APPENDICE
I - ESTRATTO DEI VERBALI DELLE PERIZIE TENDENTI AD ACCERTARE DANNI
PROVOCATI DALL'INVASIONE BRIGANTESCA DEL 3 NOVEMBRE 1861
Verbale della Commissione medico-legale (ff. 14-15).
Il 7 novembre presso la Cappella del Monte dei Morti si recarono il
supplente del Regio Giudicato, Don Rocco Sassano, il cancelliere, il
delegato di Pubblica Sicurezza, il medico condotto, dott. Giuseppe
Marotta per eseguire la perizia medica sul corpo degli assassinati. Il
becchino Pietro de Fino, detto Zecchino, riferì che i cadaveri erano
stati già posti nella cella ipogea. Tolta la pietra della botola, i
miasmi che fuoruscivano erano insopportabili tanto che la lucerna
tendeva a spegnersi; i presenti non vollero scendere nella sepoltura;
prendendo atto che non era possibile eseguire alcuno accertamento
decisero di fare ricorso ad altri mezzi suggeriti dalla legge.
In seguito fu rilasciata una perizia giurata da coloro che avevano
effettuato il riconoscimento dei cadaveri e presa visione delle ferite
che avevano provocato la morte.
Perizie Pretura e alloggio del Pretore (ff. 1-3).
I periti accertarono che la porta d'ingresso era stata ridotta in pezzi e
la toppa fatta saltare a colpi di scure.
Tre armadi, presenti nella stanza dell'archivio, erano stati forzati e due
di essi rovesciati sul pavimento su cui erano sparse molte carte ridotte
in minuscoli pezzi, i vetri di balconi e delle finestre rotti.
Nell'alloggio del giudice le porte erano spalancate; nella camera da
letto i cassetti del comò scassinati a colpi di scure, sottratti gli
oggetti, sparsa per terra la paglia dei materassi (sacconi) e portati
via tutti i mobili delle altre stanze.
Perizia Ufficio del Registro e Bollo e casa dell'esattore Nicola Abbate
(ff. 8-9).
Nelle stanze adibite all'Ufficio del Registro e Bollo erano stati
scassinati a colpi di scure la porta, i cassetti di una scrivania di
noce, un armadio, un cantonale e le imposte della finestra; nella stanza
attigua la porta era stata fatta a pezzi e sfondati un cassettone e tre
casse.
Nell'appartamento superiore erano stati fracassati un comò, quattro casse,
un cembalo, un orologio a pendolo, un tavolo di noce, molti libri e
carte sparsi sul pavimento; tutti i vetri delle finestre e dei balconi
infranti. Il danno complessivo ammontava a più di 60 ducati.
Perizia Ufficio e alloggio del Cassiere Comunale, Giuseppe De Marco (f.
10).
Si accertò che erano stati scassinati a colpi di scure la serratura della
porta d'ingresso, una scrivania, due casse, una toiletta di legno noce;
perforate con pallottole di arma da fuoco (proiettile del calibro di
un'oncia) le imposte della finestra. Il danno accertato era di 19
ducati.
Perizia Carcere Mandamentale (ff. 4-5).
I periti constatarono che era stato scassinato a colpi di scure il
catenaccio che chiudeva il cancello del vano d'entrata. Ispezionati i
tre locali adibiti a prigione non vennero riscontrati sulle cancellate
segni di violenza, né dall'interno né dall'esterno; risultò chiaro che i
detenuti erano usciti dalla porta d'ingresso.
Perizia casa di Alessandro Coronati (ff. 16-19).
Fu accertato che era stato scassinato a colpi di scure il portone; nella
stanza dove c'era la focagna e in quelle adiacenti erano stati rovinati
e svuotati un grande stipo, una libreria, sette casse e una panca. La
serratura della porta della sottostante farmacia era stata rotta con
l'accetta, divelto il lume esterno, infranti i vasi di vetro e di creta,
sparsi per terra i medicinali, rotte le scansie e una libreria. In una
piccola stanza adiacente era stata sfondata la porta, fatti a pezzi un
comò, un comodino, un tavolo e un letto in ferro battuto. Le porte dei
tre magazzini erano state aperte a colpi di scure; undici granai
(riccone) dalla capienza di 600 tomoli, privi dei portellini, erano
stati svuotati e segnati dalla furia distruttrice, sparso sul pavimento
il grano infangato e pestato; dalla stalla anch'essa scassinata era
stato rubato un cavallo.
Il danno accertato era di 75 ducati.
