TERRA NOSTRA:
FEUDALISMO E RISORGIMENTO
Le nostre commozioni più profonde nei fatti collettivi più notevoli sono
state principalmente e quasi sempre di natura religiosa e di natura feudale.
I motivi di natura politica, facendo astrazione dalle passeggiere beghe di
amministrazione comunale, son venuti dall'alto ed hanno permeato con
lentezza, di lontano, saltuariamente, prima gli strati superiori, la parte
culta e benestante, in ultimo la massa popolare. E questo avveniva ed
avviene dappertutto.
Le manifestazioni religiose, d'una sincerità commovente, per quanto
concordi, calorose e frequenti, non si sono in generale confuse col
fanatismo; e il nostro popolo si mantiene tuttora credente, sereno, però
suscettibile alle riflessioni ed alla ragionevolezza: guai a tradirlo con la
insincerità!
E delle opere religiose abbiamo parlato esaurientemente.
Fermiamoci di proposito su fatti di ordine economico e di ordine politico,
nella nostra sfera di sentimenti e d'intelligenza e di aspirazioni, la quale
si muove per lo più sotto l'impulso di agenti esterni.
La nostra popolazione si era mantenuta sobria, pacifica e laboriosa in tutto
il periodo di signoria dei principi Sanseverino. Contro i soprusi, i divieti
irragionevoli e disumani, le limitazioni arbitrarie, ha avuto esplosioni di
sdegno e di rivolta, mai di estrema violenza; e perchè aveva osato levar la
testa, fu fatta bersaglio di odio, di vendette e di strali giudiziarii più
laceranti.
Aveva osato domandare, insistendo, l'affrancazione della terra madre da pesi
feudali, divenuti insostenibili; voleva esercitare diritti civici sanzionati
da usi secolari; voleva conservare negli anni di carestia gli scarsi
raccolti per sementi: ecco quanto aveva osato e preteso, per cui fu
staffilata in pieno viso ed ebbe addentati i polpacci dai cani sguinzagliati
da' rabbiosi guardiani del palazzo dominante.
È la terra che mi ha lasciato mio padre con tale memoria sacra suol definire
il nostro agricoltore la successione e il possesso.
Siamo vermi di terra dichiarano i nostri agricoltori quando vogliono
umiliarsi alla infinita potenza di Dio ed alla sua volontà solamente; o
quando lanciano un sarcasma ai potenti della terra per rinfacciare lo stato
umiliante in cui son tenuti, mentre dan pane a tutti.
E baciano la terra e la fecondano. Si levano rinnovati, come Antèo, per
ridar pane a tutti, anche a coloro che li han calpestati.
Risorgono nel lavoro a fasci poderosi o siedono sui covoni, come su troni, o
cantano a gola piena, come sacerdoti intorno agli altari fatti di bighe.
E così terra nostra è l'affermazione solenne di patria e di tradizione, di
usi, di costumi, di difesa, di concordia, di fusione d'energie e di materia
che dà oggetto di amore nei secoli.
Guai a colui che calpesta il seminato al nostro contadino: calpesta
l'amicizia. Guai a colui che gli taglia una zolla sul confine: gli morde il
cuore.
Segue la vendetta, quasi sempre.
Il suo podere è intangibile. In esso trova la dignità e parla degli avi; vi
si sente perfettamente libero ed è salace, epigrammatico, nelle chiose ai
fatti del giorno, di cricche e di tresche; scioglie la lingua alle cose di
governo per quanto ha raccolto da soldato nelle città e per quanto sente
dire da chi legge il giornale; mentre sulla piazza, nei crocchi, quando
s'immischia anche chi non è del suo abito, è sospettoso e taciturno e si
limita a scambiare una furba occhiata che significa: non me la bevo, o ad
emettere un sospiro che par alleggerisca il riserbo.
La chiesa e il prete sono lì ad eternare la religione dei padri e se vanno
bene non son discussi, ma quando è il caso son ricamati con rispetto.
Il governo e la giustizia gli eran rimasti troppo lontani, troppo in alto;
egli non riusciva a raggiungere la forma astratta ed aveva preciso bisogno
di personificare. Egli conosceva il Signore, il padrone con i suoi fasti ed
i suoi codazzi di bravi e di servitori, con le sue partite rumorose di
caccia, con le sue prodigalità, con i suoi benefizii, con i suoi privilegi,
i suoi capricci e le sue favorite, con le sue protezioni più o meno
ostentate, con i suoi corrucci e le sue rappresaglie. A lui rimanevan le
briciole e le ossa o la caccia di frodo, e non sempre la speranza di
raccogliere i resti delle sue energie e i frutti delle sue fatiche, perchè
doveva prima assicurare al feudatario le sue dovizie.
