In Sabina
Orazio è in Sabina, a
Mandela, nella sua villa, donatagli da Mecenate.
Orazio
Qui, in Sabina, nella mia villetta, lontano dai rumori dell’Urbe e
dai suoi affari, a contatto col verde e i colori del bosco, con la pace
che vi regna, ritrovo me stesso e riesco ad ascoltare il mio cuore. E
tu, o Lalage, amica mia, così fresca e genuina, così disponibile
all’incontro, sei per me un dono degli Dei, gli abitatori dell’eccelso
Olimpo.
Lalage
E tu per me sei il legame che mi unisce al mondo esterno: nella
solitudine in cui vivo il tuo arrivo è festa, gioia, significa
trepidazione. E’ da tempo che custodisco in me il forte desiderio che tu
mi narri gli accadimenti che hanno caratterizzato la tua esistenza, che
hanno fatto sì che tu diventassi quello che sei, il maestro che con
moderata saggezza ci guida nel cammino della vita. Ma ho timore che tu
non mi ritenga degna di comunicarmi quanto vivendo si è andato
sedimentando nel tuo animo.
Orazio
Lalage, il tuo pudore mi commuove e mi esalta allo stesso tempo. Gli
alberi fanno ombra, il sole è ancora alto e questo venticello leggero
smorza la calura e rinfranca. Non c’è momento più adatto per accogliere
il tuo invito. Chiedimi ed io ti risponderò in tutta franchezza come si
conviene tra amici veri.
Lalage
Dimmi di te. Di tuo padre liberto, di come ti educò e donde deriva
la grande venerazione che nutri per lui.
Orazio
“Se l’indole mia è quasi completamente onesta, macchiata solo da
pochi lievi difetti, al pari dei nei che puoi criticare sparsi sopra un
corpo leggiadro: se nessuno mi può rimproverare di essere avaro,
spregevole, capace di turpi azioni, se mi posso vantare di essere un
galantuomo, se sono caro agli amici, il merito è tutto di mio padre che
possedeva un campiello assai piccolo…”
Satire I-VI 65/71
Lalage
Quali vicende ti condussero nell’Urbe da così lontano?
Orazio
“ Mio padre, generoso e lungimirante, non volle mandarmi alla scuola
di Flavio, a Venosa. Essa era frequentata dai boriosi figli dei
centurioni famosi che, certamente, avrebbero disprezzato la mia umile
condizione. Volle così sottrarmi a loro che portavano la tavoletta
cerata e la borsa e che alle Idi di ogni mese pagavano ben otto soldi. E
così, ancora bambino mi condusse a Roma perché apprendessi ciò che ogni
cavaliere o senatore avrebbe fatto insegnare ai propri figli. Se tra la
folla qualcuno mi avesse visto ben vestito con i servi che mi
accompagnavano, avrebbe certo creduto che tanto dispendio derivasse da
ricca eredità.”
Satire I-VI 72/80
Lalage
Un padre così avveduto è veramente degno di lode. E devo ammettere
che ebbe grande coraggio. Quindi, il primo maestro fu lui per te.
Orazio
“Assolutamente: Egli mi guidava a scuola, maestro onestissimo fra
tutti, egli in persona. Che più? Mi seppe conservare pudico, che è la
prima virtù dell’uomo perbene, non solo nei fatti, ma anche nel parlare.
Non mi lamenterò, finché avrò senno, di un simile padre, né mi vorrò
difendere, come fanno tanti, di non avere un padre nobile e illustre. Se
natura concedesse ad ognuno di rivivere, ogni tanti anni, la vita
trascorsa e scegliere genitori diversi, libero di preferire quelli
adatti alla propria alterigia, io non li sceglierei famosi per dignità
consolare o sedia curule, io vorrei quello che ebbi…”
Satire I-VI 81/84, 89/97
Le notizie fondamentali della
biografia oraziana si ricavano copiosamente dalle stesse opere del
poeta. Nessuno scrittore antico, infatti, ha parlato tanto di sé e
nessuno prima di lui ha lodato tanto il padre e la formazione morale da
lui ricevuta. Il padre di Orazio, di condizione liberto, cioè schiavo
affrancato, esercitava il mestiere di esattore delle aste pubbliche e
non certo di pizzicagnolo, come voci maligne insinuarono forse per
invidia delle amicizie dei grandi del suo tempo contratte dal figlio.