Il Coronati chiese che i periti accertassero i danni in un altro
magazzino, adibito a deposito del grano e di altri generi della
principessa di Corigliano, di cui egli era amministratore. Fatta
l'ispezione si constatò la porta scassinata, il maniglione di ferro
contorto, cinque grandi granai aperti, in più punti mancanti delle
tavole e divelti i portellini; per terra era sparso grano e orzo
calpestati e infangati. Erano stati scassinati e distrutti anche un
tavolo, un armadio, stracciate in minutissimi pezzi le carte della
contabilità. Il danno complessivo era di 39 ducati.
Perizia casa del sacerdote Giambattista Abbate (ff. 21-22).
Si prese atto che la toppa della porta d'ingresso era stata scassinata;
nelle stanze del pianterreno dei mobili erano rimasti solo un tavolo e
tre casse svuotati e distrutti a colpi di scure. Al piano superiore tre
tavoli, tre casse, un cantonale, un comò, uno stipo a muro, una toeletta
segnati e resi inservibili da colpi di scure; i vetri delle finestre e
dei balconi infranti. Il danno venne valutato in oltre 25 ducati.
Perizia casa di Alessandro Maggio (ff. 32-33).
Nell'abitazione risultarono intatti i pavimenti, interamente bruciate
erano le porte, le finestre e la copertura del tetto delle ultime due
stanze. Se l'incendio non fosse stato tempestivamente circoscritto dai
proprietari con il parziale smantellamento della copertura si sarebbe
propagato anche alle abitazioni attigue. Il danno venne stimato in 155
ducati.
Perizia casa di Francesco Antonio e Amalia Beneventi (ff. 34-35).
In casa Beneventi furono accertati vari danni: la porta d'ingresso aperta
a colpi di scure, le stanze svuotate dei mobili; erano stati lasciati un
tavolo e una libreria resi inservibili da colpi di scure. Nella stanza
da letto e in una piccola camera adiacente, che affacciavano sulla
Portalaterra, furono trovati conficcati in una parete un colpo di fucile
ed uno di pistola sparati dall'esterno. Il Beneventi, fin quando aveva
potuto, dalle finestre della casa aveva fatto fuoco sui briganti; si era
poi messo in salvo con tutta la famiglia, raggiungendo Vaglio dove
abitava il suocero Rocco Danzi.
Perizia casa di Federico Volini (ff. 36-37).
In casa del medico Volini erano stati scassinati il portone, la porta
d'ingresso, le porte interne, le finestre e i balconi. Del mobilio erano
rimasti solo alcuni armadi, una cassettiera, una toeletta, un comò e
alcune cornici di quadri, tutti ridotti in pezzi. Anche il magazzino era
stato scassinato e saccheggiato.
Perizia dei palazzi Sassano (ff. 27-29) e eredi Brindisi ff. 30-31).
I due palazzi, divisi da un'angusta strada detta volgarmente strett(e)la,
furono semidistrutti dall'incendio.
Il 9 novembre il fuoco non si era ancora spento e i fabbricati erano
pericolanti perché le travi di sostegno erano state divorate dalle
fiamme. I periti, non potendo eseguire alcun accertamento, si limitarono
a rilevare lo stato di pericolosità degli immobili, anche perché la
gente continuava a percorrere le strade adiacenti. Quando il fuoco fu
spento del tutto fu possibile agli esperti svolgere il loro lavoro.
Il palazzo Sassano era a più piani, i periti accertarono che al primo
piano (di proprietà di Rocco Sassano), costituito da undici stanze, i
pavimenti, poggiando su volte, erano intatti, ma calcinacci, embrici e
mattoni erano sparsi ovunque, le pareti, annerite dal fumo, erano in
parte crollate e tutte le bocche d'opera incendiate.
Il piano superiore era costituito da due appartamenti: uno, di don Camillo
Sassano, di dieci stanze interamente distrutto, un secondo, di quattro
stanze, occupato dalla sorella Luisa moglie di don Carlo Policastro, con
il tetto e le bocche d'opera incendiate, tre pavimenti erano intatti ma
ingombri di detriti. I danni ammontavano a 3.450 ducati.
Il palazzo degli eredi Brindisi (ff. 11-12) era a due piani: i periti
constatarono nell'abitazione di don Tommaso Brindisi che il fuoco aveva
ridotto i quattro magazzini, situati al primo piano, alla nuda fabbrica.
L'incendio poi si era propagato alle stanze del piano superiore
distruggendo completamente gli arredi, i tetti, le bocche d'opera e le
travi; i pavimenti, privi di sostegno, erano crollati, solo tre,
sostenuti da volte, erano indenni. Il danno fu stimato in 1.000 ducati.
