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LA CAPPELLA DE GEORGIIS NELLA CHIESA DELLA RABATANA A TURSI
 

A Tursi nel più antico quartiere della città, detto Rabatana, sorge la Chiesa Collegiata intitolata a Santa Maria Maggiore.
Al piano inferiore della costruzione, in corrispondenza dell'area presbiteriale, esistono alcuni ambienti in parte rivestiti da pitture murali. È proprio su queste ultime che si concentra la nostra attenzione.
L'osservazione attenta e diretta, supportata dall'ausilio delle riproduzioni fotografiche scattate in vani angusti e poco alti, permette di trarre alcune informazioni inedite che giovano non solo alla formulazione di una datazione precisa, resa peraltro già possibile da alcuni dati certi che più avanti citeremo, ma ad una possibile attribuzione, attraverso la ricostruzione delle vicende che diedero origine alle opere in questione. Innanzitutto occorre descrivere le caratteristiche degli ambienti a cui attualmente si accede mediante un'unica gradinata che immette in un lungo corridoio dove prospettano tre archi: il primo conduce ad una sala sottostante ora adibita a deposito, con ingresso sul piano stradale, il secondo introduce in un ambiente dalla volta a botte che presenta all'interno un altro arco di collegamento tra due piccoli vani.
Nel primo di questi troviamo a destra un altare e di fronte un sarcofago in pietra; il sottarco d'ingresso al primo e al secondo vano, la volta, le pareti e il paliotto dell'altare sono rivestiti da affreschi.
Nel secondo vano dalla volta a botte è collocato un Presepe in pietra; questo ambiente prospetta mediante il terzo arco sul corridoio, che è illuminato da una finestra.
Sul lato di fondo del corridoio si inerpicano alcuni gradini, interrotti da una parete murata. Sembrerebbero essere parte di una scala corrispondente; in parallelo, a quella di accesso al sotterraneo, chiusa durante uno degli interventi edificatori che nel tempo hanno interessato questa chiesa. La notizia orale riguardante il ritrovamento di resti di corpi umani inumati in posizione eretta nella parte terminale del corridoio confermerebbe, unitamente al loro aspetto originario, la destinazione a cripta sepolcrale di tali ambienti.
La cripta avrebbe allogato la sepoltura dei religiosi del Capitolo della chiesa medesima: dalla prima sala che si apre sul corridoio si accede ad un angusto cunicolo che ospiterebbe diverse sepolture antiche.
Questi ambienti sono attualmente, genericamente, denominati "catacombe" dagli abitanti del posto. Si dice altresì dell'originaria destinazione cimiteriale dell'area immediatamente adiacente al retro della costruzione sacra e, del resto, ancora oggi riporta la definizione di "Cimiterio" (1) anche l'atrio antistante la facciata principale della chiesa.
Ma nella cripta i due ambienti prospicienti il corridoio avevano destinazione d'uso privato: a tutta prova sembrano essere di pertinenza di una sola famiglia, quella dei De Georgiis, come attestato da ben due epigrafi esistenti sul posto.
Questa speciale utenza è spiegabile con la posizione di rilievo occupata nel tempo da questa famiglia che fu forse di notabili locali, come testimoniano le cronache più antiche in nostro possesso sulla città di Tursi, che già nell'Ottocento la dicevano estinta (2).
Un'altra ragione potrebbe spiegare la presenza di una tomba familiare in un luogo così sacro ed è legata ad una deduzione importante che emerge, come accennavamo, dalla lettura delle iscrizioni in latino sulle pareti. Esse, in numero di due distinte, compaiono l'una sulla parete sinistra rispetto all'ingresso e l'altra sulla volta immediatamente al di sopra.
La prima, integrata dalla trascrizione pubblicata nel 1851 dal medico di Tursi Antonio Nigro (3), recita così:
"[IOHANNI]S (A)NTON(I) TENEBRIS CONDVNTVR IN ISTIS// OSSA. ANIMVM CLARVM, CLARVS OLYMPVS HABET.//REDDIDIT HIC TERRAM TERRAE CAELESTIA CAELO// DIVITIAS MVNDO: FAMA RETENTA SIBI.// LAETA DOMVS QVONDAM, FELIX GEORGIA NATIS// HUNC GENVIT BACVLVM PRAESIDIVMQ(VE) PRI(V)S.// INGENIVM TRIBVIT NATURA, INDUSTRIA FECIT// ACRIVS INGENIVM, SORSQVE SECVNDA FVIT.// NAMQUE PATER PVERVM STVDIIS ORNAVIT HONESTIS/ VT PATRIAE, VTQVE SVIS: VTILIS INDE FORET.// GRA(M)MATICA HIC VALVIT: CANTV FIDIBVSQVE CANORIS,// CONDIDIT ET DOCTIS CARMINA GRATA VIRIS.// TRACTANDIS ARMIS AGILIS, PEDIBVSQVE MOVENDIS// HIC ERAT, IN GYROS FLECTERE DOCTVS EQVOS.// HIS CONIUX GENERE, ET FORMA VITAQVE MODESTA// EGREGIA ACCEDIT, VT TACEANTVR OPES.// TREIS ET VIGINTI VIX HIC EXEGERAT ANNOS CVM DVRAE PARCAE MOLLIA FILA SVANT.// O SPES FALLACES HOMINVM CVRASQVE FLVENTES// CVM LUX DELECTAT NOX TEGIT ATRA CAPUT.// NOMINIS HEV RAPTA EST POSTREMA PROPAGO GEORGIA[E]// QVAE SPES LONGAEVAE POSTERITATIS ERAT.// SED TAMEN HIC ACTVRA FRVITVR, QUID UTRIQVE PARENTES?// PER TENEBRAS SENIVM, PER LACRIMASQVE TRAHUNT.// POSTUMA NUNC SVPEREST, QVOQVE NEPOTIS, ANICVLA SOLUM.// HIS AVIAE PECTVS, HIS LACERANTVRAVI.// INVIDEAS IGITVR NATO MISERERE PARENTVM.// LECTOR HIC EST FELIX, HI SINE FINE DOLENT.// MIGRAVIT HINC ANNO 1547// POSTRIDIE IDVS QVINTILIS SVB DILUCVLUM = Le ossa di [Giovanni] Antonio sono custodite in queste tenebre. Il cielo luminoso (ne) possiede l'animo insigne. Questi restituì la terra alla terra, le cose celesti al cielo, le ricchezze al mondo, dopo aver serbato la fama per sé. La famiglia De Georgiis un tempo lieta e felice per i figli generò costui quale primo bastone e difesa. La natura gli concesse l'ingegno, l'operosità (ne) rese più acuto il talento e la sorte gli fu propizia. Infatti il padre ornò il fanciullo di studi dignitosi affinché poi fosse utile alla patria come ai suoi. Questi primeggiava nella grammatica, nel canto e nel suono della lira armoniosa. Scrisse anche versi graditi ai dotti. Egli era abile nel maneggiare le armi e nella danza ed esperto nel piegare i cavalli alle giostre. A tutti questi pregi s'aggiunse una moglie nobile per casato e per modestia di vita, per non parlare delle (sue) sostanze. Questi aveva compiuto appena ventitré anni quando le dure Parche (ne) recisero gli esili fili della vita. O speranze fallaci degli uomini e correnti affanni, mentre la luce allieta, la notte buia ci copre il capo. Ahimè, l'ultima discendenza della famiglia De Georgiis è stata strappata alla vita, mentre essa era la speranza d'una lunga posterità. Ma tuttavia costui gode della vita eterna, che cosa (resta a) entrambi i genitori? Trascinano la vecchiaia nelle tenebre e in lacrime. Ora sopravvive superstite, anche al nipote, soltanto una vecchietta. Per loro (i due) si scuote il petto della zia, per loro si tormentano i nonni. Invidia pure il figlio che piange i genitori morti. Colui che qui legge è felice, costoro si dolgono senza fine. Se ne andò da qui nell'anno 1547 il 14 luglio verso l'alba".
La seconda invece:
"MA(GI)S(TE)RIAM SPEM PATRIAE, PARENTVM, ET PROPINQVORVM, PARVVS// CLAVDIT HIC TVMVLUS: PETRVM ANTONIVM A GEORGIIS,// VITAE MODESTIA COMMENDABILEM, ET GRAECIS LATI//NISQVE LI(T)TERIS OPTIME EXCVLTVM. VIX ADOLESCENTIAM/l ATTIGERAT, CVM EUM IMMATURA MORS RAPVIT SVIS// NVNC FELIX GAVDIIS FRVITVR AETHEREIS: INFELICES PA//RENTES CHARO LUMINE ORBATI, IN GEMITV ET LACHRY//MIS ACERBAM TRAHVNT VITAM. VIXIT ANNIS XV MENSI//BUS V, DIEBVS XXI: QUARTO NONAS SEXTILIS SPIRITVM//CAELO, CORPUS TERRAE REDDIDIT. POSTRIDIE PVBLICO// HYMATVS LUCTV, QVOS ANNOSIS PARENTIBVS SVPE(R)//STES DEBEBAT NOVISSIMOS HONORES EOS AB ILLIS// IN VITIS (SIC PLACITVM EST SVPERIS) PRAEPOSTE//RO NATURA ORDINE ACCEPIT: LABENTE ANNO A REDEMPTO//RIS ORTV, MILLESIMO QVINGENTESIMO QUADRAGESIMO VII°.
= Questo piccolo sepolcro racchiude la sovrana speranza della patria, dei genitori e dei parenti: Pietro Antonio De Georgiis, degno di lode per la modestia della vita e ottimamente edotto nelle lettere greche e latine. Aveva appena sfiorato l'adolescenza quando un'immatura morte lo rapì ai suoi; ora egli gode felice delle gioie celesti: gli infelici genitori privati della cara luce, trascinano in gemito e in lacrime un'amara vita. Visse 15 anni, 5 mesi e 21 giorni: il 2 agosto ha reso l'anima al cielo e il corpo alla terra. Il giorno dopo, sepolto con pubblico lutto, ricevette quegli ultimi onori che, sopravvivendo, avrebbe dovuto rendere agli anziani genitori; da quelli contro la loro volontà (così come Dio volle) anzitempo e in un ordine inverso rispetto a quello di natura: correndo l'anno 1547 dalla nascita del Redentore".
Che cosa si deduce da queste epigrafi?
Innanzitutto che esse fanno riferimento a due diversi personaggi e, dunque, a due defunti che sarebbero quindi sepolti in questo luogo e ai quali la cappella funeraria - perché di questo si tratta - sarebbe dedicata. Da esse si evince un tragico fatto familiare, un lutto doppio e ravvicinato: la scomparsa di due congiunti di giovane età, due fratelli forse, nello stesso anno, a distanza di pochi giorni.