Il governo e la giustizia per lui eran nelle mani dei pochi che comandavano
in paese: in costoro vedeva le leggi e il mezzo di eluderle e l'elusione
costituiva una onesta fortuna; quindi, completa dedizione o il rancore e
l'odio e l'isolata vendetta, meditata, covata e consumata nelle tenebre; o
l'esplosione incontenibile in forma collettiva di fuoco e di fiamme, come in
luminarie di festa.
La politica di governo, di lontano riflesso, arrivava alle nostre
popolazioni quale debole, scialba e falsata luce boreale attraverso le
nuvolaglie di caste privilegiate e di correnti d'ambizioni e d'egoismi. Le
umili piante rimanevan nane, poco o nulla riscaldate, sferzate dai venti
algidi, spogliate da frequenti grandinate devastatrici.
La politica veniva intesa nei soli avvenimenti di guerra fra popoli: segno
precursore la chiamata alle armi; attori e storici i soldati che avevan
fortuna di raccontare quello che avevan compiuto o visto di compiere. Così
tra noi Nicola Cappiello; morto all'età di novantanove anni, descriveva il
passaggio della Beresina. Il figlio Giuseppe ben sapeva dell'attentato di
Vegeslao Milano e della fuga di Francesco II a Gaeta.
Nicola Larocca di Giuseppe Gerardo, Vincenzo Pisani e Michele Lucca avevano
partecipato all'assedio di Venezia ed all'apertura della Breccia di Porta
Pia, e zappando narravano tali fatti ai compagni avidi di sapere.
Come ho detto già, la politica in nome e parte dei nostri contadini la
facevano a modo loro i signori; i preti e i sapienti, i condottieri, i
masnadieri e gli arruffapopoli.
Però i nostri contadini, anche dopo mezzo secolo di scuola, di storia e di
morale civile, anche se ingentiliti dalle nuove e svariate forme di civiltà
son rimasti con un simpatico fondamento di incredulità, che non è sempre di
rozzezza e ostinatezza refrattarie ad ogni benefica opera di persuasione, ma
di prudenza e di attesa che non guastano: è d'igienica quarantena.
Li vediamo: non stringono con slancio, alla prima offerta di aiuto, la mano
che si protende amica.
In molti comuni, specialmente nelle Puglie e in Basilicata e ovunque si
stendeva ozioso il latifondo a sfidare le braccia nerborute dei contadini,
ovunque era stato un fermento di origine feudale o demaniale, terminata la
guerra, erano scoppiate rivolte sanguinose di piazza, divampati incendii di
uffici municipali. La guerra per successione di dinastie, per gelosia di
commerci, per espansioni e conquiste, motivi estranei ad ogni interesse
popolare, ogni volta ha restituito alle proprie terre le masse di uomini con
una coscienza diversa, consapevole cioè del valore e dell'impeto delle forze
riunite, anche se brute. E le masse a suon di tamburo ed a bandiera spiegata
hanno invaso i latifondi e i demanii; e conflitti lunghi ed estenuanti,
rinfocolati nelle associazioni e nelle leghe, si son protesi per assisie e
tribunali.
Dualismo due volte millenario, fra padroni e servi, tra nobili e plebei, tra
latifondisti e frazionisti, tra capitalisti, datori e lavoratori, fra
produttori e parassiti: dualismo che ebbe un bagliore esotico col principio
di nazionalizzazione della terra, che ora solamente e da noi solamente
confluisce e si va mescolando nella volontà e nell'autorità supreme dello
Stato, che modera e compone con leggi e corporazioni e sindacati, con
librazioni di usi civici, con azioni energiche e risolutive, i rapporti
della nazione stessa, che lavora e produce e che vuol essere con fermezza
sicura dell'oggi e libera di svolgersi per l'avvenire nei rapporti interni
ed esterni.
E questa fermezza sia suggello alle vicende torbide che riesumo
succintamente solo per ragione storica. E non è vano il ricordo quando è un
monito ai prepotenti ed ai disumani, un incitamento a formarsi una coscienza
chiara di quello che si è e di quello che si può divenire, quando è un
conforto agli umili che devono vivere in un'atmosfera trasparente e sentirsi
coalizzati e sicuri nel lavoro sotto l'egida immediata di provvidenze
statali.
Dissidio forte nacque e crebbe subito tra i baroni Ovidio e Camillo D'Erario
di Tolve, padre e figlio, signori dal 3 luglio 1606 al 1610 dei feudi di
Albano e di Brindisi, ed i nostri ancora bellicosi Coronei: il dissidio,
causato da mala signoria, culminò in una tragica ora di furia popolare, che
trasse don Camillo dal castello e lo trascinò sino al largo della Chiaffa,
ove la pietà vinse lo sdegno e serbò un'esistenza a più miti consigli: se
non a più saggio governo, almeno a vita non d'imperio. Don Camillo il 10
luglio 1610, avendo perduto i feudi di Brindisi e di Albano, si ritirò in
Tolve a vita privata.
