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ANDREA PISANI
Dall'Albania a Brindisi di Montagna all'Italia
 

BRINDISI PER LA GRANDE ITALIA

Il nostro piccolo paese rispose anch'esso, obbedendo, nell'ora suprema del cimento, per abbattere la protervia del secolare nemico, che si era opposto sempre, con odiosa ostinatezza, al raggiungimento dei nostri naturali e sacri confini: di quel nemico altezzoso e cinico che, ritenendo l'Albania come vestibolo della monarchia d'Asburgo, ci faceva sapere che ad ogni italiana pretesa l'Austria avrebbe gridato a voce di tuono: Giù le mani.
Il nostro piccolo Brindisi diede, con animo franco, in olocausto all'onor nazionale, il braccio, il cuore e la vita di non pochi figli diletti, a molti dei quali avevo nella scuola dettato «Il sospiro di Tergeste», avevo accesa nel sangue e tenuta desta la fiamma pura e bella d'amor patrio con i ricordi di Antonio Sciesa, dei martiri di Belfiore e di Guglielmo Oberdan.
Giovani animosi s'avviarono come a nozze.
Emilio Lamonea, mio ex alunno, sorridendo mi diceva: Signor Maestro, saprò fare il mio dovere, stia sicuro: tranne che una palluccia non mi colpisca qui ....» e si segnava il mezzo della fronte. E fu tra i nostri figliuoli il primo a morire sul Montenero.
Terminata la guerra, alle madri abbrunate, chiuse nel dolore, chiedevo notizie per far ottenere ad esse la pensione dal ministero; vi era chi, e più di una, mi rispondeva : E che .... che monta il denaro? abbiamo perduto il proprio sangue, abbiamo dato alla Patria la vita dei figliuoli; invecchiati e soli lavoreremo tuttavia per campar la vita. Quanta dignità, quanta pallida e serena compostezza! Quanto distacco dalla falsa ampollosità di certi eroi, dalla loro petulanza!
Ammirato, mi toglievo il cappello e con lo sguardo devoto seguivo quelle madri curve nelle vie del lavoro. E mi adoprai, esse inconsapevoli.
Il dopo guerra, in fatto, non di recriminazioni e di piagnistei fu per i nostri contadini, i quali, invece, tornarono fiduciosi, alacri, alla nudrice di tutti, alla terra madre.

Il Consiglio comunale, nel marzo 1919, nominò una Commissione per dare il battesimo alle strade dell'abitato coi nomi dei caduti e per conservare le sole denominazioni di valore storico locale: sicché all'avito buon nome si congiungesse per sempre il recente, e l'origine si fondesse ed assurgesse, quale auspicio, a nuova luce di grandezza e di gloria.
Ebbi parte in quella Commissione e contribuii con una elaborata e succinta memoria storica. I nomi delle vie, però, non mutarono: non so per quale ostacolo della R. Prefettura circa l'approvazione della spesa.
Ciononostante il ricordo della Guerra e i nomi dei Caduti furono scolpiti in due lapidi che si vedono murate nella facciata della chiesa madre, all'esterno della Cappella di S. Michele, sulla piazza.
A destra della porta che immette nella cappella dell'Addolorata, una prima lapide porta incisa la seguente iscrizione:

O ITALIA
obbedienti al tuo divino cenno
anche di questa piccola terra
di Basilicata
mossero per l'ultima tua guerra
anelanti alla Vittoria
i figli ardenti
e liberamente combattendo
eroicamente morirono

il Comune di Brindisi di Montagna
consacrò nel marmo
il nome dei gloriosi
agosto 1919.

BONOMO ANTONIO fu Vincenzo
D'AMATO VITO fu Canio
LAMONEA EMILIO fu Angelo
LAROCCA Rocco di Gerardo
MAZZA Rocco fu Lorenzo
NIGRO GERARDO di Antonio
PADULA Rocco fu Raffaele
SCARANO GERARDO fu Antonio
MONTESANO NICOLA MARIA fu Rocco
TITO GERARDO di Francesco.

A sinistra della porta stessa una seconda lapide porta inciso quanto segue:
Non di ferro in battaglia
ma durante la Guerra
aspra e faticosa
anch'essi perirono
nel fior degli anni
armati per l'Italia

ABBRUZZESE Rocco di Raffaele
AMMIRABILE Rocco fu Francesco
BELLEZZA VINCENZO di Paolo
BRINDISI LEONARDO fu Michele
CLAPS SALVATORE di Paolo
DORES ANTONIO fu Francesco
GARRAMONE CANIO fu Domenico
GRECO ROCCO di Michele
LAROCCA ANGELO di Giuseppe
LUCCA DONATO fu Francesco
SANTANGELO NICOLA fu Michele

Le due iscrizioni furono dettate dal Prof. Nicola Rosa del R. Liceo di Potenza.

Altri nomi meritano il ricordo imperituro e li incido in questa pagina:

ALLEGRETTI DONATO di Giuseppe
D'AMATO Rocco fu Canio
GUERRIERI LUIGI fu Carmine

dispersi, non più rinvenuti e ritenuti morti in guerra.