Questi accadimenti motiverebbero l'elezione del luogo quale pertinente alla famiglia, forse anche per precedente possesso. Si può aggiungere ancora che la Collegiata fu probabilmente la parrocchia della famiglia De Georgiis, il cui palazzo sorgeva (ed è tuttora) nelle immediate vicinanze della Chiesa, nel medesimo rione della Rabatana.
Nessun documento antico ce ne dà spiegazione e si potrebbe, altresì, presumere una speciale concessione da parte dei titolari della Collegiata alla data dei luttuosi eventi che risalgono, come già detto, al 1547, mentre gli affreschi sono datati 1550 dall'anonimo esecutore.
Tre anni di tempo sono sufficienti per attuare una simile concessione di allogazione delle tombe, o della loro collocazione in una cappella appositamente allestita, in locali preesistenti, successivamente alla morte dei giovani De Georgiis ed anche per ordire una committenza e un programma decorativo organico quale esso era e appare anche oggi.
I committenti si saranno in ogni caso rivolti al prevosto della Collegiata della Rabatana per ottenere l'assenso per la sepoltura o anche, nel caso in cui la tomba della famiglia non esistesse già in precedenza in loco, per la trasformazione di una parte dell'ipogeo in una cripta o cappella De Georgiis, quale risulta essere alla data del 1550. Altre iscrizioni successive attestanti una definizione uso più generale di cripta dell'intero ambiente non esistono, così come non si reperiscono attestazioni di sepoltura di altri membri della famiglia in loco.
Ciò confermerebbe l'idea di una destinazione esclusiva e speciale da connettersi con la triste straordinarietà dell'evento nonché con eventuali rapporti dei De Georgiis, quali maggiorenti e quindi sostenitori del Capitolo, con il prevosto ma anche con il vescovo dell'epoca. Costui era Berardino Elvino, nato ad Alvino in Terra di Lavoro, abbreviatore delle lettere apostoliche e tesoriere di Santa Romana Chiesa. Fu nominato vescovo di Anglona il 21 dicembre 1542 da papa Paolo III Farnese, il quale traslò la cattedra di Anglona in quella di Tursi, concedendo a quel centro la dignità di città (4).
Con la Bolla del 26 marzo 1546 Paolo III riconobbe alla Chiesa della Rabatana intitolata a Santa Maria Maggiore, la dignità di Collegiata (5), forse anche in riparazione alla privazione del titolo di cattedrale, che passava alla Chiesa della SS. Annunziata, collocata nella parte bassa della città (6).
È in questo contesto che vanno inquadrate le opere per la realizzazione del ciclo di affreschi della cappella funeraria De Georgiis: il prevosto, forte del suo recente mandato e deciso a dare impulso al rinnovamento auspicato dal vescovo nella "nuova" diocesi, non potè che accettare e promuovere un'iniziativa di carattere privato, tesa a realizzare la decorazione di ambienti sacri di pertinenza di una chiesa che, da allora in poi, si fregiava del titolo di Collegiata con temi connessi alla titolazione della Chiesa quali sono le scene della vita di Maria.
Infatti nella stessa occasione storica la Chiesa mutò anche il nome: da S. Maria dell'Icona a S. Maria Maggiore (7).
L'elevazione a Collegiata le comportò anche l'attribuzione di un suo clero.
I De Georgiis posero quindi le loro sostanze a servizio di una probabile esigenza della neonata Collegiata per realizzare il fine che stava loro a cuore: una degna sepoltura per i due rampolli della stirpe che, forse, con loro si estinse.
Che valore dare, infatti, ai termini latini di "parentum" che trascinano la vecchiaia attraverso le tenebre e in lacrime? E a quel "anicula" che soltanto sopravvive? Erano questi i genitori e addirittura una zia e gli anziani nonni giovani, in particolare una nonna (la "vecchietta") che vedono scomparire con il nipote la speranza di una posterità della famiglia De Georgiis. A questo alluderebbe l'espressione: "l'ultima discendenza della famiglia De Georgiis che è stata strappata alla vita, mentre essa era la speranza di una lunga posterità" che compare nella prima epigrafe. E ancora, nella seconda epigrafe gli "annosis parentibus" sono i genitori ai quali, una volta anziani, il giovanetto avrebbe dovuto rendere onore se non fosse morto anzitempo "in un ordine inverso rispetto a quello di natura".
In assenza di documenti che confortino l'ipotesi, ci atteniamo ai dati sulla famiglia di cui siamo a conoscenza.
Un Pietro De Georgiis risulta essere notaio a Tursi nel 1445 (8), cioè circa cento anni prima dei fatti esaminati. Nella famiglia dunque ricorre il nome Pietro, perché si chiama Pietro Antonio il più giovane dei sepolti nella cripta. Tra i De Georgiis c'era un notaio, e ciò fornisce ulteriori informazioni sullo "status" della famiglia (9).
L'altro defunto come si chiamava? Nell'iscrizione è leggibile soltanto una lettera "S" per finale di parola seguita da un'altra parola mutila di cui si legge "-NTON". Antonio è il secondo nome che accomuna i due defunti e questo elemento ci spinge a interrogarci sul loro rapporto di parentela: erano fratelli o, forse, cugini. In ogni caso, i due rampolli della stirpe.
Sulle pareti della cripta, in prossimità dell'arco che introduce all'auletta che ospita l'altare, sono rappresentati da un lato S. Antonio abate é daIl'altro San Giovanni Battista.
L'immagine di San Giovanni è collocata in stretta vicinanza con l'epigrafe, su un'insegna dipinta a mo' di pergamena sorretta da angeli, recante l'iscrizione in parte mutila. Questa figura potrebbe far riferimento al personaggio in essa citato, così come Sant'Antonio abate al secondo nome Antonio di entrambi i giovani e allora quella "S" finale sarebbe ciò che resta del nome "Ioannis" o "Johanni".
Quest'ultimo personaggio è riconducibile, in qualità di Precursore del Messia, al generale tema mariano della decorazione della cappella con episodi della vita della Vergine.
La presenza di S. Antonio abate potrebbe indicare, se non una particolare devozione cui il nome di battesimo dei ragazzi sarebbe legato, un riferimento all'ipotetica causa della loro morte quasi contemporanea in giovane età, spiegabile forse con una malattia contagiosa. Il santo, taumaturgo per eccellenza, è invocato infatti contro la peste e ogni sorta di epidemie.
Se è vero che i santi suddetti erano eponimi di questi personaggi, uguale collegamento deve esserci stato per i santi Nicola e Barbara affrescati in piccoli riquadri del sottarco interno di collegamento con l'altra aula sepolcrale, quella del Presepe.
La loro presenza un po' defilata attesta forse i nomi dei committenti dell'impresa decorativa, in un ruolo marginale rispetto a quello degli effettivi dedicatari, i cui santi eponimi sono ritratti in figure intere e sulle pareti dello stesso arco, nella stessa aula dove quelli sono sepolti.
Che Nicola e Barbara fossero i nonni o i genitori .degli sventurati ragazzi De Georgiis non è dato ancora sapere.
A proposito delle epigrafi presenti sotto forma di iscrizioni sulle pareti dell'ambiente in questione, esse sono in numero di due e ben distinte.
La trascrizione ottocentesca della prima epigrafe riporta invece il nome "Petri Antoni" (10) per essa e "Petrum Antonium" per l'altra e questo errore ha forse indotto coloro che più recentemente si sono occupati di questo ciclo di affreschi al fine di ricercarne la paternità a parlare di un'unica tomba per un solo personaggio.
Una attenta lettura dei testi epigrafici e delle loro date, nonché il confronto con quello che si legge oggi del primo e quello che potè leggere il Nigro intorno alla metà dell'Ottocento, porta alla nuova conclusione che si tratta di due sepolture di due distinti personaggi, scomparsi quasi simultaneamente.
Stabilito che i sepolti fossero due, quali e dove sono le loro sepolture nella cappella?
In essa è custodito un solo sarcofago in pietra, incassato tra la parete frontale e quella dell'arco interno, sul cui fronte è scolpito uno stemma gentilizio raffigurante un cavaliere che trafigge il drago. Si tratta proprio di S. Giorgio, un evidente riferimento alla famiglia intestataria della cappella e quindi più direttamente a chi è sepolto nel sarcofago.
Sul paliotto dell'altare posto a destra del primo arco di ingresso all'aula sepolcrale è un dipinto a fresco con una scenetta interessante: la Croce con il teschio alla base è affiancata dalla figuretta di un giovane uomo in abiti cinquecenteschi, di foggia piuttosto elegante, che brandisce un'alabarda e sembra indicare o porgere la scritta di un cartiglio srotolato che dice: "HORRIDA MORS HOC EGIT = L'orrida morte fece ciò", mentre vicino al teschio e attorno alla Croce si dipana (espressione: "MORS MEA MORTEM VESTRAM VICIT. ENIM LAET(ITIA) SPONTE DEDI ME VT VO(BI)S REDDEREM VI(TAM) - La mia morte vinse la vostra. Infatti diedi me stesso spontaneamente con letizia per restituire a voi la vita".
La figuretta maschile è rappresentata non in posa statica, ma, connotandosi come svelta e agile, sembra suggerire un movimento. È certamente (immagine di un giovane dalla corta barbetta, secondo il costume del tempo.
Barbetta, spada al fianco, alabarda, prestanza fisica, sono caratteristiche e attributi di un giovane uomo, quell'anonimo "S" "-NTON" De Georgiis, ventitreenne speranza della sua famiglia, ricco di doti, a cui la morte orribile impose un simile destino: A questa umana e del tutto terrena constatazione fa da contrappunto l'espressione più teologica del cartiglio alludente al sacrificio di Cristo mediante il quale la morte è vinta e la vita dell'uomo redenta. Un messaggio che è un monito e al tempo stesso una consolazione e la promessa della vita eterna espresso attraverso una sorta di dialogo tra un uomo e il teschio di Adamo. Infatti entrambe le figurette hanno la bocca aperta come in atto di parlare.
Era questo, già a metà del Cinquecento e secondo la volontà dei committenti, un altare, atto magari a celebrare messe in suffragio delle anime dei defunti sepolti nella cappella?
Questo sembrerebbe confermare la presenza della Croce e il messaggio salvifico cristologico, connesso al sacrificio che si compie durante la celebrazione eucaristica. Oggi, infatti, riveste funzione di altare, dotato di suppellettili e disponeva di un dipinto su tavola raffigurante l'Assunzione e l'Incoronazione della Vergine (11).