Della madre, invece, non si ha notizia, cosa che spinge a molte
congetture. Orazio era forse orfano fin dalla tenera età, quindi
affidato alle cure di una nutrice? Sicuramente la mancanza di una figura
materna contribuì, insieme ad altre circostanze, ad una certa misoginia,
a quella inerzia esistenziale che spesso portarono il poeta sull'orlo di
una profonda depressione, specialmente dopo il ritorno in patria dalla
Grecia; lo salvarono la saldezza morale inculcatagli dal padre, l'amore
per la poesia che si era affinato al più diretto contatto con i lirici
greci, gli amici, tra i quali Virgilio, il più vicino per somiglianza di
vita e di credo filosofico, e, infine, determinante, l'incontro con
Mecenate.
Orazio
L’ottimo padre mio mi abituò alla libertà e alla franchezza quando
mi educò con l’esempio additandomi, perché li fuggissi, tutti i difetti
che notava. Quando mi esortava a una vita parca e frugale, ad essere
contento di quanto mi dava diceva:
“ Non vedi come vive male il figlio di Albino? E Baio così privo di
tutto, lo vedi? Questi sono esempi chiarissimi di come nessuno debba
scialacquare i beni paterni.”
Quando voleva staccarmi dal turpe legame di una donna dappoco così mi
consigliava:
“Non imitare Scetano, sii diverso.”
Perché non insidiassi le mogli degli altri dal momento che non mancavano
pubblici amori, mi indicava altri esempi:
“Non gode certo buona fama Trebonio, colto sul fatto”.
Quando voleva incitarmi a compiere una buona azione mi indicava qualcuno
degli uomini eccellenti e diceva:
“Hai già l’esempio che ti spinge a fare ciò”.
Se invece voleva vietarmela, obiettava:
“Come puoi dubitare che questa azione sia inutile e malvagia mentre
ancora divampa la cattiva fama di questo o di quello? Figlio mio, il
sapiente, poi, ti dirà per quale ragione sia meglio cercare l’una cosa e
fuggire l’altra. Per quanto mi riguarda, se sono riuscito con l’esempio
a conservare i costumi dei padri e a salvaguardare la tua vita e il buon
nome, mi basta. Ormai hai vent’anni, l’età ti ha temprato l’animo e il
corpo, puoi notare senza sughero. Andrai, quindi, ad Atene.
Satire I-VI 105/126
Compiuti gli studi di grammatica
e di retorica, a vent'anni, mio padre volle che mi recassi ad Atene per
intraprendere gli studi filosofici come tutti i giovani di buona
famiglia.
Ad Atene Orazio e i giovani
Romani, che come lui si erano recati in quella città per perfezionare
gli studi, nutrivano un forte amore per la libertà e per i valori della
tradizione romana, una vera infatuazione per lo stoicismo e una profonda
avversione per la dittatura. Intanto, a Roma Cesare cadeva vittima della
congiura ordita contro di lui, capeggiata da Bruto e Cassio. Erano le
Idi di marzo del 44 a.C.
Lalage
Che tristi vicende, Orazio, per il popolo Di Roma!
Orazio
Tristi, Lalage mia cara, terribili! Sembrò che Giove Capitolino
volesse punire con una guerra fratricida Roma e i detentori del potere,
divenuti con la loro audacia una minaccia per l'equilibrio voluto
dall'Olimpo, e non gli bastassero i sacrifici votivi a lui dedicati
quotidianamente, il fuoco sacro custodito dalle vestali, né i riti
propiziatori presieduti dai sommi sacerdoti.