Discorso che pronunziai il 5 settembre 1919 nella piazza V. Emanuele in occasione dello scoprimento delle due lapidi commemorative.
RACCOGLIMENTO D'ANIME. SETTEMBRE! Dopo un altro anno di rinnovate speranze e di aspre fatiche e di più aspre lotte per pungolare la stanchezza della terra arida e per sfidare la infedeltà capricciosa e irriducibile dell'atmosfera, con l'assillo di più incalzanti e gravi bisogni, ma per fortuna nostra senza le accentuate contese che altrove accaniscono oggi gli operai contro i capitalisti, gl'impiegati contro lo stato padrone, gli sfruttati contro gli sfruttatori, eccoci qui, dopo un anno circa, cessata la guerra, eccoci riuniti padri e figli, fratelli e sorelle, buoni amici, in questa nostra angusta piazzetta, caro luogo di intime conversazioni e di famigliari adunate.
Voi avete messo insieme al sicuro, nei modesti casolari, la vostra massa d'oro, di grano, dopo, si può dire senza troppo esagerare, d'averne contati i chicchi e dopo avere ad ogni chicco congiunto un ricordo, una difficoltà, una goccia di sudore, un sospiro, un calcolo, una lagrima; ed ora voi pensate al nuovo anno di semina; ad un altro anno di lotta con la terra stanca e con gli elementi incostanti del cielo, con le leggi fiscali e con gli ultimi avanzi di gravami feudali.
E’ una continua lotta la vostra pel pane, pel solo pane, è una continua guerra contro un destino che chiamate stagione, che chiamate legge di stato, che chiamate perversità cieca, che chiamate tempo e che potrebbe non essere idea chiara, volontà netta e decisa, scopo della vostra vita travagliata, sia pure nell'isolamento di questo blocco di, montagna, nella stretta corona dei nostri boschi e sotto il lembo di questo cielo lucano.
I primi giorni di settembre sono di raccoglimento, di profonda tenerezza per voi, come per me.
Non posso non ricordare con un senso d'indicibile commozione, come una nube rosea di sogno che al tramonto dilegua per lasciarmi dolcemente pensoso, non posso non ricordare questi primi giorni di settembre, in cui il corpo si spogliava della stanchezza e lo spirito si effondeva tra l'essenza di basilico e di garofani di tutte le finestre, nel sole mite e festante della vendemmia prossima.
Nel sole, nell'aria e nelle campane tintinnanti sentivamo un'allegria nuova ed un richiamo alla memoria di tutte le persone care, sempre care, assenti dalla vita o lontane e al di là dell'Oceano; un rimpianto dei beni perduti e per i dolori sofferti. Non poteva esser festa senza una lagrima furtiva su care rimembranze.
Torna anche questo mite settembre e le cose son cambiate e lo stato d'animo è cambiato con le cose.
Quante diverse vicende e quanti pensieri nuovi!
Altre persone mancano. Quante poche son rimaste di quelle che possono testimoniare di altri tempi! Visi nuovi discerno, trasformati visi infantili, occhi che parlano di fanciulli che ho amato nella scuola: visi che mi richiamano quelli dei padri, di giovani, uomini sodi e risoluti. Tutti di nostra gente, tutti di nostro sangue, tutti nudriti di quest'aria benedetta, tutti allevati da questo nostro sole ed educati all'arditezza dall'asprezza di questi monti. Tutti, io penso, siete qui con nuove ansie e con nuove vibrazioni di volontà.
Ho vissuto lontano e vivo lontano seguendo anch'io il mio destino; ma ho vissuto e vivo spiritualmente sempre con voi. Ho qui con voi i miei genitori, i miei figli, altri miei cari; il mio sangue ha preso elementi e forze da queste stesse arie benedette; ho qui allenato il mio spirito e ne ho data la parte migliore, la più giovane, con slancio di fede e di opere, a tanti fanciulli che ora son uomini, intelligenti ed onesti lavoratori. Tutto ciò, con un solo interesse, in una comune aspirazione, ci tiene stretti indissolubilmente.
Molto cammino avevamo fatto insieme, e, dopo un tragico e lungo periodo di guerra che i nostri giovani ha allontanato ed alcuni per sempre, ci ritroviamo qui, nell'intimità di una sola famiglia, su questa piazzetta, che, trasformata ed abbellita, è il sacrario; è il cuore del nostro Brindisi.
Qui facciamo una breve sosta al fatale andare: sosta breve, ma solenne, semplice; ma grandiosa: per quanto breve, è il punto da cui comincia una nuova serie di vicende; semplice, sembra che interessi noi solamente, mentre ci sospinge con moto più alacre nell'ingranaggio sociale.
Chi avrebbe pensato che il nostro dimenticato paesello avrebbe saputo far olocausto di sè, in così larga misura, alla causa nazionale! Ora, la nostra esistenza, col sangue versato e con le forze spiegate, si è fusa a quella di tutti i popoli che non soffrono soprusi.
Sosta solenne, perchè la nostra volontà e la nostra azione si accingono ad entrare di proposito, con più chiara coscienza, nella grande vita, nel gran movimento, e con forza di diritto, nella grande collaborazione dei popoli, in un nuovo grande periodo di storia.
Queste cose voglio dirvi con parola semplice, in quest'ora di comunione d'anime, così come altre volte, quando in capannella, in questa stessa piazzetta, di sera, di domenica o di capo d'anno, ritrovandoci sorridenti o mesti, senza infingimenti e senza ostentazioni, senza studiate preparazioni, parlavamo di cose nostre, formulando proponimenti vitali.
Niuno più di me, per ricordi ed affetti, per conoscenza della nostra storia paesana, può parlarvi serenamente. Sento che ancora mi conservate la vostra amicizia, ve ne son grato e con fiducia scendo nel vostro animo per suscitare un movimento nuovo, per accendere una nuova favilla, per mostrarvi una via più ampia, per additarvi un punto che è al dì là delle linee del nostro orizzonte, di quello che di qui vedete.

SULLA BRECCIA - VIGILE SENTINELLA Una persona amica è rimasta con spontanea elezione, con ammirabile tenacia, qui con voi e per voi, con vedute nuove, forse non sempre e nè da tutti ben comprese e ben valutate; è rimasta, dico, sulla breccia, tra questo silenzioso cumulo di case, vigile sentinella, forte assertore dei vostri interessi: il nostro primo cittadino, l'ottimo nostro amico, il Cav. Uff. Lapeschi.
Egli, sapendo quanto devo a questo luogo natio, quanto devo ancora a voi, miei cari, quanto devo alla memoria di coloro che han sacrificato la vita e che han sofferto malanni, ferite e prigionia per far onore a noi, al nostro paese e per contribuire degnamente alla grande causa italica, fiduciosi di sacrificare tutto per l'umana giustizia e il suo trionfo, egli, con pensiero spontaneo e delicato, mi ha detto, di parlarvi nello scoprimento di questi marmi.
Egli, aiutando i vivi ed onorando i morti, ha a tutti pensato ed a tutto provveduto.
La mia accettazione suona ammirazione e riconoscenza per lui, sentito bisogno dell'animo mio di aprirsi a voi.