La presenza della figuretta dell'uomo, considerando sia l'interpretazione di essa quale portatrice di un messaggio sulla morte, e accettando anche quella del ritratto del giovane nobiluomo tumulato nella cappella, insieme all'aspetto e alla dimensione, porta anche ad una sua eventuale identificazione come tomba. L'altro De Georgiis, il più giovane, sarebbe stato sepolto nel sarcofago lapideo.
L'estensore del programma iconografico degli ambienti, commissionato e finanziato dai De Georgiis, andrà forse ricercato nella figura del presule che fece presto ritorno a Roma (1547), per essere sostituito dal ferrarese Giulio De Grandis, vescovo di Anglona e Tursi dal 1548 al 1560? Potè essere egli il mediatore per i contratti e l'allogazione dei lavori della cappella ad un artista di provenienza esterna al territorio? O magari tale figura potrebbe coincidere con quella del prevosto della Collegiata, purtroppo anonimo?
Prima di affrontare le complesse questioni attributive degli affreschi e del Presepe, osserviamone le composizioni e l'attuale aspetto.

L'AULA DEGLI AFFRESCHI

La piccola aula sepolcrale in cui sono sepolti i giovani De Georgiis è definita da una volta a botte ribassata che accoglie un ciclo di affreschi, distribuiti anche sugli archi nei sottarchi e sulle pareti, interamente incentrato sulla figura di Maria.
L'apparato decorativo della volta racchiude, contorna ed unisce entro un serto floreale gigliato, undici oculi.
Al centro, in un riquadro, è l'oculo dell'Eterno benedicente, che regge il globo terracqueo. Ai lati, in simmetria, sono affrescati due Sibille, tre Evangelisti (prima erano quattro) e quattro santi Dottori della Chiesa, tutti a mezza figura.
Tre profeti (originariamente quattro) sono negli spazi residui di raccordo tra gli oculi e gli archi della volta. Per simulazione pittorica quest'ultima poggia su finti capitelli che separano le pitture della volta da quelle affrescate sulla lunetta e sulle pareti dell'aula, dove prospettano scene di vita della Vergine Maria e due santi, evidentemente venerati dalla famiglia De Georgiis.
Negli spicchi simmetrici che si aprono fra gli oculi è raffigurato un ricco repertorio decorativo a grottesche, mentre strisce di pergamena si srotolano dalle mani dei personaggi ritratti, li fiancheggiano o si avvinghiano tra i serti floreali, rinviando a versetti dell'Antico e Nuovo Testamento, ma anche a passi sibillini.
La figura dell'Eterno reca, su un lato, i seguenti versetti: "VENI SPONSA MEA, VENI DILECTA MIHI = Vieni, mia promessa sposa, vieni, diletta a me", che rinviano al dialogo degli innamorati del Cantico dei Cantici ovvero, nell'interpretazione religiosa, "all'amore supremo fra Dio e la sua creatura (...) tra JHWH e Israele, tra Cristo e la Chiesa, e anche tra Dio e l'anima o tra Cristo e Maria, come si legge nei commenti rabbinici e patristici" (12). Richiamano, dunque, il mistero e il dogma di fede dell'Incarnazione del Verbo nel seno della Vergine Maria.
Anche nella tradizione umanistica - sembrano suggerire e ribadire i brani sibillini - è documentata l'attesa di un evento destinato a segnare una nuova alleanza fra Dio e gli uomini. Così quelli della Sibilla Europa: "ECCE VENIET ILLE QVI EGREDIETVR DE VTERO VIRGINIS = Ecco viene colui che sarà generato dal seno della Vergine", mentre leggibile è in parte il brano richiamato da un'altra non identificata Sibilla: "(EC)CE VENIET DIVES: ET A [...] PAVPERCVLA: ET BESTIATE [...] ".
Persa ormai la figura dell'evangelista Luca, è riconoscibile, invece, quella di Giovanni per il simbolo dell'aquila che lo caratterizza, residuando nelle strisce di pergamena solo parte delle lettere iniziali e finali: "MANE [...] MES".
Degli altri due evangelisti risultano integre ancora la figura di San Marco, che srotola l'avvio del versetto evangelico 3, 32 "ECCE MATER TVA ET FRATRES TVI = Ecco tua madre ed i tuoi fratelli" e riporta quanto detto dalla folla a Gesù (13) rinviando alla risposta del Messia: "Chiunque fa la volontà di Dio, egli è mio fratello, mia madre e mia sorella" (Marco 3, 35), e la figura di San Matteo che propone la parte iniziale del versetto evangelico 1, 23: "ECCE VIRGO IN UTERO HABEBIT: ET PARIET FILIVM = Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio (14).
Nei due medaglioni racchiusi e contornati dal serto floreale gigliato prospettano, sul versante della parete dove è l'altare con il paliotto affrescato, i santi dottori della chiesa, Gregorio Magno e Girolamo, ritratti a mezzo busto nei rispettivi studioli.
L'immagine di Gregorio I, in parte integra, si riconosce per la tiara che ne ricopre il capo e gli abiti pontifici, per la colomba che irradia raggi divini e per la reliquia della dalmatica di S. Giovanni evangelista da cui il santo pontefice, raccolto in preghiera, fece sgorgare un fiotto di sangue per testimoniarne il prezioso valore ai principi increduli ai quali l'aveva donata (15). Poggiano sullo scrittoio, infatti, i pezzi di stoffa della reliquia accanto ad una forbice e ad uno stilo.
L'iscrizione "S. IERONIMVS DOCTOR" (che spicca sul serto fiorato) identifica l'altra figura del santo dottore della Chiesa ritratta nel contiguo oculo.
È presentato, secondo l'iconografia rinascimentale di cultura umanistica (16), in vesti cardinalizie, in compagnia del leone domato, attributo che lo caratterizza, allo scrittoio dove è un piccolo Crocifisso con Gesù sulla croce. Ha tra le mani una penna d'oca ed un calamaio e sembra indicare quanto da poco vergato sul libro aperto: "NON EXCLVDITVR: MVLIEBRIS SEXVS A SA [...] DE(?) [...] ARIAM VIRGINI".
Altre frammentarie espressioni su cartiglio ne fiancheggiano la figura: "CUM P(H)INE QVAD MEI [...]M[...]TTERAT ANGELO[ ...] M ET PRAECE ESTI NVN [...] TVN[...] INGE(N)ERI POTVIT QVI HABETVR IN LOC[ ...] ".
Nel tratto di volta sovrastante l'arco interno che introduce all'aula in cui è il Presepe in pietra, sono raffigurati i santi dottori della Chiesa, Ambrogio e Agostino. Al di sopra degli oculi che li contengono è dipinta l'iscrizione epigrafica riferita a Pietro Antonio De Georgiis.
Del santo vescovo di Milano (17), che ebbe come discepolo S. Agostino, risulta trascritto, al lato dell'effigie, il brano di uno dei suoi scritti sull'esaltazione della verginità, che tanto contribuirono al diffondersi del culto mariano in Italia. Così, infatti, si legge: "DISCE VIRGINEM MORIBVSQV(E)LA[...] INPENETRALIBVS QVAM NEMO VIRORVM VIDERET SOLVS ANGELUS REPERIRET".
Il vescovo di Milano addita, con l'indice della mano, il proprio nome e l'anno di esecuzione degli affreschi che compaiono a fianco del suo ritratto: "S. AMBROSIVS/ DOCTOR/ AD: 1550".
L'altra grande figura dei Padri della Chiesa, Agostino (18), guarda ancora verso S. Ambrogio, poiché egli ritornò alla fede per opera del vescovo milanese.
Anche del vescovo della diocesi di Ippona, genio teologico dell'Occidente cristiano e dottore della Chiesa, risulta trascritto, al lato del ritratto, il brano di una sua opera: "IPSE IN TVO EST CORDE: IN TVO FIT: VTERQ(VE?) ADIMPLET MENTEM = Egli stesso è nel tuo cuore. Lo sia nel tuo. Ispiri la mente di entrambi", mentre all'interno dell'oculo scorre l'iscrizione "S. AVGVSTIN/VS DOCTOR".
Negli spazi laterali residui della volta che prospettano sulla parete dove è l'altare con il paliotto affrescato, campeggia la figura del re Davide che suona la viola. È contornata da strisce di pergamena riportanti il brano del Salmo 44 (45), 10-11, che srotola anche tra il serto floreale gigliato. I versetti celebrano le nozze del re "figlio di Dio", interpretati nella tradizione cristiana come riferiti a Gesù Cristo, il quale è veramente "Dio" e il cui regno dura "per sempre" (19).
Così l'iscrizione: "ASTITIT REGINA A DEXTRIS TVIS IN VESTITV DE AVRATO. AVDI FILIA ET VIDE ET INCLINA AVREM TVAM = Alla tua destra è la regina in ori di Ofir. Ascolta figlia e guarda e porgi l'orecchio", accreditata a "DAVID PROPHETA".
Risulta ormai persa, sull'altro versante della volta, la figura di un altro profeta, purtroppo per la scomparsa della superficie originariamente affrescata a seguito di interventi di ristrutturazione che a più riprese hanno interessato, nel tempo, l'aula sepolcrale.
A noi preme segnalare, per inciso, come l'apertura di una piccola finestra sulla parete a cui è addossato il sarcofago in pietra, continui a causare problemi di perdita del colore originario e delle figure affrescate per le variazioni di temperatura a cui la piccola aula è in tal modo sottoposta.
Sul lato della volta che prospetta sulla parete in cui è l'arco che dà accesso all'aula del Presepe sono dipinti, nei residui spazi laterali, i profeti Isaia ed Ezechiele.
Alla figura del profeta Isaia (ESAIA PROPHETA) fa da sfondo il versetto 7, 14 che si riferisce al segno dato dal Signore per testimoniare la vicinanza divina al suo popolo. Così l'annuncio riportato: "ECCE: VIRGO CONCIPIET: ET PARIET FILIVM: ET VOCABIT(VR) NOMEN EIVS EMMANVEL = Ecco, la giovane donna concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emanuele" (20).
Sotto l'oculo in cui è raffigurato San Giovanni evangelista compare il profeta Ezechiele.
L'incipit del versetto 44, 2 scorre sul lato e tra il serto floreale gigliato, riportando la disposizione per il culto data al profeta Ezechiele dall'Angelo del Signore: "PORTA HAEC CLAVSA ERIT: NON APERIETVR ET VIR NON TRANSIBIT PER EAM = Questa porta resterà chiusa; non deve restare aperta e nessun uomo vi dovrà passare", mentre l'iscrizione sul serto floreale individua "EZECHIEL PROPHETA".
È evidente come l'immagine della porta si riferisca alla verginità di Maria, secondo i dogmi del culto mariano (21).
