Roberto Zito

 

 

Senza fissa dimora


I


E’ soffice la neve sotto i miei piedi.

Chino sul davanti,

il viso per metà nascosto

dietro il bavero del giaccone,

cammino a tarda sera tra i vicoli deserti.

Una pallida luce
                   s’affaccia
tra gli scuri di una finestra

ed una voce galleggia nell’aria

fino a giungermi soffocata e roca.

Applausi e risa sguaiate.

Dimenticare.

Dimenticare chi siamo.


E’ questo il nostro imperativo

(parola d’ordine vecchia come il mondo)

che si rincorre ancor oggi da un uscio all’altro

in un cupo seppur moderno tambureggiare.

Ed è in quella luce
                                  (oramai)
in quella voce
l’immagine più oggettiva e veritiera del mondo

fatto di clown maldestri e sgraziati
e di ballerine su tacchi a spillo

che nulla ricordano del passo di una milonga.

 


II


Lasciano tracce profonde

le mie orme sulla neve

ma così disegnate
              (le une alle altre allineate)
ben differenti traiettorie percorrono che non il solo

vagabondare di un pazzo.

L’involuzione che ci contraddistingue
                          (prima ancora che sul freddo
              cemento di queste case tutte uguali)

è scritta nei nostri cuori.

Il fumo dei camini imbianca un cielo terso

e dietro di me s’incolonnano i perdenti della storia:

coloro che hanno tremato
                                    (nelle arene)
dinanzi ai ruggiti delle fiere
o destinati a soccombere
sotto il grave peso di piramidi e cattedrali

loro stesse illuse
                                      (inutilmente)
di sfidare l’infinito.


Quelli mandati sui roghi
                     (bruciati con le proprie idee)
o finiti nelle mani dei carnefici di un’iniqua giustizia

e quanti
                                             (troppi)
/sul labile segno che contraddistingue una barricata/

dalla parte sbagliata del fosso sono venuti a trovarsi.

Non sono il solo a vagabondare.
Non solo io girovago e mendico il mio posto.

E’ l’umanità intera che non ha fissa dimora

costretta a fuggire dalle sue stesse barbarie.

 


III


Sibila sordo, questa sera, il vento.

Come il calcio di un fucile
(brandito a ricomporre le fila di un gregge)

emette un suono strano e sospinge anche me

verso un baratro.

E’ un labile segno quello che separa

l’essere uomo dallo sciacallo e l’avvoltoio.

Ben lo sanno quanti hanno visto
i singoli unirsi e trasformarsi in un branco di iene/
l’indifferenza che produce un volto scavato dalla fame
e l’occhio impaurito dell’agnello destinato al macello.

Ben lo rammento anch’io mentre scavo

                    (in cerca della mia cena)
tra i rifiuti di un cassonetto.

 


IV


E’ soffice la neve sotto i miei piedi

                           /questa sera/
e produce in me un ovattato silenzio.

Un solo gatto mi attraversa la strada

e segue attento le mie mosse.

Ma quasi l’ignoro.

Abbasso gli occhi

ritiro il viso dietro il bavero

e per un attimo dimentico
             (finalmente pago)
d’essere un uomo.

 

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