L'abitazione di don Rocco Brindisi (ff. 25-27), costituita da 15 vani
posti su due piani, era completamente distrutta. I pavimenti e i muri
interni erano crollati, due vani del piano superiore erano ancora in
piedi anche se anneriti dalle fiamme, la volta del portone era sfondata
a causa della caduta dei pavimenti del piano superiore. Il portone
principale era intatto nella parte lignea. Il danno ascendeva a 2.000
ducati.
Perizia della casa di Giambattista Guarini e Cristina Brindisi (ff.
23-24).
I periti constatarono che il portone d'ingresso presentava circa 30 colpi
di scure; i vetri della casa erano tutti rotti, nella parte inferiore
della finestra della cucina, dove c'erano due fogli di rame, si notavano
5 piccoli fori prodotti da proiettili sparati dall'esterno. Il mobilio
era stato portato via tranne un comò e una cassa resi inservibili da
colpi di scure.
A.S.P., Processo di valore storico, busta 275, fasc. 2
VI - SINTESI DEL PROCESSO PER I FATTI ACCADUTI A TRIVIGNO IL 3 NOVEMBRE
1861
Una lunga e complessa istruttoria ebbe inizio a carico di circa 160
trivignesi, gli arrestati furono imputati di
1) attentato diretto a distruggere la forma di Governo con devastazioni,
saccheggi, incendi, omicidi, commessi in complicità con Carmine
Donatelli, detto Crocco, José Borjes, guerrigliero spagnolo, Nicola
Summa, detto Ninco Nanco, e altri capibanda;
2) somministrazione di viveri, alloggio, armi, aiuto, assistenza ai
briganti, ricettazione di danaro, oggetti depredati e rubati e altri
eccessi; avere seguito le bande brigantesche nelle azioni criminose
commesse in altri paesi.
Il 17 gennaio 1862 il giudice Giovanni Bonanati, del Mandamento di
Potenza, iniziò ad interrogare molti detenuti del Comune di Trivigno,
accusati di avere fatto parte delle bande brigantesche. I detenuti
dichiararono di essere stati obbligati con la forza ad aggregarsi alle
bande e a seguirle nel sacco dei paesi senza però macchiarsi di fatti di
sangue. Quando Crocco aveva sciolto le bande (29 novembre) essi erano
stati aggregati a quella di Cavalcante di Corleto; appena avevano avuta
la possibilità erano rientrati in paese. La ricerca degli indiziati da
parte delle forze dell'ordine continuò anche nei mesi successivi.
Il 26 febbraio 1862 nel bosco Cute fu arrestato Giovani Melfi; molti
altri:
Romano Nicola di a. 17, scalpellino
Orga Valerio di a. 54, fabbro
Orga Luigi, di a. 50, proprietario
Abbate Luigi, di a. 49, proprietario
Zito Basileo, di a. 49, proprietario
Vignola Antonio, contadino
Vignola Michele, contadino
Vignola Rocco Vincenzo, contadino
furono arrestati, il 22 aprile, dai Carabinieri nella propria casa, a
Trivigno. Interrogati, il 6 maggio 1862, negarono ogni addebito; il
giudice Sergio Rotondo dispose che fossero effettuati ulteriori
accertamenti e l'audizione di 61 persone di Trivigno informate dei
fatti. Nel corso dell'Istruttoria vennero interrogati gli imputati, i
parenti, i testimoni a discarico, i danneggiati e tutti coloro che
avrebbero potuto fornire elementi utili all'accertamento della verità
(circa 200 persone).
