col parlamento per la diserzione delle sue armi nella crociata contro l'Austria, scatenò la plebaglia contro i deputati.
Ritolse la costituzione e continuò a regnare per altri dodici anni con spirito reo, sospettando di ogni muover di fronda, soffocando con mezzi ignobili ogni tentativo di libertà; aveva riempito le carceri di suoi avversari politici, e tra essi erano i migliori ingegni e le più forti coscienze d'ogni paese; aveva sfibrata e depressa la gioventù con lunga e pesante servizio militare, a cui la teneva avvinta con la disciplina più cieca e dispotica, a furia di legnate sul dorso nudo, togliendo alla produzione dei campi le più fiorenti opere; dopo tali patimenti la gioventù ritornava nelle famiglie col cuore gonfio di amarezze e di odio Lord Palmerston protestava nel parlamento inglese contro tali «atti di crudeltà e di repressione» che non appartenevano all'età in cui viveva.
Tutto il paese languiva: non riattivato nelle strade rotabili e ferrate, non rinnovato nelle intelligenze con le scuole, non purgato con prigioni cristiane.
La società era uno stagno, i popoli erano muti greggi; il clero medio fu sospettato e pedinato; la gioventù incoercibile per sua esuberanza, si chiuse nell'intelligenza e nelle aspirazioni.
La forma del cappello, il colore e la foggia delle vesti, il taglio e la disposizione della barba, eran motivi di richiami e di punizioni.
Ferdinando II col despotismo personale assoluto distrusse lo stato. «Nel corso della storia, dei loro stessi flagelli Iddio punisce i despoti, e dai loro stessi veleni fa nascere il farmaco»: così sentenziava Giacomo Racioppi, storico lucano.
Anche la spedizione di Sapri e la fine di Carlo Pisacane passarono tra i nostri, con i fatti di cronaca paesana e lucana, come un triste episodio di insurrezione mal preparata e peggio eseguita. Carlo Pisacane, già ufficiale del genio a Napoli, capo di stato maggiore di Roselli nella difesa di Roma (1849), esule a Londra, si era fermato a Genova, dove viveva in allegra povertà e dava lezioni di lingua e di matematica. Mazziniano ardente, se l'intendeva in segreto con un comitato di Napoli, di cui era anima Giacinto Albini, il quale a sua volta aveva segreti tramiti con comitati Lucani, di Potenza e di Corleto; e più di qualche messaggio era passato per mezzo di Andrea Surdo di Brindisi, parente degli Asselta, cospiratori di Laurenzana in diretto rapporto col Comitato di Corleto.
Carlo Pisacane s'imbarcò con ventisei compagni sul “Cagliari” che era diretto a Tunisi, nel giugno 1857, sbarcò a Ponza, e, dopo aver arrestato il comandante dell'isola e i suoi ufficiali, fece liberare i detenuti, circa 300, che lo accompagnarono fino a Sapri al grido «Viva Italia! Viva la, repubblica!». Stavano per passare sulle alture del Cilento con un buon numero d'insorti; ma circondati e malmenati da plebaglia rozza e ignorante, assaliti dalle milizie borboniche, perirono quasi tutti; pochi feriti furono presi e condannati a morte; tra essi vi era il barone Nicotera, a cui la pena fu poi commutata in duro carcere.
Vivere, fingendo di non vedere, e tacere; vivere accontentandosi di un piatto di lenticchie e di un orciuolo ricolmo di vino color sangue di drago; vivere ridendo ai lazzi di pulcinella, senza curarsi di quanto avveniva in alto: erano diventate le norme di vita in comune, scevra da grattacapi.
Che altro rimaneva a fare?
Così altrove come a Brindisi la parte intellettuale, decaduta, si era assottigliata. Si era quasi spento l'ardore per la letteratura, per la filosofia, pel diritto e per le scienze. Le persone colte, allettate da governanti e da cortigiani, fin dai tempi del Tannucci, prese dai bagliori dell'urbanesimo, si erano trasferite a Napoli ed in altre città.
I ricchi possessori di terre, i Blasi, i Battaglia, i Fittipaldi, i duchi di Salandra, non venivano tra i nostri di Brindisi, o venivano per poco, e mandavano i loro agenti solo per riscuotere le terraggiere; mentre rimanevano assenti a godersi le rendite, e per nulla influivano allo sviluppo delle aziende, o indirettamente al progredire del nostro paese.
Per la verità devo fare una eccezione: il barone Antonio Blasi, eletto sindaco, fece un po' di bene; ma furono brevi il suo sindacato e la sua dimora in mezzo a noi.
Dopo il 1830 poche famiglie cospicue per proprietà immobiliare, doviziose per bestiame e per piastre d'argento, padroneggiavano or beneficando ora sfruttando i nostri contadini. Esse tenevano il primato nell'agricoltura, nell'industria, e, quasi per tradizione anche nella vita amministrativa del comune. I contadini operai e i pochi artigiani passavano dalle annate di carestia a quelle di abbondanza sempre in balia di esse, strumenti docili e pazienti, scambiando opere con pane, legumi, formaggio, vino e lana; si prestavano al cambio di leva; prezzolati, e si tenevano paghi della fiducia e della protezione di esse.