Sul lato della parete dove è collocato l'altare con il paliotto risulta affrescato l'episodio dell'incontro di Anna con Gioacchino, ritornato dal deserto dove si era ritirato dopo la cacciata dal Tempio.
Sullo sfondo della scena affrescata è l'annuncio dell'Angelo a Gioacchino che pascola il gregge nel deserto mentre, in primo piano, Anna e lo sposo si abbracciano nei pressi della porta della città di Gerusalemme, attorniati da ancelle e servienti, i quali recano sulle spalle e tra le braccia offerte sacrificali per rendere grazie al Signore.
La scena rinvia ad episodi narrati nel Protovangelo di Giacomo, nel Vangelo dello Pseudo Matteo e - nel Libro della Natività di Maria (22), filtrati nella Leggenda aurea del beato domenicano Jacopo da Varagine, ampiamente divulgata nella seconda metà del XV secolo. Introduce al tema della Natività e della figliolanza quale grazia concessa da Dio nel suo imperscrutabile disegno. Infatti la scena è adiacente, mediante finte lesene e un mensolone a candelabre che tenta di mascherare l'irregolare suddivisione degli spazi con una finta imposta d'arco, all'episodio raffigurante la Natività di Maria.
Questo è affrescato nella parete interna dell'arco che si staglia centrale nell'aula, sotto la volta tirata ad arazzo.
Come dichiarato nell'iscrizione raffigura la "NATIVITAS MARIAE VIRGINIS HISTORIA SECVNDA - l'a Natività, di Maria secondo tradizione popolare".
Su un lato Sant'Anna, ancora affranta dal parto, giace su un letto in legno. Le sono a fianco quattro fanciulle: una le porge del cibo, forse colombi, in un piatto e del vino rosato in un bicchiere; un'altra aiuta una compagna che, di spalle e ricurva, sta per scaricare una cesta dal suo capo; un'altra ancora è ai piedi di Anna sulla sponda del letto. Altre tre ancelle, di cui una di colore, sono disposte sull'altro versante della scena: una srotola una stoffa rosso porpora, quella di colore solleva un telo di lino, l'altra stringe sul petto la piccola Maria completamente avvolta nelle fasce, mentre con la mano rimasta libera, versa dell'acqua in un bacile di creta, a cui fa da riscontro scenografico un recipiente metallico lavorato a tortiglione colino di braci fumanti.
Sullo sfondo di questa scena domestica, che si svolge in una casa definita da un muro e da un soffitto ribassato, si delineano le mura merlate di altre case e poi montagne frastagliate, colline e il mare in lontananza. In primo piano sono sul pavimento della stanza, in un angolo, il gatto che inarca la schiena alla vista di un topo, un fuso attorno al quale si arrotola del filo bianco e una conocchia; nell'angolo opposto sono le forbici grandi abbandonate per terra, dettagli casalinghi che conferiscono alla scena il sapido e verace tocco della quotidianità popolare.
Nell'intradosso dell'arco d'ingresso all'aula sepolcrale, in un piccolo riquadro, è la Presentazione di Maria al Tempio. Gli anziani genitori, Gioacchino e Anna, seguiti da due ancelle, sono raffigurati su un lato dei gradini sui quali la piccola Maria sale, girandosi di scatto a salutare, prima di accedere al "TEMPLVM" dove il Gran Sacerdote l'attende sulla porta.
Sul sottarco affrontato è affrescato lo Sposalizio di Giuseppe e Maria. L'episodio riecheggia i contenuti del Libro della Natività di Maria (23).
Su un lato della parete che include l'arco di accesso all'aula del Presepe, è un affresco frammentario raffigurante l'Annunciazione. All'interno di una stanza definita da una colonna, dal pavimento e da un paesaggio aperto, l'Arcangelo Gabriele reca l'annuncio della nascita di Gesù alla "piena di grazia", in preghiera innanzi a un libro delle Sacre Scritture posato sull'inginocchiatoio. Alla pronuncia del sì di Maria si aprono i cieli e l'Eterno s'invola tra le nubi recando il globo e la Croce, mentre lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, aleggia presso il volto di Maria (ormai invisibile) irradiando i suoi raggi divini.
Sulla parete che prospetta di fronte, quella dell'altare con il paliotto affrescato, è invece l'ampio frammento raffigurante la Visita di Maria ad Elisabetta (24). Su un lato si riconoscono le figure di Zaccaria e di due ancelle. L'anziano sposo di Elisabetta veste sontuosi abiti rinascimentali e ha gli occhi bassi in segno di contrizione; è muto per aver dubitato della nascita di S. Giovanni Battista all'annunzio dell'Arcangelo (Luca, 1, 5-23). Si succedono in primo piano altre tre maestose figure femminili tra cui sono riconoscibili, per il loro saluto affettuoso, Maria ed Elisabetta nel cui grembo sussulta il Precursore.
"S. IOANNES BAPTISTA" appare affrescato sul piedritto interno dell'arco d'ingresso. Ha capelli biondi, in parte intrecciati e annodati, barba bionda e fluente, che sembra bruciata dai riverberi del sole nel deserto così come la pelle di cammello che ne riveste il corpo.
La sua figura si staglia statuaria, parzialmente ricoperta da un mantello rosso; con una mano regge sul grembo il salterio su cui poggia mite l'Agnello e la Croce a cui si attorciglia l'incipit del versetto 1, 29 del Vangelo di Giovanni: "ECCE AGNVS DEI = Ecco l'Agnello di Dio" che continua così: "che toglie il peccato del mondo" (25), avendo il Battista testimoniato la divinità del Verbo e la missione di Gesù.
Sull'altro piedritto interno dell'arco d'ingresso all'aula sepolcrale sembra fuoriesca di parete e giganteggi la figura di S. Antonio abate (26).
Il patriarca del monachesimo ha tra le mani una gruccia a forma di T, insegna dell'Ordine ospedaliero degli Antoniani in Occidente, una campanella ed una fiamma, simboli tradizionali che lo identificano e ne designano i poteri taumaturgici.
La sua figura è avvolta da un mantello nero su tunica bianca, come fu per la prima volta rappresentato negli affreschi databili fra i secoli XII e XIII della chiesa del Santo Sepolcro a Barletta. La presenza della sua effigie, all'interno degli affreschi dell'aula sepolcrale della famiglia De Giorgiis, potrebbe riferirsi ai nomi dei due giovani rampolli colà sepolti, alla malattia che potrebbe averli condotti entrambi alla tomba nel breve volgere di pochi giorni "labente anno 1547", oppure all'appartenenza di membri della famiglia De Georgiis all'Ordine degli Antoniani che pure annovera una storia secolare in Italia, nel Mezzogiorno e anche in Basilicata (27).
Nell'imbotte dell'arco interno che dà accesso all'aula del Presepe sono stati affrescati in piccoli riquadri su un lato "S. BARBARA" con la torre a tre finestre, da lei volute in onore della SS. Trinità (28), sul lato prospiciente la piccola effigie di "S. NICOLAVS", il vescovo di Mira (29), le cui ossa vennero traslate a Bari.
Per concludere la descrizione di quanto è nella piccola aula sepolcrale occorre precisare che essa ospita attualmente, sotto l'angusta parete dove è una piccola finestra, addossato ad uno spazio incavato, un sarcofago coperto da lastre di chiusura in pietra modanata a doppia goletta e dentino, poggiante su quattro basi con intaglio tipicamente rinascimentale. Il prospetto del sarcofago è suddiviso in tre parti. Le due estremità in pietra liscia, maldestramente bocciardata, fiancheggiano una formella occupante la parte centrale della lastra. Vi è incisa un'arma nobiliare contornata da un serto vegetale.
Il santo guerriero della Cappadocia, che additò ai regnanti della città di Silene la strada della conversione, dopo averne salvato la principessa (30), risulta raffigurato al centro dello stemma mentre sopraggiunge sul cavallo, trafiggendo con l'asta il drago sottostante.
Evidentemente lo stemma designa il sepolcro come appartenente alla famiglia De Georgiis alludendo, tramite un'iconografia immediatamente riconoscibile, al nome della stessa, della quale non conosciamo l'entità del lignaggio se non attraverso il "De" che lo precede.
L'arma di famiglia potrebbe segnalare anche ulteriori elementi per una più puntuale individuazione del ruolo dei De Georgiis, i cui membri avrebbero potuto appartenere ad un Ordine religioso militare di San Giorgio (31) per potersi fregiare del suo stemma.
È possibile supporre, dunque, che il loro lignaggio sia da inquadrare all'interno di un Ordine riconosciuto dalla Chiesa per la difesa del proprio territorio dalle ricorrenti invasioni turche o nella gestione di beni ecclesiastici affidati in commenda, con il beneplacito dei vescovi di Anglona e Tursi (32).
I riferimenti epigrafici all'attività di domatore di cavalli circa il giovane defunto Giovanni Antonio De Georgiis, avvalorano d'altra parte tale supposizione, così come alcune espressioni di compianto riferite all'adolescente Pietro Antonio De Georgiis, la cui vita spezzata era "sovrana speranza [...] della patria".
Quanto allo spazio in cui il sarcofago è stato collocato, ci preme far notare come esso risulti talmente addossato alla parte della parete dell'arco interno da aver reso impossibile l'esecuzione degli affreschi del 1550, se fosse stato già lì. Da ciò la nostra convinzione che il sarcofago vi abbia trovato posto soltanto successivamente, rovinando, tra l'altro, gli affreschi eseguiti sul versante di quella parete e su quella retrostante. Tuttavia la presenza di rilievi solo sulla faccia anteriore del sarcofago fa dedurre una collocazione originaria in cui era comunque addossato alle pareti e fosse visibile solo la parte citata.

L'AULA DEL PRESEPE

Il Presepe è un'altra opera poco indagata e tuttavia merita la nostra attenzione sia per la sua specificità che per la sua appartenenza al ciclo decorativo più vasto che investe gli ambienti della cripta di S. Maria Maggiore a Tursi.
Infatti esso si configura come un'ideale e logica conclusione delle Storie di Maria scandite sotto forma di affreschi sulle pareti: la nascita del Figlio, del Salvatore, non poteva mancare nel racconto degli accadimenti sacri della vita di Maria.
La Natività viene, anzi, sottolineata e assume la sua precipua dignità essendo presente sotto le spoglie di opera scultorea e perciò differente dal resto, ben evidenziata rispetto alle altre Storie, dipinte sui muri, e completa il ciclo delle vicende mariane insieme alla scena dell'Assunzione e Incoronazione della Vergine, rappresentate sulla tavola che sovrasta l'altare della cappella De Georgiis.