RISVEGLIO DI POPOLI - AUTOGOVERNO Altri in questa occasione vi tengono un linguaggio nobile che ha molti punti di contatto col mio; ed è pur di parole amiche, che hanno un suono grato al nostro animo, che hanno alta potenza di vibrazione patriottica.
Oggi non tratterò quistioni di classi, non vi parlerò di riforma integrale, di rinnovamento del socialismo, di ruralizzazione e di socialismo agrario od altro simile che ha contenuto di realtà e di studio, ma che merita di essere tradotto in altra moneta e spicciola; no, sarei un presuntuoso che volesse deporre, con parole difficili, davanti al letto dell'infermo un bagaglio scientifico ed alcuni rimedi esotici, e si ritraesse per lasciare il paziente stordito e più disgustato che mai.
Non sciupiamo un prezioso retaggio di guerra in accademie.
Voi avete bisogno di chi vi parli dei fatti vostri, e son nostri e comuni, con un linguaggio semplice e limpido, che lasci tracce profonde nel vostro pensiero e vi determini a fare qualcosa.
Finora il sontuoso banchetto delle scienze sociali è stato bandito da governanti a statisti, a diplomatici, a personalità spiccate della politica di caste aristocratiche e militari, e costoro ritenevansi arbitri e soli responsabili dei destini del popolo, i soli fattori della civiltà e i soli autori della storia. E mentre nelle segrete cancellerie e durante alcuni pranzi diplomatici decidevano i destini degli eserciti e delle nazioni, il popolo rimaneva di fuori, ignaro di tutto.
Il popolo che lavora che produce che crea siam noi. E noi siamo estranei al banchetto, come se quei cibi e quei vini non fossero nostri prodotti e noi non fossimo i fucinatori e i consumatori dei nostri destini.
Noi siam rimasti finora per le piazze e intorno ai nostri focolari a raccontar fole e a motteggiare, come gente che ha bisogno di vivere spensieratamente, a cui è imposta la rinunzia del suo divenire; come se non fossimo capaci di affrontare il nostro avversario, di far argine dei nostri petti e di far fuoco sulla sua tracotanza.
E l'han visto i nostri diplomatici e gli avversari come sappiam lavare la nostra terra dall'onta secolare, come arditamente sappiam liberare l'aria dalle aquile rapaci, come sappiam osare l'ìnosabile e sorprendere e distruggere per mare la fitta rete d'insidie: lo sanno che siam forza irresistibile che rovescia troni millenari, che frantuma corone con gemme sinistre e con grumi di sangue innocente.
Ecco se siam noi i menestrelli e la massa scacciapensieri che rinunzia all'auto governo, buona solamente alla cieca obbedienza negli estremi cimenti, paga d'esaltazioni retoriche nelle ore supreme di decisioni tragiche per nazioni, stati, razze e società bancarie.
Si sapeva bene che avevamo stomaco cuore e braccia di acciaio, ed ora facciam sapere che per vivere e per decidere sulle cose nostre abbiamo anche cervello non guasto, capace di saviezza e di ardimento, capace di provvedere per tempo ai casi nostri.
Abbiamo dimostrato ai nemici ed agli amici di avere uno stomaco che si, contenta del poco e sa resistere alla fame, che non digerisce soprusi e prepotenze. Abbiamo dimostrato di avere un cuore che è sensibile agli affetti più puri ed alle cause più nobili, che non trema e non esita dinanzi ai più gravi pericoli, che canta mentre si accinge alle più ardue imprese. Lo han visto il nostro braccio irrobustito al lavoro, pronto per la difesa propria, del debole e dell'amico, valido e inflessibile nel frenare l'impeto e nel respingere l'orda più minacciosa e più veemente, nello squassare i petti di coloro che osano insultare i sepolcri dei nostri avi e rubare le nostre spighe e i nostri grappoli, che osano violare le nostre case e le nostre memorie.
.... Guai a chi ci offende!
La prova, la gran prova ci ha resi sicuri di noi stessi.
Ora potremmo cullarci allegramente nella vittoria e cercar di godere i frutti della vincita, corrispondenti alle nostre perdite e ai nostri sacrifizi.
No. La guerra ci ha svegliati da un lungo sonno; lo stato presente ci ammonisce che ben presto potremmo ricadere in mali peggiori, se dalla esperienza della guerra e se per la pace duratura non sapessimo trarre quegli ammaestramenti e quelle forze operanti che sono indispensabili ad una vita di vigile calcolo delle mosse altrui, e di sapiente sviluppo e di ferma disciplina delle nostre forze e della nostra potenzialità.
Cari amici, finita per sempre la spensieratezza, non vi sono più carnevali, non vi è più supina fiducia, non dobbiamo dormire altri sonni prolungati dopo l'alba di redenzione.
Occorre tener gli occhi aperti per vegliare, innanzi tutto, su di noi stessi sui nostri destini. Occorre che ognun di noi lavori e produca; occorre che ogni famiglia s'assicuri col lavoro e col risparmio la esistenza e la prosperità avvenire. E la famiglia, notate bene, non è solamente quella che siede con noi alla stessa cena, quella degli amici e dei parenti confinati nel paesello, ma quella più grande di tutti i fratelli d'Italia, quella che si estende coi nostri connazionali alle lontane Americhe e quella che si stenderà per le vie del mar nostro al vicino oriente: la grande famiglia, mi affretto ad aggiungere, potrà non più essere solamente di connazionali, ma di tutti gli altri, che con noi vogliono lavorare con intelligenza, con equilibrio morale e con amore, liberamente, pacificamente, per un più vasto fine di bene comune, di progresso umano. La vasta famiglia, unita e solidale, non può non essere per l'avvenire che di tutti coloro che, forti e dignitosi, lavorano con intelligenza e rendono ricco e rispettato il loro paese.
Ce lo ha dimostrato la recente guerra, in cui abbiamo avuto bisogno di associarci contro il comune nemico. Europei, Americani del sud e del nord, Marocchini, Eritrei, Boeri, Giapponesi, Australiani, ci siam ieri conosciuti compagni darmi, sarem domani più uniti e più liberi per meglio produrre e non per distruggere, per fin di vita e non di morte, per quella vera ampia libertà in nome della quale ci han fatto credere di far la guerra e per cui abbiam con fede sofferto e combattuto.