Ai nostri non erano mancati esempi ammonitori per motivi politici, veri o non veri. Il giovane dottore Raffaele Tito era stato severamente redarguito e minacciato; Andrea Surdo di Vincenzo, uomo di spirito e libero, senza alcun mandato legale o giustificazione, era stato messo in camera di sicurezza ed era stato scarcerato dopo severa riprensione circa la forma di saluto che doveva usare verso le autorità costituite. Si voleva cercare il pelo nell'uovo.
Francescantonio Lamonea, segretario del Comune, aveva dato al busto in gesso di Francesco II arnesi da pastore, pelliccia, cappello e bastone ad uncino, per dire che il re poteva ben cambiare mestiere. Fu perseguitato e carcerato ed avrebbe di certo scontato il dileggio con grave punizione, se la sollevazione del '59 non avesse assillato gli sbirri e i giudici con altri pensieri per la loro personale salvezza.
Il '59 così trovò la gente nostra, che sbarrò gli occhi alle fiamme della rivoluzione, e vide i più timidi, ma più scaltri, trasformarsi in coraggiosi arringatori della folla per le nuove conquiste di libertà. Uno solo le aveva parlato con prudenza e con riserbo, ma con schiettezza, e spontaneamente e generosamente l'aveva aiutata nel bisogno: Andrea Surdo di Nicola, il quale possedeva le simpatie del popolo. Ed egli, coerente, parlò a fronte alta in piazza. Le sue parole trovarono eco sull'altare e sul pulpito, ove l'arciprete Luciano Franchini scioglieva il voto di religione e di patria.
I nostri pacifici agricoltori sollevarono il capo dal solco profondo e nel generale entusiasmo si guardarono apertamente in viso: non sembrava vero di poter aprir l'animo e sciogliere la lingua. Fecero capannelle sulla pubblica piazza, circondarono l'ardente e loquace Scipione Antinori, che, rampollo di antichi signori, parlava in quell'ora contro gli avanzi feudali ed aveva filippiche roventi contro il barone Fittipaldi.
Gli strali tribunizii facevano supporre altri non retorici. Il Barone chiese al Pro Dittatore l'intervento della forza armata ed ottenne una compagnia di bersaglieri, che per qualche mese fece buona guardia al castello e tenne a rispettosa distanza gli spiriti agitati. Il barone, però, non ritenendosi ormai più sicuro nel suo nido di aquila, perchè tenuto di mira dall'alto del campanile, dopo qualche mese ritornò ad Anzi, suo paese di origine, e tra noi non mise piede mai più.
Questo punto ci fa ricordare la mentalità proletaria, che intendeva tradurre ipso facto la causa di risorgimento in liberazione assoluta e completa da ogni gravame, da ogni imposta ed in esonero da ogni tassa; ci rappresenta allo sguardo la calca di gente che dava suppliche al Dittatore Garibaldi, in Cosenza, in Auletta e in tutto il percorso trionfale, nella prima settimana del settembre 1860.
E a questo punto devo trascrivere quanto l'illustre comprovinciale Senatore Giacomo Racioppi (4), che fu a quei tempi membro autorevole della Giunta Centrale di Amministrazione, consacrò fedelmente nella “Storia dei moti di Basilicata e delle Provincie contermini nel 1860” ed è ciò che riflette anche il nostro paese, tenuto sempre desto, come andiamo dicendo, dalla questione feudale, che faceva il paio con quella demaniale degli altri comuni, e della quale si risentiva l'effetto diffusivo: altrove contro le autorità comunali, qui da noi contro il barone.
«I pessimi umori, cui danno corso nei municipii nostri le vecchie quistioni demaniali, già ribollivano per ogni dove, mossi da quell'anarchia che mette negli animi ogni rimutamento degli ordini statuali, sia nelle concitatrici promesse di arruffapopoli di bassa lega, che dallo scioglimento della questione politica dicevano dipendesse lo scioglimento delle questioni demaniali: sia dalle antiche e soppiatte gare di municipio, che or sono leva ora catena alle municipali fazioni. Tumultuarii assembramenti di popolo, che, a parere legali, s'iniziarono al grido dell'Italia e del Dittatore, conturbavano l'ordine interno: in molte parti, aizzate di sottomano da chi per proprio interesse voleva distrarlo dal demanio usurpato dai privati, versavasi il minuto popolo nei boschi e nelle sodaglie del Comune; devastandone in fretta e in furia la selva, così rimuovevano di forza il primo e supremo ostacolo, che venia dalle leggi dell'economia silvana, al suddividersi di quei terreni sodi ai nullatenenti. Il fenomeno ormai prendeva qualità di febbre epidemica; e la Giunta Centrale di Amministrazione impensierita del danno, sanzionava severissime pene (decreto del 27 agosto 1860) contro «ai capi, complici e fautori di moti violenti ed a mano armata per lo esercizio di pretesi diritti di proprietà, dichiarando non potere emergere conseguenza legale dai fatti già consumati, o che potessero consumarsi per le vie turbolenti dei moti popolari». E mentre nell'atto medesimo prometteva alle reclamazioni del popolo «che avrebbe fatto procedere allo scioglimento delle quistioni demaniali nei modi di legge e nel più breve tempo possibile», dava fiducia ai possidenti minacciati, in ordinando alle propinque Comunità di accorrere in forze subitamente, ove quei moti si manifestassero. Gravi pene sanzionava agli autori o complici «di ogni sboscamento o dissodamento in fondi di proprietà pubblicano privata che sia, non escluso i demaniali del Comune, commesso con attruppamento: e questo di dodici persone, come che divisi in drappelli».