A termine della Istruttoria la Sezione di accusa, con sentenze del 5
febbraio, 3 luglio e 20 ottobre del 1863, rinviò alla Corte d'Assise di
Potenza, composta dai Sigg. Rocco Positano, Presidente, Emidio Giordano,
Consigliere, Berardino Gallucci, Giudice, Francesco Marozzi, Pubblico
Ministero, Luca Monopoli, Sostituto Cancelliere, gli imputati:
1) Summa Giuseppe Nicola 2) Abbate Francesco 3) Blasi Domenico 4)
Cafarelli G. Antonio 5) Caporale Luigi 6) Carilli Luigi 7) Carosiello
Francesco 8) Cecere Anna 9) Cecere Isabella 10) Cinefra Rocco 11)
Coppola Giovanni 12) Coronati Maria 13) Coronati Luigi 14) De Grazia
Maria 14) De Marco Rocco 15) De Rosa Giuseppe 16) Diana Michele 17)
Fanelli Giambattista 18) Filitti Leonardo 19) Fusillo Giovanni 20)
Giardino Tommaso r 21) Guarino Giuseppe 22) Imundi Michele 23) Maggio
Angelantonio 24) Maggio Pietro 25) Marino Teresa 26) Matera Maria 27)
Melfi Domenico 28) Melfi Giovanni 29) Miraglia Gerardo 30) Miraglia
Pietro 31) Miraglia Rocco 32) Orga Nicola 33) Passarella Carmela 34)
Petrone Rocco 35) Pisani Michele 36) Quirino Giuseppe 37) Rago Luigi 38)
Romano Nicola 39) Romano Rocco 40) Russo Vincenzo 41) Sodo Giovanni 42)
Santangelo Domenico 43) Stasi Gerardo 44) Stasi Domenico 45) Tamburrini
Angelo Maria 46) Tamburrino Innocenzo 47) Ungaro Maria 48) Vetrano
Giuseppe 49) Vignola Antonio 50) Vignola Michele 51) Vignola Nicola 52)
Vignola Raffaele 53) Vignola Rocco Vincenzo 54) Volini Rocco Luigi 55)
Zito Michele
Il 23 febbraio 1865 ebbe inizio il pubblico dibattimento con la nomina dei
giurati, la lettura degli atti di accusa nelle sedute del 24, 25 e 27
febbraio.
II 12 marzo 1865 la Corte, visti i risultati della pubblica discussione,
letto il verdetto dei giurati, ascoltata la richiesta del Pubblico
Ministero, con sentenza dell'11-12 marzo dichiarò assolti e messi in
libertà purché non detenuti per altra causa:
Coronati Luigi Pisani Michele Cecere Anna Cecere Isabella Stasi Gerardo
Carilli Luigi Caporale Luigi Coronati Maria Matera Mariantonia De Grazia
Maria Miraglia Pietro Vignola Raffaele Giardino Tommaso Maggio Pietro
Dichiarò colpevoli di attentato diretto a cambiare la forma del Governo,
di aver promosso la guerra civile, le stragi, le devastazioni, il
saccheggio, l'associazione a banda armata, la complicità in omicidio
volontario e condannò:
De Marco Rocco, fu Innocenzo, a 20 anni di lavori forzati e
all'interdizione dai pubblici uffici.
Abbate Francesco, fu Giuseppe, a 10 anni di lavori forzati e
all'interdizione dai pubblici uffici.
Marino Teresa, fu Nicola, a 10 anni di reclusione.
Condannò a 5 anni di carcere e alla multa di L. 100, espiata la pena
sottoposti a sorveglianza di polizia per tre anni:
Melfi Domenico, fu Michele, nato ad Anzi e domiciliato a Trivigno
Stasi Domenico, di Rocco
Fusillo Giovanni, fu Paolo
Melfi Giovanni, fu Michele, nato ad Anzi, domiciliato a Trivigno
Cafarelli Giovanni Antonio, fu Innocenzo, nato a domiciliato a
Castelmezzano
De Rosa Giuseppe, fu Vincenzo, nato ad Albano di Lucania, domiciliato a
Trivigno
Sodo Giovanni, fu Francesco Antonio
Zito Michele, fu Nicola
Diana Michele, di Giovanni
Vignola Nicola, detto Zucàro, fu Rocco
Petrone Rocco Domenico, di Andrea
Miraglia Rocco di Gerardo
Russo Vincenzo, fu Leonardo, nato a Montemurro, domiciliato a Trivigno
Guarino Giuseppe, fu Rocco.
Vennero condannati:
Ungaro Maria, fu Gerardo, nata a Trivigno, domiciliata ad Anzi, a 3 anni
di carcere.
Romano Nicola, di Giuseppe, a 1 anno di carcere e alla sorveglianza
speciale di Polizia per 6 mesi.
A 6 mesi di carcere, computando anche il tempo di detenzione già
trascorso:
Vignola Antonio, fu Francesco,
Blasi Domenico, fu Francesco,
Passarella Carmela, fu Rocco,
Santangelo Domenico, fu Rocco,
Vetrano Giuseppe, fu Raffaele,
Vignola Michele, fu Francesco,
Filitti Leonardo, di Saverio,
Vignola Rocco Vincenzo, fu Francesco.
Furono condannati a pagare le spese di giudizio e rimborsare i danni, da
liquidarsi secondo Legge, né veniva ammessa la domanda per beneficiare
della Sovrana Indulgenza.