DOMINIO TRAVOLGENTE LA DIFESA. Chi fra tanta gente pensava di far guerra? Altri la covavano nel segreto più cupo della premeditazione; altri, pregustando il dominio del mondo, allestivano nell'ombra le loro armi e i loro malefizi.
Mentre lavoravamo pel pane, chi di noi pensava alla guerra?
Lavoravamo. Il nostro campo ha visceri feraci, acque limpide, ombrìe ristoratrici e pascoli abbondanti. Il clima è dolce; ogni zolla, ogni sasso ci ricorda un detto o un episodio dei nostri antenati. Un solco, alcuni termini lapidei e un lembo al dì là del confine son tutta una storia, di sangue, di liti e di cause col vicino prepotente, una storia che il tempo non cancella e che rispetta.
Il vicino è ricco ed avido: vuol stendere la mano ove ha gli occhi cupidi; vuol mettere piede dappertutto e senza legge, vuole i nostri prodotti e ci vuol vendere i suoi, che sono i nostri stessi trasformati, a prezzi che egli detta.
Che è che non è, quando men l'attendiamo, rompe ogni lustra di legge, straccia ogni patto, e per venire da noi, per prenderci alle spalle, attraversa e sconvolge il campo ove il nostro buon vicino, pacifico e laborioso, tante comodità e tante bellezze aveva con diligente cura messo insieme.
Il prepotente ha il cuore e il pugno di acciaio, non sente altro che la sua forza brutale e la musica dilaniante ch'è nel fragore delle sue armi. Non si piega ai vagiti, alle implorazioni, ai lamenti: abbatte le biade, stronca gli alberi, fa man bassa sulla casa, sui figli e sul bestiame del nostro disgraziato vicino, ch'è fermo ed attende per infliggere la sua tremenda vendetta.
Ma il prepotente vuol libero il passo, per ora e per sempre; distrugge, perchè gli altri non abbiano provviste per l'inverno e non abbiamo coi figli neppure il ricordo della giurata vendetta, perchè a noi stessi non venga mai più la voglia di opporci a lui, terribile dominatore.
E il dominatore abbatte, passa, travolge e non mira e non agogna che al possesso assoluto, incontrastato ed incontrastabile, del vicino bosco, della vicina fonte, di tutta l'ampia strada; in terra, in mare e in cielo vuol tutto per sè, per lo sviluppo delle sue industrie e delle sue ricchezze; per la strada ampia e sgombra, vuol conquistare il mondo, perchè il mondo dev'essere tutto suo.
Nel nostro podere vedete l'Italia, nel podere vicino devastato vedete il Belgio, vedete la Francia; nell'invasore l'imperialismo, il militarismo tedesco e la sua cupidigia tesa verso le nostre vie del Sempione e dello Stelvio, verso i nostri porti per la sua logistica e i suoi commerci, verso i nostri poggi e le nostre ville per le sue ricreazioni.
Il Belgio la Francia e l'Italia non potevano permettere che ciò si compisse; e i popoli del mondo si son associati e mossi contro il terribile nemico e il suo alleato austriaco, nostro implacabile nemico.
Noi più vicini al pericolo, più minacciati, ci siam uniti agli altri, ci siam battuti per la nostra salvezza, come ci sappiam battere quando il fuoco dei nostri vulcani erompe dai nostri petti per incendiare, per annientare per annientare il nemico secolare, perverso, che aveva messo pie' in casa nostra e vi sarebbe rimasto per insidiarci e colpirci inaspettatamente.
E i nostri fratelli di Francia hanno fatto altrettanto; e ora son mescolate le ossa dei caduti sulle rive del Piave, sul campo di Bligny e nei d'intorni della cattedrale di Liegi.
Questo immane conflitto che non ha riscontro nella storia, e non l'avrà, speriamo, per l'avvenire, è stato sostenuto principalmente da Inglesi, Belgi, Francesi, Americani, Portoghesi, Serbi, Rumeni, e in principio anche dai Russi, in nome, della giustizia, per dare ai popoli di qualsiasi patria e di qualsiasi nazione la libertà di governarsi, di vegliare sui propri destini e di formarseli secondo le proprie inclinazioni e finalità, senza attraversare o precludere la via agli altri popoli, senza turbare la loro pace.
Così intesi i quattordici putti di Wilson parvero il nuovo vangelo, e noi vedremmo in essi il nostro Mazzini, se Fiume non ci rendesse inquieti.