Il Presepe è un complesso realizzato in pietra. Include trentacinque figurette rese in pose plastiche disparate e la scena appare puntualmente desunta da una commistione di elementi e notizie tratti dai Vangeli canonici e dalla tradizione più popolare degli apocrifi.
E' collocato nell'aula attigua a quella degli affreschi, anch'essa definita da una volta a botte, e addossato a mezza altezza della parete frontale.
Sul limitare di una sorta di china muraria a due livelli, una cavità contornata da un arco dalle pietre sporgenti definisce, secondo antica tradizione, la grotta di Betlemme.
Altri due archi, posti ai lati della grotta, apprestano ulteriori strutture architettoniche. Ormai scomparso quanto era all'interno dell'arco posto nella scena a destra, solo una piccola lucertola è rimasta scolpita nei pressi, sulla parete del burrone. L'ambiente racchiuso nell'arco di sinistra individua invece un edificio articolato in tre registri mediante due cordoli in terracotta. Nell'inferiore è il basamento a scarpa, in cui è un arco a tutto sesto in pietra, chiuso come a simulare una porticina. Al di sopra è un'altra apertura, strombata, dalla cornice in pietra come l'altra più piccola e a tutto sesto che la sovrasta. Più in ombra è una piccola finestrella e la parete muraria termina con un tetto di cui è visibile solo una parte. Questa struttura architettonica ha tutte le sembianze di una torre campanaria e, suggestivamente, potrebbe rappresentare il campanile della chiesa al cui interno è il Presepe. In tal caso si tratterebbe di un interessante tentativo di contestualizzazione della tradizionale Scena Sacra nel paesaggio tursitano.
Nella parte centrale sovrastante la grotta, un rialzo in pietra fa da base al castello di Erode, definito da quattro torri laterali, tutte merlate, e da mura alte e possenti. Sul piano inclinato a sinistra si abbarbica quanto rimasto di una lunga cinta muraria sorretta da dodici archi.
Sull'estremità di quel piano si erge un manufatto che ha le sembianze di un grande arco trionfale definito da una trabeazione, con fornice d'ingresso, sul cui ordine superiore si aprono due finestrelle inframezzate da uno stemma, due feritoie laterali, archetti sovrastanti e cornicione merlato. Tra i merli si intravede la figurina di una testina a rilievo che sembra guardare la scena sottostante.
Sullo scenario che sovrasta la grotta della Natività compaiono a piccoli gruppi le sculture, tra cui un cagnolino nero con il collare protettivo. Ringhia verso il gregge che procede in ordine sparso, composto da quattro arieti e da due pecore, di cui una allatta un agnellino, mentre un lupo ne stringe tra le fauci un altro. Il pastore ne salva, invece, un terzo recandolo sulle spalle, mentre un altro pastore porta una bisaccia. Al gregge si affianca un maialino forse sfuggito a quel giovane seduto su un ceppo d'albero intento a togliersi una spina dal piede, mentre un pastore dalla calzamaglia lacera sulle ginocchia incrocia le gambe seduto per terra a suonare la zampogna al centro della scena, arricchita da due pani a forma di ciambella posti lungo il percorso dei pastori.
Ancora sull'estrema sinistra del piano rialzato, la statuina di una donna intenta a lavare i panni in una tinozza sembra introdurre alla scena dell'arrivo dei Magi. Un loro serviente procede a piedi davanti a un cammello carico di doni, mentre i Re Magi sono su destrieri scalpitanti, ancora in viaggio lungo un paesaggio roccioso.
All'interno della grotta di Betlemme sono su un rialzo il bue che scodinzola l'asinello che drizza le orecchie e la mangiatoia posta su un blocco lapideo. Sul piano avanzato della grotta, a destra, Maria è in ginocchio e a mani giunte, velo bianco sul capo, tunica ricoperta da un ampio manto trattenuto sul petto da una spilla.
Giuseppe è a sinistra, volto scarno dagli zigomi sporgenti, capigliatura leggermente stempiata e brizzolata, barba fitta e ben curata. Ha le mani incrociate sul petto e flette il ginocchio sinistro, lo sguardo assorto.
Entrambi sono in preghiera e in adorazione ai lati della culla del Bambino Gesù, la cui scultura originaria, involatasi nel corso del Seicento, venne sostituita nel 1700 (33).
Particolare interesse simbolico riveste la pietra su cui anche oggi viene adagiato il Bambino Gesù nella ricorrenza del Natale. Il giaciglio del Bambino è costituito da due pezzi lapidei: uno è sagomato in forma di cuscino con quattro nappine agli angoli e si sovrappone all'altra pietra bombata incisa a forma di mandorla da cui irradiano i raggi della luce solare che avvolse la grotta (34), visitata e allietata dalla moltitudine celeste degli angeli. Questa mandorla raggiata potrebbe essere interpretata, altresì, come riferimento all'apparizione della stella cometa sulla grotta che, peraltro, accoglie Cristo, luce del mondo.
I sei angeli musici, scolpiti nel Presepe di Tursi, ne testimoniano la gioiosa presenza, mentre uno dei tre cherubini in legno dorato, che ancora coronano l'arco della grotta, invita ad intonare il "GLORIA IN EXCELSIS DEO" (35) che compare sul cartiglio come nell'avvio del versetto evangelico di Luca (2, 14).
Nell'ordine compaiono alla sinistra di Giuseppe, un angelo che suona il tamburello a sonagli, un altro dotato di un salterio a trapezio e mutilo di un braccio. Alla destra del santo, un terzo angelo è privo del braccio e dello strumento che sorreggeva mentre l'altra mano è rimasta in atto di suonare.
Ai lati di Maria, ci sono due figure angeliche: una pizzica le corde di una viola da mano ma ha perduto l'altro braccio e una parte dello strumento musicale; l'altra è intenta a suonare il "tambourin de Gascogne" con la destra ma appare mutilo della sinistra e guasta nel volto in corrispondenza delle labbra. Il terzo angelo al fianco di Maria appare del tutto privo di strumenti perché mutilo delle braccia.
Accostando il nostro Presepe all'altro più celebre materano notiamo che le figure degli angeli musici sono le stesse per numero e attributi: infatti laddove mancano, nel nostro caso gli strumenti è a causa dello mutilazioni subite dalle statue che si presentano in numero uguale alle materane. Pertanto si desume che gli angeli deprivati suonavano uno il "tambourin de Gascogne" insieme al flauto, gli altri la viola da braccio e la gironda, ottenendo in tal modo la ricostruzione dell'aspetto originario del concerto angelico.
Riguardo alla paternità del Presepe si può osservare che non si tratta di un'opera originale del tutto, infatti esso mostra chiaramente la sua derivazione dalla matrice materana del Presepe del Duomo di Altobello Persio e Sannazzaro d'Alessano. Identiche caratteristiche formali presentano le statuine, esemplate nei loro dettagli sulle materane. A queste corrispondono nelle vesti e nelle acconciature della Madonna e degli angeli, nei volti di Maria e Giuseppe e nelle pose delle figure ma con alcune varianti più caratterizzanti, quali possono essere la figuretta del pastorello intento ad osservarsi il piede, una citazione, in linguaggio popolaresco, dello "Spinario" della tradizione scultorea ellenistica mediata dalla cultura rinascimentale. Oppure la lavandaia, tutta intenta al suo mestiere, che gli fa da contrappunto dall'altro lato, dove si apre la sfilata dei Magi, uno dei quali è un giovane e aitante re imberbe. I particolari del pane campagnolo a iambella, nutrimento dei pastori, degli animali del gregge, anche in questo caso resi dettagliatamente nell'aspetto esteriore che li contraddistingue, sono notazioni di un quotidiano visto e vissuto. A questi si aggiungono i cammelli, uno, al seguito dei Magi, in forma di statuina recante un forziere, l'altro, dettaglio minuzioso, dipinto sullo sfondo del vano che accoglie il Presepe.
Si possono operare confronti e cercarne i rapporti di somiglianze con altri presepi di chiese del territorio pugliese risalenti allo stesso volgere di anni del XVI secolo.
Come gli altri è realizzato in pietra, materiale più resistente della terracotta, dello stucco e del legno utilizzati in manufatti di altre aree, per cui risulta pesante ed inamovibile. Insieme a pochi altri esemplari testimonia l'esistenza di un numero maggiore di presepi siffatti della stessa epoca. Si trattava di opere complesse e articolate che richiedevano l'intervento di più mani.
Il legame più evidente si stabilisce con il Presepe della cattedrale materana di cui il nostro appare una filiazione diretta. E, considerate le date, 1534 (anno riportato dall'atto notarile concernente il primo) e l'attività immediatamente successiva, degli ultimi anni trenta e poi dei quaranta del secolo di Altobello Persio a Matera e altrove, la ricorrente collaborazione con il più misterioso Sannazzaro di Alessano, cofirmatario dello stesso atto, e l'esistenza di una pratica ricorrente del soggetto artistico in questione da parte dei Persio, si può tranquillamente inserire in questo ambito artistico l'autore del Presepe tursitano (36). Esso non appare poi tanto modesto per qualità e fattura, pur essendo una sorta di replica del più noto modello, anzi è vistosamente caratterizzato con particolari interpretabili come riferimenti alla sede di destinazione e accoglienza per la quale fu concepito: la struttura architettonica nella grotta di destra può non essere anonima ma un'allusione al luogo dove si trova il Presepe stesso, la chiesa della Rabatana, con la muratura a scarpa, la torre campanaria sovrastante e l'arco della cripta dove è situata la cappella De Georgiis.
Così come il castello di Erode è stato interpretato come una rappresentazione, nel Presepe materano, del castello Tramontano (37), nel nostro caso potrebbe assumere l'aspetto del maniero di Tursi, oggi scomparso. Può essere un elemento rilevante ai fini di tale lettura la presenza, nell'impresa antica di Tursi, di una alta torre merlata a tre piani con cordolo e basamento a scarpa nel cui registro inferiore si apre una porta con arco a tutto sesto. Inoltre il castello del Presepe sovrasta la grotta e la scena tutta da un'altura apparentemente in rozzo cemento. Sappiamo però che il castello di Tursi sorgeva nel centro storico che era costruito su un forte pendio intorno ad un'enorme roccia tufacea, la "Timpa" (38), che forse l'artefice cercò di riprodurre in tal modo. La Collegiata di Santa Maria Maggiore era prossima al castello oggi diruto, così come al palazzo dei De Georgiis. I due Presepi vanno considerati quali opere affini tra loro, ma certamente non seriali, perché entrambe in qualche modo contestualizzate.