Dissidii simili, contestazioni e giudizii, si ripeterono nel 1675, nel 1740
e nel 1773 fra il Comune e la casa dei duchi Antinori, e nel 1791 fra il
Comune e la Certosa di Padula: nel 1740 il nostro Comune contro Giuseppe
Domenico Antinori aveva prodotto trentatre capi di gravezze, che furono
discussi nel 1751 dal presidente Mauri. Il Duca istituì, quindi, un
fidecommesso.
Per spiegare questa attività di popolo è bene parlare ai lumi della storia
circa il periodo che va dal 1740 al 1805, che si svolgeva propizio allo
scioglimento dei legami di servitù ed alla liberazione delle terre da
avvilenti gravezze.
Nel periodo fra il 1735 e il 1759 regnava Carlo III ed aveva per ministro
Tannucci. L'azione della corona era gagliarda contro i nobili ed il clero.
Carlo III non voleva alcun potere intermedario fra re e popolo; abolì
decime, frenò l'acquisto di manomorte, rivendicò alla potestà laica tutti
gli atti di stato civile. Diede i primi colpi alle male piante della
nobiltà, ma con prudenza. Tolse la bruttura del diritto di prelazione, per
cui il colono non poteva vendere liberamente i prodotti, se non dando la
precedenza ai signori, anzi non poteva far la raccolta, se prima non curasse
quella del signore e del barone, e i diritti di pascolo impedivano la
coltivazione.
Il re abolì tutto questo. I nobili e i baroni furono con sottile
accorgimento attirati alla capitale e nella corte del re diventarono servi;
ma ritornarono audaci ed invadenti durante il regno di Ferdinando IV, e
dovremmo dire di Carolina, sua consorte ambiziosissima.
La rivoluzione francese aveva già valicato le Alpi e rapidamente percorreva
gli Appennini con le armi vittoriose: i diritti dell'uomo erano la nuova
parola d'ordine.
Ferdinando IV si avvicinò ultimo alla lega tra Inghilterra, Russia e Austria
contro la Francia: si avvicinò solo dopo l'Austria, quando vide i Francesi
approssimarsi a gran passi al suo regno, durante la repubblica romana.
Accolse in trionfo Nelson, che aveva riportato sulla squadra francese
nell'agosto 1798 una vittoria navale nella rada di Abukir: nel Mediterraneo,
a nord est di Alessandria d'Egitto. Ma al ritorno del generale francese
Championnet, nel 1799, Napoli fremeva e il re fuggì in Sicilia. Napoli dal
15 al 20 gennaio versò in orrore e in lutto: si disse repubblica partenopea,
ma fu ruina e caos!
..... Napoli per reazione è saccheggiata, è alla mercè della plebaglia, e le
terre del regno sono percosse e taglieggiate da bande di briganti e di
forsennati, a cui prendono parte sbirri, frati e preti, dei quali nelle
Calabrie è a capo il cardinale Ruffo.
I repubblicani, i loro più gloriosi esponenti, pagano con la vita il grido
di libertà: così tra il fiore di persone onorate e coraggiose; Mario Pagano
(di Brienza, Basilicata), Domenico Cirillo, Gabriele Manthonè, Eleonora
Pimentel, Francesco Conforti, Francesco Caracciolo e il Conte Ruvo.
Ferdinando IV premiò i capi delle crudeli masnade, da Palermo.
La pace Lunéville (febbraio 1801) gettò lo sgomento nella corte di Napoli,
che vedendo avvicinarsi le armi del generale Gioacchino Murat, venne a patti
segreti e mantenne a sue spese, finché durava la guerra tra Francia,
Inghilterra e Turchia, quindicimila Francesi in alcune guarnigioni del
litorale del Regno.
La giornata di Austerliz (2 dicembre 1805) ruppe d'un colpo il piano di
Ferdinando IV, che si disponeva con ventimila soldati, tra Russi e Inglesi
ed altrettanti Napoletani, a cacciare i Francesi dalle Marche e rimandarli
sino al Po.
Napoleone proclamò decaduti i Borboni; mandò suo fratello Giuseppe col
generale Messena a capo di quarantaduemila uomini per conquistare il
Napoletano. Il Re fuggì di nuovo a Palermo con la sua famiglia e la corte:
nel gennaio 1806.
Giuseppe (1) ebbe con sè a Napoli i repubblicani, gli uomini di studio e di
cultura e la borghesia: i Francesi rappresentavano, in fondo, ogni forma
civile, se non la migliore libertà; mentre i Borboni, dalla cui parte
rimasero il clero per i privilegi e la plebe per le feste e la esenzione da
ogni contributo materiale, ricordavano tristamente l'oppressione feudale con
tutti gli orrori di ordinamenti medioevali.