UN LONTANO CANTO DI RISCATTO
Voi, miei cari conterranei, avvolti in una uguale monotonia di abitudini, stimolati solamente dai bisogni quotidiani, con l'animo teso ai lavori dei vostri campi o alla conservazione della vostra casa, coi cuori oscillanti verso i congiunti d'America, quando niun'altra preoccupazione ve lo consentiva, non sognavate neppure la guerra. Eppure alla recente guerra avete partecipato con la vostra migliore gioventù, con la forza e con la resistenza vostra.
Voi e forse noi tutti gli Italiani non pensavamo alla guerra; ma la guerra abbiamo voluto nella gran maggioranza e la guerra abbiamo fatta e superata, coi ricordi che parevano sopiti nel fondo della nostra coscienza e con gli istinti che parevan spenti dopo il sessanta, dopo Adua, dopo gli avvenimenti della Libia.
Siamo della terra dei vulcani; nel nostro sangue c'è sempre l'antica stirpe e i fiotti del nostro sangue hanno rinverdito la nostra fede e le nostre aspirazioni. Il fuoco il sangue e la storia hanno portato il nostro ardimento a meraviglioso eroismo.
Dovevamo da secoli riscattare le terre nostre e raggiungere i confini eccelsi segnati da Dio; dovevamo lavare col sangue e con tutta l'acqua del mare Adriatico la vergogna di Lissa, e, purificati dal lavacro, dovevamo redimere e riabbracciare per sempre i fratelli nostri.
E voi non pensavate alla guerra.
I primi abitatori di Brindisi vennero da Corona, dall'Albania, quattrocento anni fa, per fuggire l'odiato Turco, e molte di queste case sono state da essi costruite e noi le abbiamo ereditate; attraverso le poche generazioni abbiamo ancora vivente il ricordo dei Dores, dei Becce, dei Plescia, dei D'Amato, dei Sannazzaro e dei Bellezza.
Nelle cerimonie nuziali, fino a poco tempo addietro, era sacrato il rito dal canto nazionale d'una calì imera, cioè d'una canzone augurale che cominciava: “Costantino è tornato dalla guerra”. Era di solennità un canto appassionato e nostalgico che, ricordo di guerra, infondeva negli sposi, nella piena di fiorente giovinezza, tra le possenti vibrazioni di un nome che era un squillo di trionfo, il sentimento della rigenerazione, dei ritorno e del riscatto.
L'eco di questa prima canzone, col nome di Giorgio Scandérberg, primo condottiero, neppur giunge al vostro orecchio; ma quando vi raccogliete nel fondo dei vostri spiriti, una musica che dapprima vi par lontana, si avvicina si avvicina con un ritmo di inno marziale e con accenti di puro dialetto ghego. (1)
Degli accenti albanesi forse i più vecchi tra voi conservano ancora uno scialbo ricordo; alcuni nostri luoghi e il nostro dialetto ne conservano il suono.
Non avete, voi particolarmente, partecipato alla grande Guerra con deliberato proposito di riscattare l'Albania; ma una segreta voce vi ha guidati, quella che è nella origine e nel destino delle razza; una segreta voce vi ha chiamati, quella che pare nel giro fatale della storia ed è nella logica dei fatti, quella che risuona potente negli svolti dell'umanità.
E nella Venezia Giulia e nella Dalmazia e nella Macedonia e nell'Albania siete tornati ed avete combattuto. E’ il mare nostro, l'Adriatico, e Fiume e Sebenico e Durazzo e Zara attendono trepidanti il ritorno dei triremi romani e delle galee veneziane.
E mentre il nostro sguardo e il nostro passo erano pel lontano occidente, verso una nuova fonte di guadagno, ora la nostra anima è rivolta al naturale oriente, ove è la nostra vera culla, dalla quale vedemmo spuntare il primo sole.
In occidente lontano, a noi, non sempre ospiti graditi, gli Americani possono chiudere le porte per ordine di Monroe; le porte del vicino oriente ci sono aperte dalle onde dei nostri stessi mari e dalle correnti delle nostre stesse aure. I fratelli salgono sulle rovine di Apollonia e di Dyrrachium e ci chiamano con la voce di Paolo Emilio e di Cicerone, d'Ottaviano e di Pompeo.

DALL'OCCIDENTE ALL'ORIENTE: RITORNO STORICO.
Voi, i più vecchi, ricorderete ed avrete, nelle veglie d'inverno o all'ombra dell'annosa quercia riposando, rifatta un po' la storia di queste vostre terre su cui pressava la signoria feudale; avrete con un fremito nel cuore e nella parola maledetto il giogo che vi faceva tradurre il lavoro in martirio. Non avrete forse con precisione di date rievocato le ribellioni dei nostri antenati, che su questa stessa piazza ebbero manifestazioni di riscatto, tentativi di liberazione e tribuni colti e coraggiosi, tra i quali il prete Mangoni, tacciato d'eresia; ma l'inquisizione sotto forma di frantoio economico, ricorderete certamente: così recente e dolorante è la causa prima dell'esodo di nostre intere famiglie, dell'abbandono di queste case, per una vita emigratoria senza precedenti, intrapresa sotto l'incubo di avventurosa incertezza.
Ed avreste mai pensato che i figli di questa nostra gente sarebbero tornati coi volontari americani, forti in armi e rifatti di baldanza, a combattere in Francia, che prima si ribellò contro il privilegio, contro i Franchi del Reno e del Weser per abbattere (speriamo per sempre), là ove nacque, il triste genio del feudalismo? E tanti figli dei nostri emigrati han rivalicato l'Atlantico per combattere al nostro fianco sul Piave, per fondere il loro sangue col nostro e versarlo alle assetate zolle italiche, quale nuova linfa di completo risorgimento.
La storia ritorna sui suoi passi e le nazioni han atomi vaganti di sangue che si ricongiungono a distanza di luoghi e di tempi. E noi abbiamo il nostro destino adeguato alla nostra origine, fecondato dalla nostra terra, e si conserva nel seno dei nostri palpitanti mari e si libra nella purezza del nostro cielo.
Il nostro destino s'innalza con libero movimento, con le robuste ali di aquila romana.

ANELANTI ALLA VITTORIA
Questi marmi, da pensiero amico ideati e da mano, amica scoperti; son per noi, Brindisini, la pietra miliare tra il passato e l'avvenire, e potranno esser tra l'occidente e l'oriente.
Portano scritto per noi e per la nostra particolare storia nomi cari, davanti ai quali si soffermeranno riverenti le nostre generazioni; su di essi il Prof. Rosa, a cui siam grati, ha scritto che abbiamo, per obbedienza all'invito della Patria, sacrificato vite e volontà e sostanze.
E’ vero: abbiamo obbedito alla voce del nostro destino, al genio della nostra stirpe, al moto ed al calore del nostro sangue.
Dicono che il nostro destino sarebbe più fermo e più glorioso, ma nel nostro carattere è fuoco di passione che non dura, è bagliore di fantasia che crea solamente in arte, fuoco e bagliore subitanei che non risolvono i nostri problemi nazionali, sostanzialmente e positivamente.
Non più discutiamo. Il nostro carattere è quello che si è addimostrato: impeto irresistibile d'eroismo che non trema davanti al patibolo e che non esita o barcolla alle prese con la ferocia nemica; è coscienza di granitica fermezza, direi sovrumana, di fronte alla bellezza sublime di suoi stessi ideali, schiettamente umanitari. Così il contadino umile lavora e tace, il modesto impiegato soffre la fame e sorride, il soldato canta e combatte, il martire manda il bacio alla stella italica, morendo.
E vedo nella nostra stirpe e nelle nostre file una schiera interminabile di umili e grandi eroi, di vittime ignorate e celebrate, e tra i primi giganteggiano Oberdan, Battisti, Sauro, Baracca. Vedo una moltitudine di geni, di spiriti benefici e di eroi, che sulle cime delle Alpi, nelle onde dell'Isonzo, del Piave, del Guarnaro, nelle paludi di Cavezuccherina e nel fango delle trincee, nelle caverne del Carso e sotto i più perversi elementi, han conservato tempra adamantina al loro cuore forte e generoso.
Ed ecco come il Re d'Italia è primo di nostra stirpe: primo, soldato in guerra espone la vita ai pericoli, e, finita la guerra, si spoglia di beni della Corona per darli ai combattenti. La recente guerra è tutta una rivelazione di intelligenza e di acume, di fede e di coraggio. La triste pagina di Caporetto, fenomeno isolato di defallance, come l'ha detto qualche giornale francese, è stata subito cancellata nelle giornate gloriose del Grappa, del Piave e di Vittorio Veneto. I responsabili cominciano a scontare gli errori; altri li avranno scontati nel loro animo dilaniato dal rimorso.
Nell'immane conflitto quale esercito, quale comando non ha in un momento errato? Per nostra fortuna il nostro errore trovò salda l'anima d'Italia, come tutta una corazza d'acciaio, e nel più umile fantoccino una maglia ben temperata. Caporetto ha ribattuto le maglie della inalterata corazza.
Ed abbiamo vinto: abbiamo sgretolata l'accozzaglia austro ungarica, noi, principalmente noi, quando la Russia, in isfacelo, ci lasciava soli contro il comune nemico. L'imperiale dinastia d'Asburgo, con le segrete intese e con le nuove mene, non deve rialzarsi dal baratro in cui l'ha cacciata la punta delle nostre baionette.