Pertanto, piuttosto che assegnarne la paternità ad un artefice locale o ad un epigono meno valente dei maestri, si può ipotizzare un rapporto diretto con gli esecutori dell'opera materana, da quel che sappiamo piuttosto attivi e perciò itineranti, e ugualmente immaginare che esistesse un collegamento degli stessi con gli autori della decorazione a fresco delle pareti.
Infatti un altro elemento comune alle due opere presepiali è la loro appartenenza ad ambienti affrescati con rappresentazioni di tematiche identiche, secondo concezioni affini: anche la volta della cappella nel transetto sinistro della Cattedrale di Matera accoglie busti di Profeti e Sibille con cartigli entro clipei inseriti in una decorazione di stampo rinascimentale a grottesche, in cui prevalgono i colori dell'oro, il nero e il rosso. Qui è assente il serto floreale e vegetale di contorno agli stessi personaggi nella cappella tursitana dove comunque compare un vero apparato di grottesche su fondo oro.
La cappella De Georgiis inoltre è una cappella funeraria; sarebbe pertanto insolita la presenza del tema della Natività di Cristo, ma risulta spiegabile con la sua appartenenza alle Storie di Maria.
Il Presepe compare in separata sede rispetto al contesto degli affreschi suddetti e al sito, per lo meno attuale, delle tombe, ma comunque negli stessi ambienti. Forse ne è il coronamento né si può credere che ebbe all'inizio una diversa destinazione e collocazione, magari al piano superiore della chiesa, come gli altri presepi a cui si apparenta, considerato il suo peso e la relazione tematica con le iconografie dei citati ambienti dipinti.
Quindi un contratto di allogazione delle opere potè forse comprendere lo stesso Presepe, che è da intendere come parte del ciclo decorativo voluto dalla famiglia De Georgiis, accettato da questa chiesa a Tursi, diocesi suffraganea di Acerenza e Matera, e concepito, il Presepe medesimo, "a simiglianza" del materano, così come quello lo era del perduto Presepe di Cerignola (39).
Quanto all'autore, confronti formali e di datazioni ci portano ad Altobello, a Sannazzaro, ed alla loro cerchia, più che ad un modesto imitatore locale (cos'altro costui avrebbe poi fatto?). Una sibillina scritta al vertice dell'opera, sulla rupe del castello, che dice "D.V T. SAVE./ P", potrebbe costituire un ulteriore indizio.
Altro elemento intrigante è il rapporto esistente tra artefici diversi, pittori e scultori, che accettano committenze e operano insieme e in immediata successione negli stessi luoghi: è innegabile il rapporto esistente tra le decorazioni murali e il Presepe e quindi tra i loro autori.
Gli affreschi della volta del lato sinistro del transetto della cattedrale di Matera sono stati recentemente attribuiti a Giovanni Todisco (40) e lo stesso si può fare per quelli della Cappella De Georgiis a Tursi. Infatti, i toni della decorazione sentitamente annotati e tradotti nel linguaggio popolare, le citazioni della cultura figurativa umbra e soprattutto la vicinanza ai modelli stilistici di Simone da Firenze a Senise - vedi i Profeti con i filateri svolazzanti - evocano la sua personalità artistica.
Affinità stilistiche si riscontrano tra i cicli pittorici di Matera e di Tursi nella resa delle braccia, esageratamente lunghe rispetto al corpo come le mani talvolta veramente poco aggraziate quando suonano uno strumento, indicano, reggono colombe, ammoniscono.
Il dato storico di riferimento, inoppugnabile, è la presenza del pittore, quantomeno nel 1545, quando ne data gli affreschi, nel monastero di S. Maria d'Orsoleo, che è poco distante da Tursi, le cui pitture portano la data 1550, legata alla morte dei dedicatari nel 1547. Questa è solo la conferma ad una ridda di elementi stilistici indiziari: la fisiognomica dei Profeti e degli Evangelisti della volta, gli occhi, i cui sguardi accompagnano le leggere inclinazioni delle teste, la resa delle barbe e dei capelli in ciocche e riccioli sfuggenti; le mani, quelle mani lunghe dalle movenze contorte che accentuano la sproporzione degli arti, delle gambe ma soprattutto delle braccia, sproporzione che si ripercuote sulla figura tutta che sta come compressa nel clipeo dove sembra dover restare per forza, frutto della insicurezza del pittore nell'uso della prospettiva che troviamo in altre opere a lui attribuite, prima fra tutte le "Storie della Vergine con i Profeti" nel Santuario di Monteforte ad Abriola (41).
La ricchezza decorativa dell'apparato composito che ricopre la superficie della volta, includendo fitti elementi floreali, geometrici, candelabre, finte modanature degli oculi, cartigli fin troppo articolati e figure al limite degli spazi che le contengono, sembra riflettere una sorta di "horror vacui" dell'autore, caratteristica che lo spinge a riempire anche le scene della Vita di Maria con numerosi e minuziosi dettagli, che sono gli ornamenti dei personaggi e gli utensili, estranei all'iconografia corrente delle scene rappresentate. Concorrono all'identificazione come responsabile degli affreschi tursitani la sua feconda vena narrativa che si esprime appunto attraverso l'affollamento delle scene e degli spazi disponibili con personaggi protagonisti e comprimari, comparse e dettagli di ogni genere e una tendenza all'eccesso decorativistico, che qui fa sì che venga ricoperto ogni centimetro della volta con un serto floreale foltissimo e variopinto, lo svolazzare di cartigli completamente inscritti e la citazione puntuale di ogni dettaglio e attributo che identifichi precisamente il personaggio raffigurato, Santo, Dottore, Evangelista, Profeta o Sibilla che sia. Capitelli, paraste, piedistalli, trabeazione delle finte architetture dipinte nella cappella costituiscono prestiti figurativi della cultura rinascimentale "alta", così come le candelabre.
L'artista, pur aderendo a questa cultura corrente nell'uso contestuale di elementi classici, esercita la sua creatività mediante la rappresentazione della ghirlanda fiorita che assume la funzione di armatura della volta e denuncia anche la sua lontana matrice tardo gotica. Allo stesso modo, sbriglia la fantasia e la sua vena popolaresca quando infittisce lo spazio disponibile di decorazioni rinunciando ai caratteri più classici dell'ordine e dell'armonia.
L'uso del repertorio decorativo rinascimentale negli elementi delle candelabre sulla volta e delle cornici a bugne, che qui compaiono sotto i busti di S. Barbara e S. Nicola, sono un'altra nota distintiva del Todisco, che adopera queste ultime anche ad Anzi, nella chiesa di Santa Maria, sotto le Storie della Vergine e di Cristo (1559).
Poi la grande passione per la rappresentazione della vita quotidiana, campestre e pastorale ma anche domestica, nelle sapide scene della Nascita di Maria che racconta per dettagli il parto in casa alla presenza di comari e levatrici, con l'offerta del vino e del piccione che "fanno latte" alla puerpera attempata, sotto il cui letto giacciono, appunto, fuso e conocchia, accanto al gatto e al topo. Nella stessa scena, il pittore rende un po' goffamente, ma quanto realisticamente, il passo incerto della donna col cesto - e il cercine - sul capo, subito aiutata da un'altra a scaricare il peso. Una più sicura figura di levatrice prepara il bagnetto alla piccola Maria, una serva fa asciugare un telo davanti al braciere fumante e un'altra arrotola le fasce. A terra le forbici appena utilizzate. Gli abiti di tutti i personaggi sono i ricchi costumi dell'epoca, dedotti dalle stampe ma anche attagliati all'usanza locale, con un'attenzione speciale, altro tratto distintivo del pittore, ai particolari degli orli, dei bottoni, dei pizzi, dei gioielli, così come dei riccioli e delle rughe e rughette che sottolineano la gravità caratteriale dei vecchi Profeti, dei Dottori e di Antonio abate.
Riccioli e pieghe sono resi a punta di pennello e con ampio uso di lumeggiature, le linee sono spesso contorte e spezzate, a suggerire una certa tensione espressionistica e ad evocare la primigenia cultura tardogotica dell'artista. Questa si ritrova nei volti dei vivi ed anche dei morti di Giovanni Todisco: si guardino i teschi del "Trionfo della Morte" a S. Maria d'Orsoleo. Quanto simili a quello effigiato sul paliotto d'altare della cappella di Tursi in atto di dialogare, mediante cartiglio, con l'uomo che gli è accanto!
Anche il tema del dialogo tra morti e vivi non è una novità, dunque, per il pittore.
In straordinaria unità di intenti con l'autore del presepe tursitano si mostra ad Orsoleo Giovanni quando rappresenta l'Adorazione dei Magi, firmandosi e datandola 1545: i personaggi vestono gli abiti dell'epoca e sono così sinceramente popolari.
Si allontana dall'iconografia più solennizzante e aggiunge ancora altri dettagli del quotidiano nel Presepe in S. Maria ad Anzi, del 1559 (42), con la grotta divenuta capanna di pastori, con botticelle e caciocavalli appesi, mentre sullo sfondo pascolano le greggi e si affrontano capri e montoni, in un affollamento di animali che rimanda ai Presepi di Matera e Tursi che, a quella data appunto, aveva già visto negli stessi luoghi dove aveva lavorato. Questi ultimi particolari assumono la valenza di dettagli significativi, quasi di indizi nell'indagine attributiva: infatti la silhouette scura dei due capri che si affrontano ricorre nei dipinti murali di Anzi e di Orsoleo, come nello sfondo dipinto sul vano murario che accoglie il Presepe di Tursi, dove, come in ogni presepe tradizionale, è proseguita la simulazione del paesaggio in continuità con quella scultorea dei manufatti. La merlatura delle mura prosegue infatti dipinta sulle pareti e così altri elementi naturalistici e del Presepe, quali i monti, la vegetazione, il deserto, il cammello, ad inferire l'esistenza della collaborazione tra le due maestranze responsabili della parte scolpita e di quella dipinta, che si integrano agevolmente.
Sarà stata una prassi abituale dei due artefici accettare commissioni e lavorare insieme nello stesso luogo, a realizzare un unico progetto? L'antecedente a cui rimanda il Presepe di Tursi è quello della Cattedrale di Matera: lì Altobello Persio con Sannazzaro di Alessano sono responsabili del Presepe lapideo, sovrastato da una volta affrescata da un anonimo pittore, come si è detto precedentemente, identificato in Giovanni Todisco (43). Mancano purtroppo alcuni elementi del Presepe, il quale è addossato ad una parete che ha perduto la decorazione originaria, quasi certamente pittorica, che avrebbe ulteriormente suffragato il rapporto di somiglianza tra le due opere ma soprattutto la conoscenza del modo di operare degli artisti e dei loro eventuali rapporti. Per Altobello Persio è stato detto che era, proprio negli anni `40 del Cinquecento, impresario di una fiorente bottega che monopolizzava il mercato accettando commissioni in vari siti della Puglia (44) e segnando fortemente il territorio materano. Il Presepe di Tursi, già collocato nell'ambito della sua produzione di bottega (45), ne conferma il dato realistico e popolare ma è valido elemento di indagine sui già citati rapporti con i pittori attivi nello stesso luogo. Infatti non solo lo sfondo dell'architettura presepiale è dipinto, ma reca tracce superstiti dell'originaria dipintura anche la volta della stessa, presumibilmente celeste, notturna e stellata, come vuole la tradizione.