«Del resto, la fiducia, che la parte eletta di Napoli poneva nel nuovo re,
pare legittima. Giuseppe aveva fama di bontà e di mitezza. Amante degli
studi letterari e del queto vivere, più che delle armi, era un filosofo
amico dell'umanità; ma devoto al fratello, obbediente e bramoso di piacergli
più che giovare al suo popolo, parve poi bastante all'ufficio di antico re e
minore al carico di re nuovo. Pure con lui Napoli ebbe tosto ordinamenti e
leggi alla francese, che migliorarono lo stato civile e morale del regno
(2)».
Nel maggio 1808 Napoleone mise sul trono di Spagna, tolto ai Borboni Carlo
IV e Ferdinando VII, padre e figlio, il fratello Giuseppe, ed a quello di
Napoli destinò il cognato Gioacchino Murat. Questi governò coi principi di
libertà della rivoluzione francese; ma, ambizioso e mutabile, geloso di
Eugenio, vice rè d'Italia, nei rovesci di Napoleone (1814) passò tra i
nemici di costui e gli andò contro.
Murat per l'incertezza di propositi e i sogni di unificazione d'Italia, la
quale non si commuove alle sue vedute, assiste allo scompiglio del suo
esercito a Tolentino, ove è battuto dagli Austriaci; rinunzia alla corona,
fugge nella Provenza, ritorna in Calabria ed è fucilato nel Castello di
Pizzo nell'ottobre 1815, all'età di quarantotto anni.
Raccontano che il re Ferdinando volle la sua testa presso di sè per
rallegrarsene!
E gli avrebbero portata anche quella del nostro prete Mangoni, che aveva
osate inneggiare a Giuseppe, padre del popolo, ed a Murat, indice
dell'uguaglianza dei diritti! . . Ma. . . vi era chi, avendo assunto il
compito di castigare il prete ardente, amico del popolino a cui prodigava la
sua intelligenza e la sua volontà, preferì di tenerla sotto i suoi occhi per
vederla più lentamente consumarsi.
Ecco spiegato come in quel giro di tempo, fra gli umili e i sottomessi,
insorse la nostra municipalità, che voleva rivendicare, contro la opulenta
Certosa di Padula e contro i duchi Antinori, il territorio e liberarlo di
gravezze feudali. Ecco perchè modesti preti, quali Gerardo Mangoni e
Giovanni Plescia, e un modesto avvocato, il Pelosa, trovarono l'ardire e la
facondia e in seno alla Commissione reale sostennero i diritti dei nostro
Comune.
Essi avevano osato e furono tenuti di mira. Il Mangoni fu calunniato quale
eresiarca, ateo; fu perseguitato e punito dai suoi superiori gerarchici.
Egli, più animoso e più fiero, raccolse così il premio dei suo studio e del
suo slancio tribunizio. E i suoi avversari gioirono!
Caduto Napoleone a Waterloo il 18 giugno 1815, fucilato il Murat
nell'ottobre successivo, caddero le speranze dei murattisti del Napoletano.
Il trattato di Vienna, nel giugno stesso dei 1815, aveva rimesso in piedi il
diritto del più forte. Non fu rispettato nemmeno il diritto di
«legittimità», che aveva dichiarato di contrapporre al diritto di sovranità
popolare, dianzi proclamato dalla rivoluzione.
Creatura d'Austria; Ferdinando IV di Borbone entrò nella Santa alleanza
(strettasi il 26 settembre) e con gli altri potenti quali e quanti attentati
si accingeva a compiere in nome di Dio contro i più sacri diritti del
popolo! Tiranno e bigotto!
Prodigó favori e gradi ai suoi fedeli; cancellò ogni traccia dell'ex
ministro Tannucci; tolse ogni libertà e per non conservare le leggi
francesi, se non quella che più gli piaceva, le fece rifondere in un codice
napoletano.
Nel 1816, fatto più ardimentoso, si sbarazzò della costituzione, riunì
l'amministrazione delle Provincie di qua e di là dello stretto di Messina e
si chiamò Primo Re delle Due Sicilie.
Le unghie e i denti dei potenti e dei nobili si affondarono di nuovo nelle
carni del popolo; mentre Murat aveva favorito i piccoli possessori,
Ferdinando si era affrettato a ripristinare le proprietà demaniali.
La carestia e l'esacrato principe di Canosa furono, fra il despotismo e le
crudeltà, i flagelli più terribili.
Il malcontento era generale: più acuto nelle Puglie, ove il tavoliere era
stato condannato alla sterilità.
Ma si finse di dormire per congiurare nella notte e nei boschi. Accanto ai
dormienti d'un sonno che non era riposo, ma imposizione di nefasta politica
e di paura, passarono gli spettri corruschi di spie, di carnefici e di
affamatori: i carbonari prima, i calderari poi, i conati rivoluzionari 1820
1821 di Laurenzana e di Calvello, i giuramenti e i propositi del campo di S.