SACRIFICIO Dl VITE PER LA VITA.
Alla grande vittoria, o madri doloranti, han contribuito i vostri figli insieme ai nostri figli; abbiamo contribuito noi stessi con ogni resistenza, o fratelli in popolo umile e semplice, di cuore schietto e di ardire che non cede alla più ostinata audacia.
O madri, scoperte le lapidi alla luce eterna del sole che non ha finzione, che non ha menzogne, che continuerà a maturare i nostri pensieri e le nostre spighe, un lampo avrà attraversato la nostra memoria ed una stretta avrete intesa al vostro cuore, e vi saran riapparsi occhi belli e sorrisi purissimi di vostre creature, e avrete sentito manine ancora carezzevoli ricomporre l'aureola dei vostri capelli scinti. Avrete veduto, o madri, quegli occhi diventar sdegnosi e quelle mani, poi robuste, lanciar fulmini ai nemici, languire poi mozze e sanguinanti nei combattimenti o negli ospedali; avrete colto voi gli sguardi morenti che cercavano nel cielo il sorriso ed il conforto estremi, la vostra parola di amore e il vostro bacio.
I vostri figliuoli, baciando la terra benedetta, han baciato voi, e, versando alla terra madre il loro sangue benedetto, vi hanno riposto il germe del nostro destino, e, affidando il loro ultimo anelito all'onda aerea, hanno lanciato ai secoli il nostro futuro genio glorioso.
O madri, o spose, o sorelle, o figli dell'olocausto, siate forti nel vostro dolore, siate orgogliosi della vostra gloria: i vostri cari vivranno, i loro nomi sono incisi in questi marmi e sono più profondamente scolpiti nel vostro cuore, e nella nostra memoria vivono, con gli spiriti di altri cinquecentomila e più morti per la grandezza d'Italia, con milioni d'altri che si sono immolati per la stessa giusta causa; vivono, perchè la loro morte è il nostro risveglio, perchè il loro sacrifizio è incitamento ad una vita diversa che deve approdare ad una vasta riforma, al trionfo del popolo d'Italia e della giustizia per tutti i popoli della terra.

INSEGNAMENTO DELLA GUERRA.
Dicono, e può esser vero, che noi Italiani ci indugiamo troppo. sul nostro passato, viviamo troppo di ricordi e di malinconie e ci crogioliamo nelle nostre stesse ideologie.
Vero o non vero, vero od esagerato, il sacrificio di tante vite, lo spargimento di tanto sangue, l'impiego di tante ricchezze e la dura e lunga prova nell'ambito domestico devono aver insegnato a tutti noi che non possiamo più bearci di sole e di cielo lavorando con supina rassegnazione e con rinunzie sconfinate.
L'esperienza dei dolori sofferti e dei pericoli corsi ci fa più avveduti e ci ammonisce e ci scuote, con parole chiare e vibrate ci dice che dobbiamo cambiar rotta.
Noi padri che d'un più lungo passato siamo i documenti viventi, facciam nostra la nuova parola; col cuore ancora sanguinante, con la volontà rinvigorita dallo sdegno recente e spronata dal grave stato di disagio in cui la guerra ci lascia, raccogliamo ancora una volta i nostri migliori pensieri, le forze che ci avanzano; e la nuova generazione, traendo dal battesimo di sangue, guidiamo ad uno stato di maggiore e più illuminata libertà, fattrice di migliori destini, premio di più forte coscienza.
Voi, giovani, che la guerra avete combattuta o vista da vicino, che sentite tutto l'orgoglio d'aver superato il terribile cimento, avrete occasione nei vostri ritrovi o attorno ai vostri focolari di raccontare, con la freschezza dei ricordi e delle tinte, con la parola viva e col gesto spontaneo, i fasti e gli episodi, le insidie dei combattimenti, le ansie e le attese, di descrivere persone e luoghi, di diffondere e tramandare la nostra recentissima storia. Dite, o giovani, quanto la guerra vi ha insegnato.
Intanto la vita si rinnovi principalmente per opera vostra: opera cosciente o vigile di lavoro proficuo.
Ancor oggi si discute se la guerra avrebbe potuto essere o non essere evitata. Discussione vana, tardiva, se non un perditempo, almeno per noi.
La guerra è un fatto compiuto, è un fenomeno dei nostri istinti individuali e collettivi, che si rinnovano in un fenomeno di contesa economica e morale: è quella che dolorosamente è, e non dovrebbe mai più essere: l'ha detto con parole augurali l'egregio Prof. Rosa.
E bene averne saputo le cause, perchè esse potrebbero ripetersi e si dovrebbero evitar, perchè in avvenire non siano determinate dalla cupidigia e dalla conquista, dalle segrete mene di cancellerie e da segreti accordi di governanti; ma siano contenute nel diritto sovrano del popolo per la reazione e per la difesa.
Abbiamo detto, per chiudere la partita, la guerra è ormai un fatto compiuto, e sarebbe di adeguato compenso la certezza che essa non si debba ripetere mai più: compenso di esperienza al sacrificio di milioni di vite limane, e di ricchezze incalcolabili che erano accumulate sul mare, e sulla terra, quali alimenti, industrie ed opere d'arte; consacrazione di tanti affetti e di altrettanti dolori, di valori che niuna opera moltiplicata e niuna rivalsa di nemici potrebbero rimettere in circolazione, senza una solida garanzia di mutuo rispetto fra le nazioni.
Miei cari, non c'illudiamo.
Un tribunale interalleato si prepara a condannare il Kajser, ed è di giudici vincitori: guai al vinto! Le condizioni di pace son dettate dai vincitori; eppure a Versaglia si preparano molti altri a discuterle prima che sieno firmate.
L'Armenia trema ancora del Turco, l'Albania pericola e Fiume è dolorante (2). L'autodecisione dei popoli potrebbe rientrare nella rete degl'interessi commerciali bancari.
La guerra ci ha svegliati e fatti accorti: manteniamo costantemente lo spirito vigile, l'occhio indagatore e le mani pronte; dimostriamo all'amico, come l'abbiamo dimostrato al nemico, che abbiam fiducia negli altri (fiducia non imposta), ma prima abbiam fiducia in noi stessi; dimostriamo che mai tremeremo per sostenere le nostre ragioni, come non abbiam tremato nei grandi cimenti.
Ma per tutto ciò abbiam bisogno di altre forze, di altre sostanze, di altre armi che non siano le solite, di soldati, di polvere e di cannoni.
Impreparati, abbiamo tratto dal miracolo quanto occorreva per sostenere questa guerra, che vorrei anch'io chiamare ultima. Le altre guerre devono trovarci ben premuniti.
Non sgranate gli occhi, miei buon paesani, non vi annunzio, come uccello di male augurio, altre stragi.