Le Idi di Marzo gettarono
sgomento nel mondo romano: i congiurati e i loro sostenitori si
disorientarono di fronte agli avvenimenti che seguirono e furono
costretti a fuggire.
A Bruto, recatosi in Atene, non fu difficile reclutare tra gli studenti
romani soldati per il suo esercito, in vista dello scontro, ormai
inevitabile, con le forze cesariane capeggiate da Ottaviano ed Antonio.
Anche per Orazio profondamente infervorato dagli ideali di libertà,
Bruno era un idolo.
Lalage
Tu, quale ruolo avesti nelle file di Bruto?
Orazio
Fui tribuno, a capo di un’intera legione. Ero pieno di passione e
pronto ad affrontare la lotta!
E venne Filiipi. A
Filippi si svolse la battaglia decisiva tra le forze di Ottaviano e
Antonio da una parte e quelle di Bruto e Cassio dall’altra. I congiurati
furono sconfitti e si suicidarono. Era l’anno 42 a.C.
A Filippi crollò l’esaltazione stoica e repubblicana di Orazio: la
tragica delusione del poeta e le tristi conseguenze che seguirono alle
vicende storiche, lasciarono dei segni indelebili nella sua vita. Il suo
era l’animo amareggiato di chi sente di avere perduto tutto e nulla osa
sperare. Fu per Orazio il periodo del disinganno: egli soffrì
profondamente il fallimento dei suoi ideali giovanili: Bruto era stato
per il poeta la virtù ed il suo errore era stato quello di credere
che la virtù potesse vincere la fortuna. Anni dopo, in occasione del
ritorno a Roma di Pompeo Varo, compagno d’armi al seguito di Bruto,
Orazio ricordò nell’ode settima del libro secondo il doloroso evento
della battaglia di Filippi.
Insieme militando nell’esercito
di Bruto
spesso giungemmo prossimi alla morte,
or chi ti ridona cittadino romano
al cielo d’Italia e ai patri Dei,
o Pompeo, il più caro dei miei
amici
col quale spesso, bevendo, consumai
il giorno, lento a passare, con i capelli
lieti di corone e di malobrato sirio?
Con te patii la disgraziata fuga
a Filippi,
dove, ahimè!, abbandonai lo scudo allor che
la virtù fu piegata e turpemente gli eroi
prima minacciosi si piegarono al vincitore.
Il veloce Mercurio tra le file
nemiche
rapì me sgomento in una nuvola densa
te, invece, la furia della guerra
di nuovo avvolse in gorghi funesti.
Offri a Giove il dovuto
banchetto
e adagia il corpo esausto di battaglie
sotto il mio alloro, e non risparmiare
le anfore tenute in serbo per te.
Riempi le coppe dell’oblioso
massico
versa dagli ampi vasi gli unguenti.
Chi si offre di intrecciare per noi
corone di umido apio e di mirto?
Chi la dolce Venere eleggerà
re del convito? Io berrò molto
più degli Edoni: è dolce far baldoria
per aver ritrovato l’amico.
Lalage
Che fu di te dopo Filippi?
Orazio
Rimasi per qualche tempo in oriente, poi, grazie all’amnistia
concessa ai superstiti dell’esercito repubblicano, tornai a Roma, ma
nulla era come prima. Tempi tristi mi aspettavano: il mio buon padre era
morto e la casa e il piccolo podere mi erano stati confiscati.
Lalage
E come affrontasti il nuovo corso della tua vita?
Orazio
Trovai da vivere facendo lo scriba quaestorius e intanto
sfogavo la mia amarezza e il mio sconforto nella poesia.
Riaffiorarono allora
prepotenti i richiami dei poeti greci: la loro sensibilità, la
musicalità dei versi, la loro attenzione agli echi dell'anima. Orazio si
accostò alla gravità dei temi e del patrimonio letterario e poetico
romano attraverso il paziente filtro della introspezione, così evidente
nei modelli greci, e si dedicò ad esprimere il suo mondo legato
profonda- mente alla tradizione nelle forme della grande arte greca
divenendo un raffinato verseggiatore e uno degli esponenti maggiori
dell'indirizzo classico della sua età.