Maggio Angelantonio, fu Luigi, e Imundi Michele, fu Giuseppe, furono
rimessi in libertà perché non avevano continuato a fare parte della
banda, né opposta resistenza alla forza pubblica. La Corte infine
dichiarò estinta l'azione penale per sopravvenuta morte nei confronti
di:
Summa Giuseppe Nicola, detto Ninco Nanco
Quirino Giuseppe
Coppola Giovanni
Fanelli Giambattista
Miraglia Gerardo
Tamburrino Innocenzo
Tamburini Angelo Maria
Cinefra Rocco
Volini Rocco Luigi
Romano Rocco
Carosiello Francesco
Rago Luigi
Orga Nicola
A.S.P., Processo di valore storico, busta 274, fasc. 5-6; busta 275, fasc.
1-5; busta 276, fasc. 6-10.
VII - SINTESI DEL PROCESSO SEQUESTRO PADULA-PASSARELLA
Dagli Atti processuali risulta che nella masseria di Michele Padula (fu
Fabrizio di anni 37), sita in contrada San Leo, la sera del 16 giugno
1874 erano presenti il proprietario, il cognato Arcangelo Passarella (di
Giuseppe di anni 42), tre salariati, Domenico Padula, Giuseppe Sarli,
detto Mangiacreta, con il figlio Rocco, il vecchio massaro Rocco Maggio,
detto Caporale, e il nipote Michele Petrone. Quest'ultimo aveva
macellato da poco una vaccina e si attendeva l'arrivo del mulattiere
Michele Passarella per trasportare la carne in paese, poiché questi era
in ritardo, Michele Padula decise di rientrare a Trivigno; chiese al
cognato di prendere dietro la masseria il mulo per caricare parte della
carne, mentre lui con l'aiuto del Petrone avrebbe sistemato il resto. Ad
un tratto da est e da ovest comparvero i briganti: Pasquale Francolino,
Salvatore Innella e Carmine D'Agrosa, tutti contadini dì Marsico Nuovo,
Domenico Latronico di Castelsaraceno e Giuseppe Ventrieri di Rofrano; li
guidava Giuseppe Padovani, detto Cappuccino.
Il Padula, avvertendo il pericolo, entrò in casa per prendere nella
stanza, denominata comunemente scappitta, il fucile che però
sbadatamente aveva lasciato appeso alla porta della masseria. Vista
l'impossibilità di tentare qualsiasi difesa, si nascose in una cassa,
Arcangelo Passarella, che stava dirigendosi sul retro, sentendo le grida
e le minacce, voltatosi si trovò di fronte un brigante che,
minacciandolo con il fucile, lo trascinò davanti alla masseria. I
grassatori chiesero dove fosse Michele Padula, non avendo avuto risposta
il brigante Francolino ferì Arcangelo Passarella alla gola e alla coscia
sinistra, mentre gli altri tormentavano con la bocca dei fucili i
presenti. Fu ordinato al salariato Domenico Padula di dare fuoco alla
stalla e alla soprastante pagliera; non avendo questi eseguito quanto
richiesto, venne ferito ai reni con colpi di baionetta. Michele Petrone
allora tentò di reagire, nella colluttazione che ne seguì gli fu inferta
una pugnalata alla natica; il fuoco intanto divorava la stalla. In tutto
questo trambusto il massaro Rocco Maggio riuscì ad avvicinarsi al
nascondiglio del padrone e lo pregò di uscire altrimenti i briganti, per
snidarlo, avrebbero incendiato tutto il fabbricato. Il Padula gli
suggerì d'ingannare i briganti, facendosi sostituire dal nipote Michele
Petrone. Il massaro ubbidì, uscendo si rivolse a Petrone, dicendogli:
"padrone mio, fino ad adesso abbiamo negato ma ora non c'è più niente da
fare, seguili, non farti distruggere la masseria". I briganti credettero
di avere tra le mani l'ostaggio e già lo stavano legando, quando questi
chiese che gli fosse portata la giacca. Il salariato Rocco Sarli, invece
di prendere quella di velluto del Padula, portò la giacca di panno del
Petrone; i briganti, essendo bene informati, s'accorsero dell'inganno e
incendiarono l'altra parte della masseria. Arcangelo Passarella e
Petrone, minacciati, fecero finta di cercare il loro congiunto, ma il
brigante Francolino aperto il nascondiglio afferrò il Padula,
trascinatolo fuori, lo legò. Agli odi del sequestrato si presentò lo
spettacolo della masseria in fiamme, dei feriti che si lamentavano e del
cognato, che era stato anch'egli legato. I briganti s'impadronirono
delle armi presenti nella masseria (un fucile a due canne, detto
terzino, e una pistola), e permisero ai salariati di spegnere
l'incendio.