Michele, sui monti tra Marsico e Sala Consilina, accesero fra noi, nelle
notti di ansie febbrili, la fiaccola della libertà per tener desti gli
spiriti e infiammarli di rivoluzione.
La promulgazione dell'editto di costituzione spagnuola del 6 luglio 1820 fu
fatta per smorzare il fuoco rivoluzionario che covava dappertutto; essa fu
dai nostri, come da altri popoli lucani, festosamente accolta, ma non
aspettata.
Ferdinando, re infido, col pretesto di salute mal ferma, commise il governo
nelle mani del figlio Duca di Calabria; poi trescò col gabinetto del governo
di Vienna, fu invitato e prese parte al congresso di Lubiana e il congresso
gli intimò il ritiro della costituzione. Commedia con epilogo non nuovo di
tradimento! «Quindi gli spiriti di libertà tacquero per lunga pezza; la
provincia nostra fu tra le più cadavericamente tranquilla, né valsero a
scuoterla i conati del prossimo Cilento».
Giunsero all'orecchio dei nostri padri i nomi degli audaci cospiratori
fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, di Domenico Moro e di Nicola Ricciotti,
venuti da Corfù ed approdati sulla spiaggia di Cotrone, nel giugno 1844, con
l'intento di entrare in Cosenza, di liberare i prigionieri politici, di
accendere la rivoluzione per l'unità d'Italia. Alcuni col tradimento mossero
le popolazioni calabresi, che credettero di andar contro i Turchi
(immaginare l'effetto di tale nome nell'animo di gente d'origine greca!) e
con un battaglione di cacciatori presero in mezzo gli animosi, di poche
decine, a S. Giovanni in Fiore e li portarono alla fucilazione. Fu un triste
episodio che si chiuse in Cosenza il 23 luglio 1844.
La cospirazione di Francesco Crispi, di Giuseppe La Farina e di Giuseppe La
Masa, siciliani, e la loro azione audace esplosero in un impeto di popolo il
12 gennaio 1848 a Palermo; l'agitazione si propagò rapida in Calabria e in
Basilicata e sboccò il 27 gennaio in aperta conclamazione di libertà a
Napoli, dove i nostri giovani ed animosi studenti si educavano e
s'infiammavano ai pensieri ed alle parole di Giacinto Albini (3).
E Ferdinando II si decise a promulgare la costituzione il 10 febbraio con
l'intimo pensiero di tradirla appena il tempo gli fosse sembrato opportuno.
I nostri soldati napoletani non presero parte alla prima guerra
d'indipendenza contro l'Austria; vi presero poca parte i soli volontari.
Il Re delle Due Sicilie, richiesto da Carlo Alberto, se ne schermi;
l'ingrandimento del Piemonte dava ombra al suo trono. E solo alle
rimostranze popolari aveva lasciato partire i volontarii, poche centinaia;
dovette poi, il 7 aprile, associarsi alla guerra con un corpo di 14000
uomini al comando del generale Guglielmo Pepe, tornato in patria dopo 27
anni d'esilio.
I Napoletani ebbero ordine di attendere sulla riva destra del Po l'esito
degli accordi che stavano prendendo Pio IX e i principi italiani. I
volontari d'ogni parte distesi nel piano lombardo, senza unità di comando,
venivano sopraffatti dal nemico; pel pentimento di Pio IX quelli dello stato
pontificio si ritirarono.
Guglielmo Pepe, benché richiamato dal suo Re, disobbedì, passò il Po con un
migliaio d'uomini e si gettò entro Venezia.
La prima guerra d'indipendenza si era chiusa con la catastrofe di Novara,
del 23 marzo 1849.
Ferdinando II, in conflitto col parlamento per la diserzione delle sue armi
nella crociata contro l'Austria, scatenò la plebaglia contro i deputati.
Ritolse la costituzione e continuò a regnare per altri dodici anni con
spirito reo, sospettando di ogni muover di fronda, soffocando con mezzi
ignobili ogni tentativo di libertà; aveva riempito le carceri di suoi
avversari politici, e tra essi erano i migliori ingegni e le più forti
coscienze d'ogni paese; aveva sfibrata e depressa la gioventù con lunga e
pesante servizio militare, a cui la teneva avvinta con la disciplina più
cieca e dispotica, a furia di legnate sul dorso nudo, togliendo alla
produzione dei campi le più fiorenti opere; dopo tali patimenti la gioventù
ritornava nelle famiglie col cuore gonfio di amarezze e di odio Lord
Palmerston protestava nel parlamento inglese contro tali «atti di crudeltà e
di repressione» che non appartenevano all'età in cui viveva.
Tutto il paese languiva: non riattivato nelle strade rotabili e ferrate, non
rinnovato nelle intelligenze con le scuole, non purgato con prigioni
cristiane.