“…E quando dopo Filippi mi
restituirono alla libertà, con le ali spezzate, avvilito, privato del
campo e dei Lari paterni, l’audace povertà mi spinse a comporre dei
versi”...
Satire II-II 49/52
Orazio, così provato dalle
vicende e così sensibile alla crisi dell’età e ai bisogni spirituali
dell’anima, non poteva non incontrarsi con Virgilio, giunto a Roma da
poco, vittima anch’egli dell’espropriazione subita nei pressi di
Mantova. I due poeti vissero il periodo critico e i complessi
avvenimenti che segnarono il passaggio dalla Repubblica all’Impero,
divenendo gli interpreti e le voci più significative del loro tempo.
Già i venti di Tracia, compagni
di primavera
placano il mare e vi spingono le vele
l’inverno non più raggela i prati
né i fiumi scrosciano gonfi di neve.
Si costruisce il nido l’infelice
uccello
che, misero, piange Iti e l’eterno misfatto
della casa di Cecrope, ché troppo atrocemente
si vendicò della barbara passione del re.
Col flauto i pastori dei pingui
greggi
intonano canti sulla tenera erba
e dilettano il Dio Pan, cui grati sono
gli ombrosi colli d’Arcadia e le mandrie.
La stagione reca anche l’arsura,
o Virgilio,
ma se tu, caro ai più nobili giovani,
vuoi gustare il vino in Calvi spremuto
dovrai meritarlo portando del nardo.
Un vasetto di nardo farà uscire
dalla cantina di Sulpicio, dove giace,
un barilotto generoso di nuove speranze
efficace a dissolvere gli amari affanni.
Se vorrai gustare queste gioie
vieni presto
con il tuo profumo: io non penso
di bagnarti a ufo col mio vino
quasi fossi un ricco nella sua casa ricolma.
Tronca ogni indugio, bandisci
l’avarizia,
memore delle fiamme del mio camino,
finché è lecito, mescola a gravi pensieri
breve insania: è dolce a tempo opportuno far follie.
Odi IV-XII
Tra Orazio e Virgilio nacque
un privilegiato rapporto spirituale che li portò ad assidue
frequentazioni durante le quali essi erano soliti scambiarsi idee,
opinioni di natura morale, politica, culturale.
Virgilio
Sorte comune c’è toccata, Orazio mio, entrambi abbiamo patito la
spoliazione del podere paterno. Io, come sai, se per merito di Asinio
Pollione, mio amico e protettore, ho potuto evitarla una prima volta, in
seguito, essendo giurista il cremonese Alfeno Varo, non sono stato
risparmiato. Anzi fui a rischio di perdere la vita nel tentativo di
sbarrare il passo al nuovo proprietario. Cacciato dalla mia terra, sono
qui esule a Roma e ho trascinato con me il mio vecchio padre, ormai
cieco.
Orazio
Virgilio caro, confortiamoci insieme di fronte alla durezza dei
tempi. Io, dal canto mio, avendo visto cadere i miei idoli, le mie
costruzioni ideali, ho la certezza che mai più potrò sperare con la
stessa passione, amare con gli stessi slanci, credere con lo stesso
ardore. La tua amicizia mi è oltremodo cara e averti compagno di viaggio
mi riempie il cuore di orgoglio e di pace serena. E pace vado cercando
dopo tanto tumulto, e con me pace chiedono le genti italiche. Dopo
tutto, voglio rimanere fuori dal rumore della storia.
Virgilio
A me è vicino Epicuro e la sua dottrina. Essa è rimedio alle
delusioni, rifugio contro l’asprezza della vita grazie all’ideale
dell’otium contemplativo e del disprezzo di ogni civile negozio.