Alla fine si allontanarono con i due sequestrati e con il mulattiere
Michele Passarella che nel frattempo era arrivato alla masseria. Giunti
al torrente Camastra quattro di loro rimasero indietro, quasi in attesa
dell'arrivo di qualcuno, uno si mise di guardia a distanza, mentre
l'altro proseguì poco oltre con gli ostaggi.
Questi videro che i quattro incontrarono due persone provenienti dalla
direzione di Castelmezzano, a causa della distanza non riuscirono a
riconoscerli; un brigante poi fischiò e incitò tutti a camminare più in
fretta. Ricomposto il gruppo, Padula e Passarella notarono che coloro
che avevano incontrato i due sconosciuti non avevano più le armi prese
alla masseria, ma portavano mantelli e cibo. Superati i terreni di
Giuseppe Guarini, la contrada Limitoni, l'Aia delle Donne, seguendo il
tratturo che conduceva al bosco Cute, all'alba del 17 giunsero nel bosco
di Anzi dove si fermarono quattro giorni. I briganti con i sequestrati
si spostavano continuamente perché le forze dell'ordine rastrellavano
tutto il territorio. Il Padula, dalla macchia dove erano nascosti e
sdraiati a terra, contò tredici soldati e trenta carabinieri. Il
mulattiere Michele Passarella fu chiamato dai briganti in disparte, dopo
avere parlato a lungo andò via. Il giorno 20 il gruppo sostò alle falde
del bosco di Anzi; il capo con altri tre briganti si allontanò alla
ricerca di cibo, ritornando all'imbrunire. Visibilmente preoccupato
raccontò che, in località le Mandre, aveva incontrato un vaccaro al
quale aveva chiesto di portargli pane e caciocavallo.
Poco dopo vide vicino alla masseria un uomo, scambiatolo per il mandriano
lo chiamò, facendogli cenno per tre volte con il cappello. Tale segnale
gli fu corrisposto, ma appena l'uomo alzò le braccia, Cappuccino
s'accorse dai galloni che era un brigadiere dei Carabinieri che cercava
di prendere la pistola e richiamare l'attenzione dei commilitoni. Il
capobanda ritenne opportuno darsi alla fuga; temendo di essere stato
seguito, ordinò agli uomini di muoversi in fretta. Più tardi, scampato
il pericolo, due briganti andarono in cerca di cibo, da alcuni pastori
ebbero il latte, il pane e un agnello. Nei giorni successivi
attraversarono boschi, burroni, luoghi sconosciuti e sentirono i
rintocchi di campane; i briganti dissero che erano della chiesa di
Abriola. Il 23 giugno camminarono tutto il giorno; la sera stanchissimi,
nascosti in una folta macchia, si addormentarono. Arcangelo Passarella,
così come poi raccontò, era stato lasciato slegato per la benevolenza di
un brigante; verso mezzanotte, approfittando della situazione
favorevole, riuscì a fuggire.
Dopo avere vagato per i boschi, all'alba vide sulla destra l'abitato di
Calvello. Senza fermarsi in alcuna masseria o abitazione ritornò a
Trivigno, fu visitato dal dott. Antonio Pellettieri di Albano che gli
curò le ferite alla gola e alla coscia. Rese poi la sua deposizione al
Pretore, dichiarando di essersi liberato da solo e di non avere pagato
alcun riscatto.
I carabinieri interrogarono coloro che erano stati presenti al sequestro;
il massaro Rocco Maggio descrisse i danni arrecati alla masseria
dall'incendio, che aveva anche distrutto tutti gli attrezzi agricoli,
ascoltarono Michele Petrone e Domenico Padula, dopo averli fatti
visitare dal dott. Giuseppe Marotta, che rilasciò un certificato
attestante la natura delle ferite. Per due volte sentirono Carmela
Sarli, moglie del Padula, che dichiarò di non avere ricevuto dai
briganti alcuna richiesta di riscatto e che in un fazzoletto, portatole
da Maria Paternoster, aveva trovato solo la chiave con cui si aprivano
gli armadi e i cassetti della casa. Per accertarsi della veridicità di
questa affermazione le forze dell'ordine eseguirono una perquisizione
domiciliare, ma non trovarono alcuno scritto compromettente; la famiglia
Padula fu tenuta sotto stretta sorveglianza fino al rilascio del
congiunto.
I militari perlustrarono i territori di San Leo e del bosco di Anzi,
fermandosi alle varie masserie per raccogliere notizie sulla banda e
indizi sui possibili fiancheggiatori. Il giorno 20 arrestarono nel bosco
di Anzi Michele Passarella, ritenendo che questi fosse stato mandato dai
briganti a chiedere il pagamento del riscatto (in paese si parlava di
cinquemila ducati per Arcangelo Passarella e di quindicimila per Michele
Padula).