Le quali provvisioni a qualche cosa giovarono, mantenendo i popoli in calma.
Una legge luogotenenziale del 2 gennaio 1861 promise di un tratto di penna grandi cose; ed in esempio del napoletano governo quindicenne, che sciolse la feudalità in solo un anno, in breve tempo: ma la legge restò in rubrica, aspettando i calori della state a svolgersi in fiori: passò l'anno, passerà il decennio; e le quistioni demaniali resteranno peggio che insolute, arruffate».
Seguono le considerazioni morali e sociali, profonde, del Comm. Racioppi.
Fra i nostri uomini seguirono sospetti, malcontenti e rappresaglie: fra coloro che avevano osato sollevarsi e i pochi che, sperando e promettendo di trafugare pubblici documenti, conservavano segreta intelligenza ed amichevoli rapporti con l'antico signore, facendo da cortigiani e da delatori e tradendo la causa comune. Alcuno di questi raccolse il premio che si meritava: un'atroce beffa dello stesso barone. Non mancò per altri qualche fucilata punitiva.
Tentò la conciliazione fra livellaria e barone un agente di costui: Arcangelo Maggio di Trivigno, cognato del Capitano Vincenzo Bellezza, della guardia nazionale. Alcuni aderirono; molti altri vollero perseverare nel giudizio civile, che fu lunghissimo, di diverse fasi e più rovinoso per gli umili.
Andrea Surdo, uno dei maggiori interessati, quale esponente della volontà popolare e quale autorità municipale, tenne testa nella difesa dei diritti collettivi, ed egli solo poteva mantenerla salda per intelligenza, rettitudine e potenza finanziaria. La sua valida resistenza turbava i sonni del potente signore; e la lotta avrebbe avuto diverso epilogo, se per altre cause e circostanze, d'interessi professionali e di riverbero municipale, forse in concomitanza di fatti già esposti, una vil mano di sicario, protesa nell'ombra, la sera del 15 settembre 1868, mentre il buono e il generoso si volgeva affabile. per salutare la pia sorella Clementina, sulla soglia d'uscita, non lo avesse, premendo il grilletto delittuoso, colpito alle spalle mortalmente.
Fu uno schianto di cuori, un sol pianto di popolo, che, beneficato e sottratto alla fame negli anni di carestia, da lui, in contrasto con l'avarizia paterna, che sovvenuto sempre e con premura di assennati consigli, da lui sereno ed avveduto, perdeva un amico sincero ed amoroso.
Andrea Surdo aveva incarnato in sè gli spiriti e le tendenze del suo popolo, aveva saputo stabilire con esso quella corrente di affetto sincero e di ascendenza morale che erano forza di attrazione e di unificazione, che erano sorgente continua di volontà e di concordia e l'unica ragione di proselitismo fiducioso.
A me, dopo un mese, fu dato col battesimo l'eredità mesta del nome, e il mio nome suona perdono e pace con vibrazioni che si propagano verso una meta serena di simpatia umana.
I pochi che per invidia e per meschini interessi si erano schierati sulla sponda opposta, portarono perfidamente la maschera d'ipocrisia fino al sabato in cui Iddio paga le male azioni, inesorabilmente.
L'episodio tragico ebbe qualche ripercussione nelle gare municipali e lasciò il paese, e fu grave conseguenza, in balia d'un plutarca insaziato di vendette, il quale, non placato dal volger di decenni e dall'estinzione di intere famiglie, volle il sacrificio di tardi e inconsapevoli nepoti fino all'ultima ora di sua decrepita vecchiezza.

lll

NOTE

(1) Primogenito di Carlo Bonaparte e di Letizia Ramolino, visse dal 1768 al 1844.
(2) Raulick Storia contemporanea
(3) L'Albini nato nel 1821 a Montemurro, fu eroico propulsore e cospiratore della nostra provincia nel periodo 1849 1860. Crispi lo definì: il Mazzini Lucano. In vero fu il maggiore interpetre del pensiero del Maestro che lo invocava «Fratello della Patria». Morì il 12 marzo 1831 a Roma. Sul Pincio gli è stato eretto un busto, solennemente inaugurato l'11 marzo 1898.
(4) Nacque a Moliterno il 21 maggio 1827, morì a Roma , il 21 marzo 1908. Moliterno diede í natali a Ferdinando Petruccelli della Gattina ed a Francesco Lovito.
 

 

 

[Mailing List] [ Home ] [Scrivici]

 

 

 

.