I viciniori di Altobello sono stati indagati soprattutto nelle figure di Sannazzaro di Alessano, suo sodale nel contratto per la realizzazione del Presepe materano, e di suo fratello Aurelio Persio. Sannazzaro, salentino, accoglie e introduce Aurelio a Castellana, dove è documentato dal 1571 al 1579, reduce dalla formazione a Palermo con Gagini e forse da un periodo romano. Aurelio era il fratello minore di Altobello Persio, suo antico socio, ora forse troppo impegnato per accettare altri lavori in Puglia. Gli anni oscuri dell'attività di Aurelio vanno dal 1544 al 1550 (46). Altri elementi documentari più probanti non sussistono per attribuire il Presepe tursitano ad una mano certa. Quello che sorprende e conforta è lo stretto nesso di somiglianze esteriori, in opere similari, realizzate nello stesso giro di anni e nello stesso territorio in cui questi personaggi erano tutti attivi: Altobello scultore, Giovanni Todisco pittore.
Un plausibile elemento di coesione tra le due équipes, oltre al precedente di aver già potuto lavorare insieme, potè essere stato il riferimento non alla diretta committenza delle opere tursitane, che fu, per quel che ne sappiamo, nel caso degli addolorati De Georgiis, unica, ma ad un collettore privilegiato dell'attività artistica dell'epoca nel territorio pugliese e lucano: i Francescani.
Essi, assai più che le personalità di alti prelati di passaggio, erano presenti a Tursi con il convento dei Minori Osservanti, ben radicati in tutta la regione e pertanto consapevoli del tessuto sociale in generale e della realtà artistica in particolare che qui era attestata nell'esistenza di alcune ben note botteghe. E proprio i Francescani erano i committenti di Giovanni Todisco per tutte le sue opere certe e per quelle che gli vengono via via attribuite, tutte eseguite e custodite nelle loro sedi sul territorio. Laddove, come ad Abriola, non è così, esiste comunque sul posto un convento degli Osservanti. Se la Collegiata di Tursi, comprendente la Cappella De Georgiis, non apparteneva ai Frati, questi erano in loco, ma soprattutto facevano lavorare il pittore nel poco distante convento di Orsoleo a Sant'Arcangelo, nel 1545 con un ciclo di argomento cristologico e Storie della vita di Francesco, oltre ai Trionfi della Morte e della Fede, e forse ancora nel 1548 nella chiesa di San Francesco a Senise. E ancora per tutti gli anni Cinquanta in Sant'Antonio a Cancellara, ad Anzi di nuovo con Scene della vita di Maria ispirate ai Vangeli apocrifi, per non parlare dei dipinti di Oppido e di Potenza, tutti eseguiti per i Francescani.
La responsabilità dei Frati circa i programmi iconografici delle opere, considerato il contesto e i fini educativi e propagandistici delle stesse, è indiscutibile: probabilmente si devono a loro anche i dettami per l'impianto compositivo degli affreschi di Tursi, così ricchi di citazioni e rimandi biblici, a meno che un pittore consapevole e informato non agisca sulla falsariga di altri modelli controllati e approvati da religiosi. Ma la sede e la destinazione d'uso delle opere sono troppo importanti per affermare una piena autonomia dell'artista.
Il Presepe così come la sua iconografia è peculiarità francescana: a partire dall'origine storica a Greccio ad opera del Fondatore dell'Ordine fino alla rappresentazione dell'Annuncio ai Pastori e della Cavalcata dei Magi in un unico contesto. Si fa risalire all'ambito, appunto, francescano abruzzese la particolarità della compresenza della scena della Natività con il corteo dei Magi, forse sulla grotta, ripresa da Stefano da Putignano nei Presepi di Polignano a Mare intorno al 1520 e poi di Grottaglie nel 1530. Da questi esemplari deriverebbe il Presepe della Cattedrale materana, del 1534, in cui Altobello Persio guarda a Stefano da Putignano nell'impaginazione delle scene per piani orizzontali (47). Inoltre, quasi tutti i presepi esistenti o di cui è attestata l'esistenza sono o erano custoditi in sedi dell'Ordine Francescano.
Per riprendere le fila del discorso attributivo, è accettabile dunque l'ipotesi di una sorta di sodalizio anche a breve termine e per occasioni scelte tra gli imprenditori di due botteghe molto attive per alcuni decenni del XVI secolo, che dovendo rispondere a diversi incarichi per i quali erano le più qualificate sul territorio, si spalleggiavano chiamandosi a vicenda. La commissione lavorativa diventava occasione d'incontro e di arricchimento per gli artefici appartenenti alle équipes. Dall'esperienza materana di un cantiere in cui lavoravano pittori e scultori potè derivare quella di Tursi e il trait-d'únion potè essere proprio Giovanni Todisco, forte dei suoi collaudati rapporti con i Frati Minori e in contatto con l'altrettanto vivace e prodigo Altobello Persio.
Si può pensare che, a distanza di alcuni anni, gli stessi personaggi replichino, adattandole al caso, le opere della Cattedrale materana a Tursi, col benestare del prevosto e con i finanziamenti dei De Georgiis.

Note
1 R. BRUNO, La Rabatana. Antico borgo di Tursi, Grafidea, Policoro, 2001, p. 7. Le comunicazioni orali sono dovute alla cortesia del geom. Rocco Campese di Tursi.
2 A. NIGRO, Memoria topografica istorica della città di Tursi e sull'antica Pandosia di Eraclea oggi Anglona, Tipografia di Raffaele Miranda, Napoli 1851, p. 26.
3 Ivi, pp. 16-18.
4 Ivi, pp. 19, 28, 66, 70, 148-149. Cfr., inoltre, G. STIGLIANO, La diocesi di Anglona e Tursi attraverso le Relationes ad Limina Apostolorum, Amministrazione Provinciale - Matera. Quaderni della Biblioteca Provinciale di Matera, n. 5, Bmg, Matera 1989, pp. 21-31.
5 R. BRUNO, Storia di Tursi, Romeo Porfidio editore, Moliterno, 1989, p. 55
6 R. BRUNO, La Rabatana .... cit., p. 34 e nota 31.
7 R. BRUNO, La Cattedrale della SS. Annunziata. Note storiche e artistiche, Grafidea, Policoro 2000, p. 12.
8 R. BRUNO, Storia di Tursi, cit., p. 308.
9 G. GATTINI, Note storiche sulla città di Matera, Napoli 1882. Ristampa anastatica BMG, Matera 1977, p. 280. Il conte materano nello stilare una memoria sulla nobile famiglia Brancato cita, tra i capitoli matrimoniali riguardanti il nobiluomo Mario Giovanni Brancati di Matera e la nobildonna Gerolima di Donato Gattini, quelli del Not. Tom. De Georgiis di Taranto, a partire dal 1516. Un Niccolò di Giorgi, letterato e musico, faceva parte dell'Accademia istituita intorno alla seconda metà del Cinquecento nel castello di Mola dal III Marchese di Polignano, don Gasparre della famiglia Toralda (S. AMMIRATO, Delle famiglie nobili napoletane, Forni editore, ristampa, Bologna 1973. Vol. II, pp. 68-73).
10 Per la verifica delle epigrafi e della traduzione ci siamo avvalsi della cortesia del preside del ginnasio-liceo classico "Q.O. Flacco" di Potenza, Raffaello Antonio Mecca, che ringraziamo. Dal raffronto tra l'iscrizione latina riportata nell'insegna sorretta da due angeli e la trascrizione pubblicata dal Nigro nel 1851 emerge che l'iscrizione dipinta sulla parete in distici elegiaci rende possibile la lettura soltanto dei primi 23 righi dell'elegia, il cui prosieguo (vv. 14-30) va letto nella pubblicazione del medico tursitano. L'elegia latina dipinta presenta qualche lacuna o sillabe e parole diverse da quelle pubblicate dal Nigro. Nell'incipit del 1° verso mentre Nigro lesse "Petri hic Antoni muris condentur" noi leggiamo "[JOANNI]S (A)NTON(I) TENEBRIS CONDVNTVR". Alla fine del 6° verso Nigro riporta "Praesidiumque patris" noi troviamo "PRAESIDIVMQVE PRI(V)S". AI verso 8° Nigro riporta "secunda fecit mentre si legge "SECVNDA FVIT". Al verso 11° Nigro pubblicò "fidibusque canonis", noi leggiamo "FIDIBVSQVE CANORIS". Al verso 12° Nigro pubblicò "grata visis" noi trascriviamo "GRATA VIRIS". Al verso 16° Nigro trascrisse "tacentur", noi leggiamo "TACEANTUR". Al verso 17° Nigro lesse "treis de", noi leggiamo "TREIS ET". Negli incipit dei versi 18° e 21 ° Nigro pubblicò "Quum", noi troviamo "CVM". La trascrizione epigrafica dell'elegia dipinta sulla parete, confrontata e integrata con quella pubblicata dal Nigro nel 1851, introduce le correzioni essenziali a quell'edizione definendo così il nuovo testo epigrafico. La seconda epigrafe riferita a Pietro Antonio De Georgiis (n. nel 1532, m. il 2 agosto 1547) risulta integra e ben leggibile nei suoi caratteri latini dipinti disposti su 15 versi. La nostra trascrizione emenda alcune imprecisioni, perdonabilissime, contenute nel testo pubblicato dal Nigro, sottoponendosi alla puntuale verifica testuale dell'epitaffio dipinto nella cappella De Georgiis.
11 Nella parte centrale del dipinto attorno al sepolcro vuoto e ricolmo di fiori, otto apostoli scrutano, commentano e discutono tra di loro l'avvenimento, mentre in cielo tra le nubi la Vergine è incoronata dall'Eterno e da Gesù tra angeli musici e cherubini (questi ultimi un'aggiunta posteriore).
Il dipinto a tempera su tavola è stato datato dalla Soprintendenza di Matera al 1550 e attribuito ad un ignoto e più "mediocre autore rispetto a quello che ha eseguito il ciclo degli affreschi nella cappella De Georgiis (ARCHIVIO SBAS di Matera, Scheda n. 171 00039995 riferita alla cappella inferiore della Chiesa di S. Maria Maggiore di Tursi).