NUOVE ARMI NUOVE LOTTE, NUOVE CONQUISTE.
Finita la guerra, rasserenate le vostre fronti e tornate alle vostre pacifiche occupazioni: ma con uno stato d'animo diverso.
Voi, giovani, ritornate col cuore rinfrancato, con la coscienza più sicura e con propositi meglio definiti, e serrate le vostre fila per dare continuità alla vostra cooperazione.
Per vecchi e per giovani uno è l'insegnamento, uno il monito, uno il compito: fidare su noi stessi, singolarmente e collettivamente, premunirci contro le arti, la perfidia, le avversità, esterne ed interne, e tenerci preparati ad ogni evento.
La vittoria non ci consegna i granai e i tesori nemici a risarcimento di tutte le nostre perdite.
La guerra tutto ha rovinato e lo stato delle cose nostre sappiamo qual'è. Lo stato dello Stato è ormai denunziato al pubblico.
È un bene. La verità coraggiosa, togliendo ogni velo d'illusione ch'è speranza nell'ignoto e timore di scoprire la verità, indica il pericolo ch'è a noi davanti. La vista del pericolo ci dà forza di risoluzione e dì nuovi ardimenti.
Lo Stato provvidenza al di fuori ed al di sopra di noi non può mai più esistere. Lo Stato può fabbricare i biglietti-moneta oltre numero e misura, e può così diventare falsario, ma non può fabbricare o simulare nelle sue zecche grano e carbone. Gli altri Stati ci danno solo quando e quanto possiamo noi rendere.
Lo Stato ha il grano se noi lo produciamo, è ricco se ognuno di noi lavora con intelligenza e produce più del bisogno proprio, se risparmia con frutto per l'avvenire. Lo Stato è forte se ognuno di noi ha salute, lena ed ardimento, se tutti sappiamo resistere alle false teorie e alle nefaste propagande. Lo Stato è libero, indipendente e rispettato, se ha in ognuno di noi una persona abile, attiva, libera, svelta, istruita e indipendente per posizione economica e morale, se ha da tutti noi concorde amor di patria, ferrea disciplina, fiducia salda nell'unità nazionale e fede in un avvenire di prosperità e di grandezza collettiva.
Se avremo le nostre riserve di ricchezze materiali e di mazzi scientifici e pratici, se avremo allenate e pronte le risorse della nostra attività, gli altri popoli dovranno rispettarci e desiderare la nostra alleanza.
L'amico, lo sapete bene, è rispettato ed avvicinato nella prospera fortuna.
Paesani diletti; non posso lasciar passare questa giornata di raccoglimento di nostre anime senza parlarvi di quanto può interessarvi più da vicino.
Siete lavoratori parsimoniosi e sapete conservare i frutti dei vostri sudori.
Solo chi lavora ha diritto di mangiare e di vivere. Via gli sfruttatori! Questo è stato il grido d'allarme lanciato da Lenin alle Russie. Il grido di allarme, vero e giusto, accolto con molto entusiasmo, è stato, però, messo subito a profitto dai più facinorosi. Quanto è avvenuto in Russia è un orrore. Tutto devastato, tutto sperperato, tutto sovvertito, tutto insanguinato, nell'ubriachezza e nell'orgia più nefanda, più ributtante. La vita di ogni onesto cittadino non è più sicura; le fanciulle sono oltraggiate; i fanciulli, contagiati dalla sifilide nelle scuole, son diventati i giudici dei propri maestri; i contadini fuggono dalle proprie case e dalle proprie campagne ..... E in qual luogo di riparo?
Questo triste quadro per voi vale la conoscenza d'un pericolo, un po' lontano, ma d'un pericolo vero.
Chi vive lontano dai centri popolosi, ove alcune correnti economiche e politiche si fanno rapidamente strada e determinano discussioni e lotte più o meno vivaci; chi vive in campagna, dico, può presentare, senza saperlo, l'animo semplice alle facili prese di qualsiasi propaganda mirabolante, di subdole insinuazioni e di messianiche promesse.
Voi dovete, d'ora innanzi, vivere con lavori di vostre braccia e in raccoglimento famigliare; dovete bensì allenarvi alle conoscenze di uomini e cose; dovete saper maneggiare opuscoli, libri e giornali adatti alla vostra condizione e discuterne il contenuto.
Dovete abbandonare alcune abitudini e sostituire ad esse altre utili, che finiranno col darvi un vero godimento. Per qualche ora della sera, d'ogni sera, e della domenica specialmente, vivrete in comunione in una casa che vi costituirete, che chiamerete la casa del popolo e sarà essa la vostra palestra civile.
Chi non sa leggere e scrivere deve imparare e in pochissimo tempo: l'arma migliore di difesa di un popolo contro i pericoli, interni ed esterni, è l'alfabeto. Ricordate bene, o Combattenti, quali sono le armi che dovete ora imbrandire.
Una nuovissima legge vi darà fra poco scuola e maestro. Amate il maestro, fate di lui il vostro amico, il depositario di vostra fiducia. Con lui, nella casa del popolo, istruitevi, allenatevi alle nuove lotte sociali.
Una volta nelle mie scuole serali venivano uomini maturi ad apprendere l'alfabeto per saper scrivere la scheda elettorale: venivano da lontane campagne per conquistare il diritto al voto. Oggi, senza passare per la scuola, avete conquistato tale diritto.
Non basta: dovete saperlo usare. Avete bisogno di formarvi chiare convinzioni politiche, mediante una sana educazione politica.
Vi è di più. Voi vivete lavorando, però, seguendo secolari abitudini in una vita cieca; mentre con un po' di luce nella vostra mente, con la lettura di buoni libri, scritti per voi e per i vostri bisogni, quante altre cose e quanti mezzi vedreste migliori per accrescere le vostre fortune!
Avete bisogno di sveltire le vostre intelligenze e d'impiegare con maggior profitto i vostri piccoli capitali, impigriti nelle casse di risparmio.
Non rimpianti del passato, non esitanze per l'avvenire: all'opera, dunque, silenziosamente.
Un asilo infantile, un dispensario medico chirurgico, una mutua cooperativa possono rendervi più tranquilli, più assidui e più numerosi nel lavoro.
Questo sia il vostro programma immediato, spoglio da miserie locali.
Avete chi vi guida con intelletto d'amore: sappiate essergliene grati, seguitelo nella via del bene.
D'ora in poi vegliate, avvaletevi dei buoni provvedimenti legislativi, alzate a tempo la voce, fate noti i vostri bisogni. Il voto politico, come l'amministrativo, non sia atto di omaggio e di facile acquiescenza, ma l'espressione sincera della vostra volontà e dei vostri sentimenti. Coloro che vi si presenteranno pel voto, sapranno, davanti alla vostra coscienza ben formata, quali precise responsabilità assumere e come assolverle.
Miei cari, se ciò non faceste e senza indugi, avreste combattuto e sofferto inutilmente; il sangue dei nostri fratelli vi sarebbe di continuo rimprovero e i segni sacri di queste lapidi sarebbero ricordi di morte e non monito di rigenerazione.
E le lapidi, in questo luogo, tutti i giorni, vi diranno che i morti nostri mille volte benedetti, vogliono vivere sempre, perchè hanno il diritto di vivere nelle vostre migliori opere.