La società era uno stagno, i popoli erano muti greggi; il clero medio fu
sospettato e pedinato; la gioventù incoercibile per sua esuberanza, si
chiuse nell'intelligenza e nelle aspirazioni.
La forma del cappello, il colore e la foggia delle vesti, il taglio e la
disposizione della barba, eran motivi di richiami e di punizioni.
Ferdinando II col despotismo personale assoluto distrusse lo stato. «Nel
corso della storia, dei loro stessi flagelli Iddio punisce i despoti, e dai
loro stessi veleni fa nascere il farmaco»: così sentenziava Giacomo
Racioppi, storico lucano.
Anche la spedizione di Sapri e la fine di Carlo Pisacane passarono tra i
nostri, con i fatti di cronaca paesana e lucana, come un triste episodio di
insurrezione mal preparata e peggio eseguita. Carlo Pisacane, già ufficiale
del genio a Napoli, capo di stato maggiore di Roselli nella difesa di Roma
(1849), esule a Londra, si era fermato a Genova, dove viveva in allegra
povertà e dava lezioni di lingua e di matematica. Mazziniano ardente, se
l'intendeva in segreto con un comitato di Napoli, di cui era anima Giacinto
Albini, il quale a sua volta aveva segreti tramiti con comitati Lucani, di
Potenza e di Corleto; e più di qualche messaggio era passato per mezzo di
Andrea Surdo di Brindisi, parente degli Asselta, cospiratori di Laurenzana
in diretto rapporto col Comitato di Corleto.
Carlo Pisacane s'imbarcò con ventisei compagni sul Cagliari che era
diretto a Tunisi, nel giugno 1857, sbarcò a Ponza, e, dopo aver arrestato il
comandante dell'isola e i suoi ufficiali, fece liberare i detenuti, circa
300, che lo accompagnarono fino a Sapri al grido «Viva Italia! Viva la,
repubblica!». Stavano per passare sulle alture del Cilento con un buon
numero d'insorti; ma circondati e malmenati da plebaglia rozza e ignorante,
assaliti dalle milizie borboniche, perirono quasi tutti; pochi feriti furono
presi e condannati a morte; tra essi vi era il barone Nicotera, a cui la
pena fu poi commutata in duro carcere.
Vivere, fingendo di non vedere, e tacere; vivere accontentandosi di un
piatto di lenticchie e di un orciuolo ricolmo di vino color sangue di drago;
vivere ridendo ai lazzi di pulcinella, senza curarsi di quanto avveniva in
alto: erano diventate le norme di vita in comune, scevra da grattacapi.
Che altro rimaneva a fare?
Così altrove come a Brindisi la parte intellettuale, decaduta, si era
assottigliata. Si era quasi spento l'ardore per la letteratura, per la
filosofia, pel diritto e per le scienze. Le persone colte, allettate da
governanti e da cortigiani, fin dai tempi del Tannucci, prese dai bagliori
dell'urbanesimo, si erano trasferite a Napoli ed in altre città.
I ricchi possessori di terre, i Blasi, i Battaglia, i Fittipaldi, i duchi di
Salandra, non venivano tra i nostri di Brindisi, o venivano per poco, e
mandavano i loro agenti solo per riscuotere le terraggiere; mentre
rimanevano assenti a godersi le rendite, e per nulla influivano allo
sviluppo delle aziende, o indirettamente al progredire del nostro paese.
Per la verità devo fare una eccezione: il barone Antonio Blasi, eletto
sindaco, fece un po' di bene; ma furono brevi il suo sindacato e la sua
dimora in mezzo a noi.
Dopo il 1830 poche famiglie cospicue per proprietà immobiliare, doviziose
per bestiame e per piastre d'argento, padroneggiavano or beneficando ora
sfruttando i nostri contadini. Esse tenevano il primato nell'agricoltura,
nell'industria, e, quasi per tradizione anche nella vita amministrativa del
comune. I contadini operai e i pochi artigiani passavano dalle annate di
carestia a quelle di abbondanza sempre in balia di esse, strumenti docili e
pazienti, scambiando opere con pane, legumi, formaggio, vino e lana; si
prestavano al cambio di leva; prezzolati, e si tenevano paghi della fiducia
e della protezione di esse.
Ai nostri non erano mancati esempi ammonitori per motivi politici, veri o
non veri. Il giovane dottore Raffaele Tito era stato severamente redarguito
e minacciato; Andrea Surdo di Vincenzo, uomo di spirito e libero, senza
alcun mandato legale o giustificazione, era stato messo in camera di
sicurezza ed era stato scarcerato dopo severa riprensione circa la forma di
saluto che doveva usare verso le autorità costituite. Si voleva cercare il
pelo nell'uovo.
