L'Historia del Rendina ( 1668 - 1673
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Un aspetto di oggi del
Palazzo Loffredo |
Chi era Rendina
Ecco cosa scrive sul Rendina
Luigi Montesano nel volumetto “Franza Franza! Spagna Spagna!, pubblicato nel
1920 a Potenza dallo Stabilimento Tipografico “Fulgur” per le nozze di Maria
Montesano e Domenico Bonifacio.
“Rendina! Se ne domandate a
Potenza, udrete quasi di sicuro manzonianamente rispondervi: Rendina!. E chi
era costui? La città che gli diede i natali, ha del tutto obliato questo suo
benemerito figlio; a mala pena e quasi di straforo, ne rammenta il casato un
vicoletto presso il palazzo che, secondo ogni indizio, fu suo, poscia dei
Falcinelli ed in ultimo delle Gerolomine.
La tabella viaria fa ancora
mostra di sé, nonostante la strage che della toponomastica locale, senza
ragione al mondo, una commissione del Municipio decretò nel 1900, citando,
quasi a ludibrio, il professore Graziadio Ascoli, il quale aveva insegnato
che ogni denominazione di luoghi offre alcun che di peregrino nel rispetto
del linguaggio, oppure rispecchia vicende politiche, religiose, sociali ed
economiche di ogni maniera, e sarebbe certamente improvvida trascuranza
l’omissione e l’abbandono di nomi tradizionali, quando nella nostra Italia
ogni rudero ha la sua storia, ogni piazza, ogni strada può richiamare alla
memoria un ricordo antico, una gloria, un dolore”.
Nel periodo in cui
l’Arcidiacono D. Giuseppe Rendina scrive la sua Histona (1668-1673),
il potere feudale è saldamente consolidato in mano ai Loffredo; l'alleanza
tra comunità cittadina e clero è tesa unicamente a guadagnare spazi di
libertà sul piano amministrativo e politico; il ceto civile stenta a
differenziarsi dalla massa del popolo per mancanza di spazio in una società
essenzialmente rurale e in un’ economia senza circolarità e senza sbocchi;
un esiguo ceto nobiliare inizia ad apparire nell’ambito giurisdizionale
della parrocchia della cattedrale, mentre aumentano i bisogni delle classi
meno abbienti e l’ordito urbano, pur mantenendo il suo caposaldo nella città
murata di ascendenza medievale, conosce i primi sintomi di quella crescita e
di quelle trasformazioni tipiche del secolo successivo.
Il periodo che va dalla
peste del 1656 alla fine del Seicento è segnato da grandi calamità naturali
che falcidiano un gran numero di vite umane e creano situazioni di miseria
determinata dalla contrazione delle rendite per l’abbandono dei campi e per
la mancanza di braccia che possano lavorare. Chiusa, quindi, per sempre con
la morte di Federico 11 un’ epoca di grande fioritura e sviluppo, una lenta
e plurisecolare decadenza si protrarrà fino al decennio francese, quando
comincia il mondo nuovo, per dirla col Racioppi, che trasforma la condizione
economica e anche l’assetto sociale.
È questo il senso del
manoscritto del Rendina sulle origini di Potenza, trascritto nel
maggio 2000 da Rocchina Maria Abbondanza Blasi edito da Edisud
Salerno, realizzato con il concorso dell’Università degli Studi di Salerno,
l’Associazione per la Storia Sociale del Mezzogiorno e dell’area
mediterranea, la Biblioteca Provinciale di Potenza, di cui riportiamo una
sintesi.
Le origini della
città
Diverse ipotesi si riportano
sulle origini della città di Potenza, definita “città antichissima della
Lucania”.
Secondo una prima, essa
sarebbe stata edificata nel 68 a.C. da quei Corsari dei Mari che, sconfitti
da Pompeo Magno, furono mandati dai romani per ulteriore punizione in un
luogo situato al centro dell’Antica Lucania, “campagna situata, si può dire
in mezzo alla terra”, in un luogo cioè lontano dal mare, per un popolo così
dedito ad attività marinaresche.