O gente nostra, o vecchi che ricordate le remoti rivoluzioni, o reduci di remote e di recenti battaglie, avete con voi un ricordo guerresco? un pesante fucile garibaldino, un pugnale di ardito del Carso, un frammento di granata austriaca? Fondete i metalli e fabbricate istrumenti per lavoro: rafforzate, ritemprate nel fuoco purificatore della rinascita patriottica la scure e la zappa e l'aratro. Fecondate la vostra terra aspra, ma benedetta, con armonia d'intenti e con disciplinata volontà: allevate, così, nella gioia del lavoro, altre vite per la prosperità di ognuno e di tutti.
Durante il lavoro alacre e fecondo, ricordate: avremo sempre bisogno di tenerci pronti alla difesa e di guardarci d'intorno. La guerra non la cerchiamo: ma se fosse necessaria, perchè la vita che genera la vita è lotta, è contesa di beni maggiori, è ondeggiamento verso la pace mondiale, se la guerra fosse inevitabile, se per difendere il buon diritto e il buon nome d'Italia occorressero il nostro ardimento e il nostro braccio, in un attimo trasformeremo la scure, la zappa e l'aratro in armi che non piegano, che non si spezzano e che rifulgono in alto nel sole della nostra gloria.
O giovani, o adolescenti, o artefici dell'avvenire, imprimete profondamente nella vostra coscienza quanto vi dico: le forze unite e fattive, i lavori intelligenti e perseveranti, le produzioni migliori della terra e del genio, la dignità di vita privata e pubblica, i sentimenti forti di nazionalità e una ferrea disciplina possono rendere temuto, rispettato e grande un popolo; ma senza la giustizia nei rapporti quotidiani di vita cittadina e di governo di se stessi, non vi può essere fusione di popolo e granitica saldezza di stato, grandezza civile di nazione. La sola giustizia di sentimenti, d'idee e di fatti forma la base vera d'una nazione che vuol progredire e che vuol grandeggiare nella storia.

Tenni questo discorso per invito fattomi dal Sindaco con lettera del 6 maggio 1919, n. 527. Depositai, subito dopo, il manoscritto nella segreteria del Comune. La chiusa e qualche nota fondamentale mi fecero allora qualificare per guerrafondaio da qualche intervenuto intelligente, ma non lungimirante. I tempi che seguirono e lo spirito del nuovo regime risolutivo mi han data completa ragione; sicchè oggi, silenziario perfetto, tetragono e coerente al mio posto di lavoro e di fede, un sottile sorriso, non sardonico e maligno, ma di sereno compiacimento verso l'interno della mia coscienza, mi brilli negli occhi che guardano al passato, ai germanofili ed ai non interventisti che mutaron divisa, così, per la moda o per far carriera.

Dicembre 1926.

lll

NOTE

(1) Avevo forse attinto alla grande anima di Crispi (italo albanese) il vaticinio? La promessa di S. E. Mussolini, fatta nel maggio 1924 a Pian dei Greci (altra colonia albanese in Sicilia) e mantenuta col trattato di Tirana ha certamente appagata quella grande anima: prova ne sono il vivo interesse e l'entusiasmo prodotti nelle popolazioni e negli istituti dei comuni albanesi di Sicilia e d'altre regioni italiane. ( Nota dell'A. dic. 1926).
(2) Nota; La quistione ardua di Fiume l'ha risoluta il Duce, nel miglior modo possibile;che egli sia benedetto, anche per questo.
 

 

 

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