Francescantonio Lamonea, segretario del Comune, aveva dato al busto in gesso
di Francesco II arnesi da pastore, pelliccia, cappello e bastone ad uncino,
per dire che il re poteva ben cambiare mestiere. Fu perseguitato e carcerato
ed avrebbe di certo scontato il dileggio con grave punizione, se la
sollevazione del '59 non avesse assillato gli sbirri e i giudici con altri
pensieri per la loro personale salvezza.
Il '59 così trovò la gente nostra, che sbarrò gli occhi alle fiamme della
rivoluzione, e vide i più timidi, ma più scaltri, trasformarsi in coraggiosi
arringatori della folla per le nuove conquiste di libertà. Uno solo le aveva
parlato con prudenza e con riserbo, ma con schiettezza, e spontaneamente e
generosamente l'aveva aiutata nel bisogno: Andrea Surdo di Nicola, il quale
possedeva le simpatie del popolo. Ed egli, coerente, parlò a fronte alta in
piazza. Le sue parole trovarono eco sull'altare e sul pulpito, ove
l'arciprete Luciano Franchini scioglieva il voto di religione e di patria.
I nostri pacifici agricoltori sollevarono il capo dal solco profondo e nel
generale entusiasmo si guardarono apertamente in viso: non sembrava vero di
poter aprir l'animo e sciogliere la lingua. Fecero capannelle sulla pubblica
piazza, circondarono l'ardente e loquace Scipione Antinori, che, rampollo di
antichi signori, parlava in quell'ora contro gli avanzi feudali ed aveva
filippiche roventi contro il barone Fittipaldi.
Gli strali tribunizii facevano supporre altri non retorici. Il Barone chiese
al Pro Dittatore l'intervento della forza armata ed ottenne una compagnia di
bersaglieri, che per qualche mese fece buona guardia al castello e tenne a
rispettosa distanza gli spiriti agitati. Il barone, però, non ritenendosi
ormai più sicuro nel suo nido di aquila, perchè tenuto di mira dall'alto del
campanile, dopo qualche mese ritornò ad Anzi, suo paese di origine, e tra
noi non mise piede mai più.
Questo punto ci fa ricordare la mentalità proletaria, che intendeva tradurre
ipso facto la causa di risorgimento in liberazione assoluta e completa da
ogni gravame, da ogni imposta ed in esonero da ogni tassa; ci rappresenta
allo sguardo la calca di gente che dava suppliche al Dittatore Garibaldi, in
Cosenza, in Auletta e in tutto il percorso trionfale, nella prima settimana
del settembre 1860.
E a questo punto devo trascrivere quanto l'illustre comprovinciale Senatore
Giacomo Racioppi (4), che fu a quei tempi membro autorevole della Giunta
Centrale di Amministrazione, consacrò fedelmente nella Storia dei moti di
Basilicata e delle Provincie contermini nel 1860 ed è ciò che riflette
anche il nostro paese, tenuto sempre desto, come andiamo dicendo, dalla
questione feudale, che faceva il paio con quella demaniale degli altri
comuni, e della quale si risentiva l'effetto diffusivo: altrove contro le
autorità comunali, qui da noi contro il barone.
«I pessimi umori, cui danno corso nei municipii nostri le vecchie quistioni
demaniali, già ribollivano per ogni dove, mossi da quell'anarchia che mette
negli animi ogni rimutamento degli ordini statuali, sia nelle concitatrici
promesse di arruffapopoli di bassa lega, che dallo scioglimento della
questione politica dicevano dipendesse lo scioglimento delle questioni
demaniali: sia dalle antiche e soppiatte gare di municipio, che or sono leva
ora catena alle municipali fazioni. Tumultuarii assembramenti di popolo,
che, a parere legali, s'iniziarono al grido dell'Italia e del Dittatore,
conturbavano l'ordine interno: in molte parti, aizzate di sottomano da chi
per proprio interesse voleva distrarlo dal demanio usurpato dai privati,
versavasi il minuto popolo nei boschi e nelle sodaglie del Comune;
devastandone in fretta e in furia la selva, così rimuovevano di forza il
primo e supremo ostacolo, che venia dalle leggi dell'economia silvana, al
suddividersi di quei terreni sodi ai nullatenenti. Il fenomeno ormai
prendeva qualità di febbre epidemica; e la Giunta Centrale di
Amministrazione impensierita del danno, sanzionava severissime pene (decreto
del 27 agosto 1860) contro «ai capi, complici e fautori di moti violenti ed
a mano armata per lo esercizio di pretesi diritti di proprietà, dichiarando
non potere emergere conseguenza legale dai fatti già consumati, o che
potessero consumarsi per le vie turbolenti dei moti popolari». E mentre
nell'atto medesimo prometteva alle reclamazioni del popolo «che avrebbe
fatto procedere allo scioglimento delle quistioni demaniali nei modi di
legge e nel più breve tempo possibile», dava fiducia ai possidenti
minacciati, in ordinando alle propinque Comunità di accorrere in forze
subitamente, ove quei moti si manifestassero. Gravi pene sanzionava agli
autori o complici «di ogni sboscamento o dissodamento in fondi di proprietà
pubblicano privata che sia, non escluso i demaniali del Comune, commesso con
attruppamento: e questo di dodici persone, come che divisi in drappelli».