Dalle indagini emersero gravi indizi a carico di Nicola D'Amato, di
Saverio Matteo e di Donato Benedetto. Quest'ultimo, fittavolo della
masseria Sassano, secondo la testimonianza del suo salariato, Francesco
Orga, aveva fornito cibo ai briganti per due volte; Nicola D'Amato,
fittavolo dei Sigg. Asmundis di Anzi, aveva dato il latte e il pane e
fornito notizie sui movimenti delle forze dell'ordine; Saverio Matteo,
secondo la testimonianza del massaro Angelantonio Larocca di Brindisi di
Montagna, aveva sempre favorito i briganti, nel tempo aveva tratto
vantaggio tanto da cambiare posizione economica. La sera precedente al
sequestro il Matteo, secondo Larocca, aveva incontrato nel bosco di
Brindisi i briganti per prendere gli ultimi accordi, poi si era recato
alla masseria di Saverio Sarli dove ad attenderlo c'era Francesco
Trivigno con Giustina Santangelo, quindi aveva avvertito il fittavolo
Nico d'Amato della masseria Asmundis, anch'egli connivente dei banditi.
Si disse che la madre di Michele Padula il giorno prima della
liberazione del figlio era stata vista in casa di Saverio Matteo, in sua
compagnia si era incontrata con uno sconosciuto nel vallone di Anzi; si
vociferava, inoltre, che due fratelli del Matteo si erano offerti di
portare ai briganti i danari del riscatto che la donna avrebbe dovuto
consegnare loro presso una fonte pubblica, detta la Vecchia, in
tenimento di Brindisi.
Michele Padula ritornò a casa il 22 luglio; interrogato dai Carabinieri
affermò che il 21 luglio, verso le nove di sera essendo i suoi guardiani
addormentati, era fuggito. Aveva camminato per tutta la notte all'alba,
superata la fiumara di Calvello, era giunto alla chiusa del bosco
Fittipaldi in tenimento di Anzi. Incontrato il suo amico e compare
Raffaele Angarola, si rifocillò nella masseria di questi prima di fare
ritorno in paese. Ricostruì minuziosamente le fasi del sequestro e
riferì che i briganti dopo la fuga del cognato gli avevano legato le
mani tanto strettamente da fargliele gonfiare; le marce forzate, il
dormire all'addiaccio e gli altri disagi gli avevano provocato
lancinanti dolori ad una spalla, alleviati da massaggi con lardo caldo.
Affermò, inoltre, che i briganti non avevano incontrato alcuno, né egli
aveva visto chi li rifornisse di cibo, però il pane, il vino e i sigari
non gli erano mancati; durante i lunghi giorni della prigionia aveva
saputo dai suoi carcerieri molti fatti relativi al suo sequestro.
Era riuscito ad avere una certa confidenza con Domenico Latronico che gli
aveva confidato di essersi dato al brigantaggio perché ricercato dalle
forze dell'ordine per un tentato omicidio e di non essere contento di
quella vita. Egli, approfittando di quell'attimo di debolezza, chiese al
suo interlocutore di rivelargli chi lo avesse fatto sequestrare; seppe
che avrebbe organizzato ogni cosa un contadino che lavorava in una
masseria in contrada San Leo.