12 LA BIBBIA PER LA FAMIGLIA, a cura di Gianfranco Ravasi, Cantico dei cantici, editore Periodici San Paolo, Milano 1996, vol. 6, pp. 105-121.
13 LA BIBBIA PER LA FAMIGLIA. NUOVO TESTAMENTO, a cura di Gianfranco Ravasi, Marco, editore Periodici San Paolo, Milano 1998, vol. 1, p. 135.
14 Ivi, Matteo, cit., vol. 1, p. 9.
15 JACOPO DA VARAGINE, Leggenda aurea, Libreria Editrice Fiorentina, Voll. I-II, Firenze 1990. Vol. I, pp. 200-218. Cfr., inoltre, V MENECHINO, P CANNATA, Gregorio I, detto Magno, papa, Dottore della Chiesa, santo, in "Bibliotheca Sanctorum", Città Nuova editrice, Roma 1983 (ristampa), vol. VII, pp. 222-287.
16 A. PENNA, M. L. CASANOVA, Girolamo, Dottore della Chiesa, santo, in "Bibliotheca Sanctorum", cit., vol. VI, pp. 1109-1137.
17 M. SIMONETTI, B. PARODI d'ARENZANO, R. APRILE, Ambrogio, vescovo di Milano, Dottore della Chiesa, santo, in "Bibliotheca Sanctorum", cit., vol. 1, pp. 946-990.
18 A. TRAPÉ, E. CROCE, Agostino Aurelio, vescovo di Ippona, Padre e Dottore della Chiesa, santo, in "Bibliotheca Sanctorum", cit., vol. 1, pp. 428-600.
19 LA BIBBIA PER LA FAMIGLIA, a cura di Gianfranco Ravasi, Salmi, editore Periodici San Paolo, Milano 1996. Vol. 5, p. 165.
20 Ivi, Isaia, cit., 1997, vol. 7, p. 14. Originariamente l'iscrizione del cartiglio scorreva intorno alla figura intrecciandosi al serto floreale e in margine al riquadro dove identificava il personaggio raffigurato. Un successivo restauro maldestro ha invece deviato il nastro sulla figura del profeta che risulta, unica rispetto alle altre dell'insieme, tagliata dallo stesso mentre si leggono ancora le scritte originarie a margine, che segnano il percorso ideato dall'artista.
21 Ivi, Ezechiele, cit., 1997, vol. 8, p. 114.
22 Protovangelo di Giacomo, Vangelo dello Pseudo Matteo, Libro della Natività di Maria, in I vangeli apocrifi, a cura di Marcello Craveri, ed. Einaudi, Torino 1990, rispettivamente alle pp. 5-28; 65-111;216-224.
23 Ivi, pp. 216-224.
24 LA BIBBIA PER LA FAMIGLIA. NUOVO TESTAMENTO, Luca, cit., 1998, vol. 1, pp. 194-195.
25 Ivi, Giovanni, cit., p. 296.
26 F. CARAFFA, A. RIGOLI, M. CIRMENI BOSI, Antonio, Abate, santo, in "Bibliotheca Sanctorum", cit., vol. II, pp. 106-136.
27 Per la Basilicata cfr., A. GIGANTI, La chiesa di Sant'Antuono di Oppido Lucano, ed. Ermes, stampa RCE edizioni, Brienza 2000.
28 G. D. GORDINI, R. APRILE, Barbara, santa, martire, in "Bibliotheca Sanctorum", cit., vol. II, pp. 759-768.
29 N. DEL RE, M. C. COLLETTI, Nicola, (Niccolò) vescovo di Mira, santo, in "Bibliotheca Sanctorum", vol. IX, pp. 923-948.
30 D. BALBONI, M. C. CELLETTI, Giorgio, santo, martire, in "Bibliotheca Sanctorum", cit., vol. VI, pp. 512-532; C. COLELLA, G. SETTEMBRINO, La chiesa di S. Caterina d'Alessandria in Cancellara, Anspi-Oratorio San Clemente Cancellara, Alfagrafica Volonnino, Lavello 2001.
31 Per le notizie sull'Ordine di S. Giorgio in Italia cfr., A. PECCHIOLI, La cavalleria e gli ordini cavallereschi, Editalia, s.d. né I., rispettivamente alla p. 198 per l'Ordine Costantiniano di San Giorgio e alla p. 200 per l'Ordine di S. Giorgio di Ravenna, stabilito nel 1534 dal papa Paolo III per combattere i pirati musulmani che infestavano le coste della Romagna e soppresso dal pontefice Gregorio XIII (1572-1585), dopo la vittoria dei Cristiani sui Turchi a Lepanto (1571).
32 Per le notizie sui vescovi di Anglona-Tursi, Berardino Elvino, sotto il cui vescovato (1542-1547) avvenne il trasferimento a Tursi della diocesi di Anglona (1545-1546) e per quelle riferite al vescovo Giulio De Grandis (dal 1548 al 1560) cfr., A. NIGRO, Memoria topografica istorica sulla città di Tursi .... cit., pp. 148-149.
33 La data e la firma dell'autore della scultura: 1700, Antonio Grima, è emersa nel corso del restauro (cfr., A. BASILE, P SCHETTINO, Presepe, Bottega di Altobello Persio. Pietra scolpita e dipinta. Tursi (MT), Chiesa di S. Maria Maggiore, in MINISTERO PER I BENI CULTURALI E AMBIENTALI, SOPRINTENDENZA PER I BENI ARTISTICI E STORICI DELLA BASILICATA, Restauri in Basilicata. 1993-1997. XIII settimana per i beni culturali e ambientali. Catalogo, La Tipografica, Matera 1998, pp. 22-27).
34 Stando alla narrazione del Vangelo dello Pseudo Matteo: "(...) all'ingresso di Maria in quell'antro buio tutta la grotta cominciò ad avere splendore e a rifulgere tutta di luce, come se vi fosse il sole. La luce divina illuminava la grotta come se li fosse l'ora sesta del giorno, e là questa luce divina non venne mai meno, né di giorno né di notte, finché Maria rimase là". E più avanti: "Inoltre dalla sera alla mattina splendeva sopra la grotta un'enorme stella la cui grandezza non si era mai vista dall'origine del mondo". In quello stesso vangelo non canonico si afferma che "il terzo giorno dopo la nascita del Signore Maria uscì dalla grotta ed entrò in una stalla: mise il bambino nella mangiatoia e il bue e l'asino lo adorarono", conciliando in tal modo la tradizione orientale della "grotta" con quella occidentale della "stalla" (cfr., 1 Vangeli apocrifi, cit. pp. 80-82).
35 LA BIBBIA PER LA FAMIGLIA. NUOVO TESTAMENTO, Luca, cit., 1997, vol. 1, p. 198.
36 Clara Gelao, che a più riprese ha affrontato l'argomento dei Presepi cinquecenteschi del territorio pugliese, occupandosi anche dell'attività artistica di Altobello Persio, suo fratello Aurelio e di Sannazzaro di Alessano, ha ritenuto l'esemplare di Tursi derivante, con quello di Altamura, dal Presepe del Duomo di Matera, ma non di mano di Altobello (C. GELAO, Presepi cinquecenteschi pugliesi fra Adriatico e Tirreno, in "Napoli Nobilissima", vol. XXVIII, fasc. IVI, gen.- dic. 1989-p. 120) in cui lo definisce "assai rozzo e popolare". Successivamente lo annovera tra i prodotti di bottega della fiorente attività imprenditoriale di Altobello Persio (C. GELAO, Tra Lucania Puglia e Sicilia: Aurelius de Basilicata e Altobello Persio di Montescaglioso, in "Storia dell'Arte", n. 89, 1997, pp. 66, nota 121). Nello stesso studio giudica lo stile di Altobello "alquanto grossier anche se sapido, che in verità poco si eleva, specie in alcune figure di contorno, al di sopra di un rude livello artigianale". Tale si manifesterebbe nella fattura delle figure del Presepe della Cattedrale di Matera, precedentemente valorizzato rispetto a quello di Tursi e peraltro eseguito in collaborazione con Sannazzaro Panza di Alessano (Ivi, p. 50). Di costui ricostruisce l'identità mediante documenti e pubblica, nello studio, il testo del contratto per l'opera materana (Ivi, pp. 40-49).
37 M. S. CALO' MARIANI, G. GUGLIELMI FALDI, C. STRINATI, La Cattedrale di Matera, ed. Carical, Cinisello Balsamo (MI) 1978, pp. 63-68.
38 R. BRUNO, Storia di Tursi, cit., p. 288. La descrizione dell'antica Tursi parla sia del forte declivio del terreno che determinava l'esistenza di un dislivello tra l'area della Rabatana, dove sorgevano il nucleo più antico dell'abitato e il castello, e la città bassa, che della costruzione di una scalinata, la "petrizza", costruita dai Doria agli inizi del Seicento (R. BRUNO, La Rabatana ..., cit., p. 22) per collegare le due parti. Più interessante ancora è la notizia dell'esistenza di un collegamento tra Castello e "Cimiterio", quest'ultimo compreso nella Collegiata.
39 C. GELAO, Presepi cinquecenteschi..., cit., p. 119 e nota 40.
40 C. GELAO, P. BELLI D'ELIA, La Cattedrale di Acerenza. Mille anni di storia, edizioni Osanna, Venosa 1999, pp. 238-240.
41 A. GRELLE IUSCO, Arte in Basilicata, ed. Comitato regionale per il Giubileo 2000-Regione Basilicata, De Luca ed., Roma 2001, p. 272, fig. 478.
42 R. VILLANI, La pittura murale in Basilicata. Dal Tardoantico al Rinascimento, Consiglio Regionale della Basilicata, Rubbettino Arti Grafiche, Soveria Mannelli (CZ) 2000, p. 190; C. COLELLA, G. SETTEMBRINO, Santa Maria sul monte Siri ad Anzi, Parrocchia S. Donato, vescovo e martire - Oratorio Centro giovanile salesiano, Anzi (Pz), Alfagrafica Volonnino, Lavello (PZ), 2002, p. 47.
43 Cfr. note 39 e 40.
44 C. GELAO, Tra Lucania Puglia e Sicilia..., cit., p. 47.
45 Ivi, p. 66 e nota 121.
46 Ivi, p. 40.
47 C. GELAO, Presepi cinquecenteschi..., cit., passim.
* Ringraziamo la dott.ssa Agata Altavilla della Soprintendenza P.S.A. D. per gli utili suggerimenti.

 

    Testo di A. Miraglia - G. Settembrino
 tratto da  "BASILICATA REGIONE Notizie,
2002


 

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