Orazio
In questa atmosfera di ansiosa ricerca di pace; nel nostro proposito
di chiudere in una torre d’avorio i nostri sogni, certo la predicazione
epicurea ci aiuta a dominare le passioni fino all’imperturbabilità.
Anch’io voglio costruire attorno alla mia sofferenza una torre d’avorio
in difesa.
Nell’età augustea, specie nel
primo periodo, ci fu, come raramente è accaduto nella storia
dell’umanità, un legame inscindibile tra la grandezza degli avvenimenti
politici e lo splendore delle lettere e delle arti. Da qui l’amicizia e
la comunità di intenti tra i due poeti, testimoniate in più passi da
Orazio. Alcuni hanno insinuato, cosa forse accettabile solo in parte,
che Augusto abbia addirittura tratto ispirazione e suggerimenti dalle
opere di Virgilio e di Orazio nel redigere alcuni punti del suo
programma politico.
Virgilio
Spetta a noi poeti, coscienze attente e sensibili, farci interpreti
delle esigenze e delle aspirazioni generali, colmare il vuoto degli
spiriti, conseguente al furore dei tempi, ed essere guida e
sollievo per le menti.
Orazio
Che le fervide Muse ci assistano, e Minerva e il divino Apollo ci
sostengano nel nostro arduo compito.
Virgilio
Proprio l’altra sera, in compagnia di Vario Rufo, pregiata anima e
amico sincero, parlando di te, delle tue impareggiabili doti, abbiamo
riflettuto sul valore dei tuoi scritti che sono ben degni di essere
diffusi perché in molti li conoscano. E chi altri se non Mecenate può
concorrere a ciò. Mecenate, l’illustre cavaliere, l’onesto consigliere
di Augusto, il punto di riferimento nelle ore così intense che l’Urbe
attraversa.
Orazio
Merito io così grande stima da parte tua e di Vario?
Virgilio
Non siamo i soli ad apprezzare i tuoi versi e i tuoi amabili
discorsi sui vizi e sulle le virtù degli uomini.
Orazio
Mi sconcerta l’idea di essere presentato a Mecenate: conosco il suo
potere, non ancora la sua natura.
Virgilio
E’ scrutatore di anime e non è facile agli entusiasmi. Sii te
stesso, non costruirti falsi attributi.
Orazio
Non saprei farlo, ma ti sono grato del consiglio; cercherò di non
deludervi per non deludere me stesso.
Lalage
Com’è affascinante il racconto che mi fai della tua vita. Ma il sole
è calato e comincia ad annottare, devo lasciarti. Se vorrai, domani, di
buon’ora tornerò da te e porterò un’anfora di vino, da tempo riposta,
per smorzare la sete nelle ore calde del meriggio.
Orazio
L’amicizia è davvero un bene divino: accanto a te le ore hanno fatto
passi da gigante. Che Morfeo protegga il tuo sonno, Lalage cara. A
domani.
O mio Fusco, chi puro e onesto
vive
d’archi non ha bisogno né di dardi
mauritani né di faretre colme
di frecce avvelenate in punta,
sia che s’appresti a visitar
le infuocate Sirti sia le terre
del Caucaso inospitale o i luoghi
che l’Idaspe leggendario bagna.
Infatti, mentre privo di
pensieri gravi
vagavo nel sabino bosco oltre i confini
e cantavo la mia Lalage, un lupo
fuggì dinanzi a me ch’ero senz’armi!
Un tale mostro la bellicosa
Daunia
non nutre nei vasti rovereti
né lo genera la riarsa terra
di Giuba, nutrice di leoni feroci.
Mettimi nei gelidi campi ove
nessuna
pianta all’aura estiva si ravviva
in quella parte del mondo ove la nebbia
incombe e un malefico clima;
mettimi nella terra inabitata
al carro del sol troppo vicina
io Lalage amerò che dolcemente ride
Lalage che dolcemente parla!
Odi I-XXII |