Le quali provvisioni a qualche cosa giovarono, mantenendo i popoli in calma.
Una legge luogotenenziale del 2 gennaio 1861 promise di un tratto di penna
grandi cose; ed in esempio del napoletano governo quindicenne, che sciolse
la feudalità in solo un anno, in breve tempo: ma la legge restò in rubrica,
aspettando i calori della state a svolgersi in fiori: passò l'anno, passerà
il decennio; e le quistioni demaniali resteranno peggio che insolute,
arruffate».
Seguono le considerazioni morali e sociali, profonde, del Comm. Racioppi.
Fra i nostri uomini seguirono sospetti, malcontenti e rappresaglie: fra
coloro che avevano osato sollevarsi e i pochi che, sperando e promettendo di
trafugare pubblici documenti, conservavano segreta intelligenza ed
amichevoli rapporti con l'antico signore, facendo da cortigiani e da
delatori e tradendo la causa comune. Alcuno di questi raccolse il premio che
si meritava: un'atroce beffa dello stesso barone. Non mancò per altri
qualche fucilata punitiva.
Tentò la conciliazione fra livellaria e barone un agente di costui:
Arcangelo Maggio di Trivigno, cognato del Capitano Vincenzo Bellezza, della
guardia nazionale. Alcuni aderirono; molti altri vollero perseverare nel
giudizio civile, che fu lunghissimo, di diverse fasi e più rovinoso per gli
umili.
Andrea Surdo, uno dei maggiori interessati, quale esponente della volontà
popolare e quale autorità municipale, tenne testa nella difesa dei diritti
collettivi, ed egli solo poteva mantenerla salda per intelligenza,
rettitudine e potenza finanziaria. La sua valida resistenza turbava i sonni
del potente signore; e la lotta avrebbe avuto diverso epilogo, se per altre
cause e circostanze, d'interessi professionali e di riverbero municipale,
forse in concomitanza di fatti già esposti, una vil mano di sicario, protesa
nell'ombra, la sera del 15 settembre 1868, mentre il buono e il generoso si
volgeva affabile. per salutare la pia sorella Clementina, sulla soglia
d'uscita, non lo avesse, premendo il grilletto delittuoso, colpito alle
spalle mortalmente.
Fu uno schianto di cuori, un sol pianto di popolo, che, beneficato e
sottratto alla fame negli anni di carestia, da lui, in contrasto con
l'avarizia paterna, che sovvenuto sempre e con premura di assennati
consigli, da lui sereno ed avveduto, perdeva un amico sincero ed amoroso.
Andrea Surdo aveva incarnato in sè gli spiriti e le tendenze del suo popolo,
aveva saputo stabilire con esso quella corrente di affetto sincero e di
ascendenza morale che erano forza di attrazione e di unificazione, che erano
sorgente continua di volontà e di concordia e l'unica ragione di
proselitismo fiducioso.
A me, dopo un mese, fu dato col battesimo l'eredità mesta del nome, e il mio
nome suona perdono e pace con vibrazioni che si propagano verso una meta
serena di simpatia umana.
I pochi che per invidia e per meschini interessi si erano schierati sulla
sponda opposta, portarono perfidamente la maschera d'ipocrisia fino al
sabato in cui Iddio paga le male azioni, inesorabilmente.
L'episodio tragico ebbe qualche ripercussione nelle gare municipali e lasciò
il paese, e fu grave conseguenza, in balia d'un plutarca insaziato di
vendette, il quale, non placato dal volger di decenni e dall'estinzione di
intere famiglie, volle il sacrificio di tardi e inconsapevoli nepoti fino
all'ultima ora di sua decrepita vecchiezza.
lll
NOTE
(1) Primogenito di Carlo Bonaparte e di Letizia Ramolino, visse dal 1768 al
1844.
(2) Raulick Storia contemporanea
(3) L'Albini nato nel 1821 a Montemurro, fu eroico propulsore e cospiratore
della nostra provincia nel periodo 1849 1860. Crispi lo definì: il Mazzini
Lucano. In vero fu il maggiore interpetre del pensiero del Maestro che lo
invocava «Fratello della Patria». Morì il 12 marzo 1831 a Roma. Sul Pincio
gli è stato eretto un busto, solennemente inaugurato l'11 marzo 1898.
(4) Nacque a Moliterno il 21 maggio 1827, morì a Roma , il 21 marzo 1908.
Moliterno diede í natali a Ferdinando Petruccelli della Gattina ed a
Francesco Lovito.
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