Dichiarò di sospettare, quali mandanti dell'atto criminoso, i fratelli
Francesco e Giovanbattista Trivigno di Castelmezzano con i quali era in
attrito per motivi d'interesse. Questi erano figli di Maria Volini che,
in seconde nozze, aveva sposato il suocero Saverio Sarli, proprietario
di una masseria distante circa un miglio da quella del genero. Il Padula
affermò di essere giunto a questa conclusione mettendo insieme una serie
di indizi: il contadino suo vicino, del quale gli aveva parlato il
brigante Latronico, non avrebbe potuto essere che Francesco Trivigno che
viveva con il patrigno e lavorava nella masseria Sarli. Il sequestro,
come avevano fatto intendere i briganti, era stato organizzato alla fine
di maggio, proprio nei giorni in cui la contadina Anna Galgano aveva
visto in contrada Campolongo alcuni banditi. Egli nello stesso periodo
aveva sorpreso Giustina Santangelo, domestica di casa Sarli e convivente
di Francesco Trivigno, a rubare farina e altri generi alimentari nella
casa del padrone; avendola rimproverata e schiaffeggiata, aveva creato
in Francesco ulteriore malanimo nei suoi confronti. Secondo precise
testimonianze, il Trivigno, il 16 giugno, essendo stato informato della
presenza dei briganti in quella zona, aveva persuaso Saverio Sarli a non
recarsi alla masseria; nei giorni successivi al sequestro andava dicendo
in paese di avere avuto la sua rivincita. Michele Padula riteneva che i
due individui incontrati dai briganti sulla sponda del torrente Camastra
fossero Francesco e Giovanbattista Trivigno, poiché quest'ultimo aveva
nella zona la propria masseria. Riferì di sospettare di connivenza con i
briganti anche un suo capraio, Antonio Cerone; questi, la sera del
sequestro mentre stava conducendo le bestie all'addiaccio, era stato
fermato dai malfattori e trattenuto in un fosso dove c'era già il
mulattiere Michele Passarella, guardato a vista e con le armi puntate
contro. I briganti, dopo averlo minacciato, lo avevano lasciato andare;
il Cerone, giunto allo stazzo, non raccontò quanto gli era accaduto agli
altri pastori (Pasquale Damiani, Vito Benedetto e un certo Giovanni,
detto Scascizzo).
Alla fine del lavoro, sul tardi, commentando l'andamento favorevole
dell'annata per la scarsa mortalità del bestiame, i pastori scherzando
dissero: "dobbiamo chiedere un cappello al padrone", a queste parole
Cerone rispose: "se ce lo troviamo". I presenti vollero che egli
spiegasse il significato di quelle parole; il capraio, messo alle
strette, raccontò quanto gli era accaduto, concludendo che a quell'ora i
briganti avevano già sequestrato il padrone, a chi si risentiva perché
non avesse parlato prima, rispose che erano sorvegliati da lontano da un
brigante; se si fossero mossi sarebbero stati uccisi tutti.
Il Padula descrisse con dovizia di dettagli le armi che i briganti avevano
preso alla masseria, dichiarò di essersi liberato da solo, di non avere
pagato alcun riscatto, perché per mettere insieme la somma avrebbe
dovuto vendere il bestiame, parte dei terreni, né avrebbe potuto
chiedere prestiti, avendo con la Banca Nazionale un debito di
quattromila lire da pagare alla fine di agosto.
I carabinieri, sulla base di queste dichiarazioni e degli indizi raccolti,
arrestarono i fratelli Giovanbattista e Francesco Trivigno, il capraio
Antonio Cerone, il contadino Donato Benedetto di Anzi, Saverio Matteo e
il contadino Nicola D'Amato. Questi vennero imputati di:
1) associazione a banda armata, ferimento e sequestro di persone a scopo
di estorsione;
2) avere fornito viveri e ricovero ai briganti;
3) avere cooperato alla mancata estorsione.
Il Pretore, letti gli atti, non essendo emerse prove sufficienti a carico
degli arrestati, ordinò il proscioglimento e dispose che fosse emesso
mandato di arresto contro i sei briganti della banda Cappuccino e dei
fratelli Trivigno.
Il Tribunale di Potenza istruì un nuovo procedimento penale a carico di:
Padovani Giuseppe, detto Cappuccino
Francolino Pasquale
Innella Salvatore
Ventrieri Giuseppe
D'Agrosa Carmine
Latronico Domenico
Trivigno Francesco
Trivigno Giambattista.
I primi sei, latitanti, furono imputati di:
1) associazione a delinquere contro le persone e la proprietà;
2) incendio volontario di stalla, pagliera e casa colonica abitata, con un
danno economico valutato in 605 lire;
3) appropriazione di armi da fuoco del valore di 100 lire;
4) minaccia a mano armata, ferimento di persone e sequestro di persone a
scopo di estorsione.
I fratelli Trivigno furono imputati di complicità e di istigazione a
commettere il sequestro Padula; in questo ulteriore grado di giudizio
vennero nuovamente prosciolti per mancanza di prove. La Corte ordinò che
fosse estinta l'azione giudiziaria contro Giuseppe Padovani e Domenico
Latronico per avvenuta morte (furono trovati morti in località
Pietrasanna del Comune di Padula il 26 luglio 1874, come attestato dagli
Atti di morte rilasciati dal Sindaco di quel centro).
Per gli altri quattro briganti latitanti: Pasquale Francolino, Salvatore
Innella, Carmine Ventrieri, Carmine D'Agrosa, imputati anche di altri
omicidi e atti briganteschi, il procedimento penale continuò davanti
alla Corte d'Assise di Potenza.
A.S.P., Processo di valore storico, busta 433, fasc. 5-12. |