Una seconda ipotesi che
vuole la città di Potenza edificata da re Tolomeo, il Rendina la
rinviene nell’orazione latina manoscritta che Francesco Teleo, nobile
cittadino potentino, profondamente erudito nelle Umane e Divine lettere e
Famosissimo legista, vissuto nel sec. XVI, recitò il giorno in cui “entrò
Dottone nella nostra città”, alla presenza di tanti “virtuosi e letterati,
dè quali allora la Città di Potenza sommamente fioriva”. E, certamente il
Teleo, a parere del Rendina, non avrebbe fatto tale affermazione,
alla presenza di chi poteva, con dottrine, censurarlo, senza il sostegno di
testimonianze storiche, specialmente se si considera che ciò avvenne anche
alla presenza del conte Alfonso de Guevara, “chiarissimo, secondo quanto
testifica Agostino di Sessa nelle sue opere, non solo per altezza del sangue
e grandezza dè Stati, ma per la piena cognizione della Filosofia e
Medicina”.
Ma pur se il Rendina
è persuaso che il Teleo non avrebbe parlato in tal maniera senza
“stabilissimo Fondamento di antichi scrittori”, avanza una terza ipotesi che
gli sembra assai vicina alla verità e cioè che Potenza fosse stata edificata
dai popoli Potentini della Marca d’Ancona, oppure che possa essere avvenuto
il contrario. Comproverebbe questa ipotesi l’abitudine degli antichi di dare
ai luoghi di nuova abitazione ed edificazione il nome di quelli da cui
traevano origine o da cui provenivano e, nel caso di Potenza, questa usanza
sarebbe confermata oltre che dal nome dato alla città, anche dall’
uniformità dei fiumi. Potrebbero quasi certamente esserci altre conformità
nei nomi, ma mancano notizie certe poiché Potenza della Marca d’Ancona fu
completamente distrutta da Totila, re dei Goti, circa undici secoli prima
che il Rendina se ne occupasse onde “appena se ne veggono oggi - egli dice -
poche rovine e rare vertigi”. A dimostrazione, comunque, delle origini
antiche, anzi antichissime, di Potenza della Marca d’Ancona si riportano
testimonianze di Cicerone, di Plinio, secondo il quale si chiamò anche
Correa, e di Velleo Patercolo.
Intanto, per poter sostenere
che la nostra Potenza fosse la più antica città della Lucania e forse anche
più antica di quella situata nel Piceno, il Rendina tratta dei primi
abitanti dell’ Italia. Parte dal diluvio universale, finito il quale Noè
cominciò a popolare l’Armenia, passando dopo centotto anni, con alcuni dei
suoi, a popolare l’Italia, dove fu chiamato Giano. Gli uomini del suo
seguito furono chiamati Aborigini cioè senza origini, ed anche
Ianigeni Indigeni. Dopo gli Aborigini abitarono l’Italia gli
Ausoni gli Arcadi e dopo questi i Pelagi Dagli
Ausoni detti anche Qici, trassero origine i popoli Sabini
e da questi i Sabelli. Essi, dliscacciati gli Opici,
abitarono il Sannio e furono detti Sanniti. Guerreggiarono per circa
cinquanta-ottanta anni con i Romani, con alterna fortuna. I Sanniti,
avrebbero, poi, popolato la Lucania e probabilmente
abitato la città di Potenza. Ritornati nella Sabina, nella città di Correa,
avrebbero dato ad essa, per averla rifatta ed ampliata, il nome di Potenza
ed anche i nomi di alcuni luoghi della Potenza Lucana ai principali luoghi
della nuova Potenza. Tale ipotesi è avvalorata, poi, dal fatto che anche i
Piceni traggono origine dai Sabini.
In conclusione, secondo tale
ipotesi, la città di Potenza situata in Lucania, avrebbe dato il proprio
nome a quella della Marca d’Ancona.
Di Potenza scrivono, poi,
Horterio, Filippo Cluerio, il Trezza e Giovanni di Anania. Scartata
l’ipotesi che Potenza fosse stata edificata dai Corsari di Mare, poiché
essi, vinti da Pompeo, furono confinati nella Cilicia e nell’Acaia, e,
scartata anche l’ipotesi che la vuole fondata da Tolomeo, non solo perché
egli, descrivendo la città mediterranea della Lucania fa menzione dei
Potentini, ma anche perché già Plinio, scrivendo circa quarant’anni prima di
Tolomeo, annoverando similmente i popoli mediterranei della Lucania parla
non solo dei Potentini, ma afferma anche che mentre di tutti gli altri
popoli non si trova memoria alcuna, di Potenza “non solo si conserva il
nome, ma anco il sito, ancorché assai più ristretto di quello, che era per
l'addietro, di modo che si troverà sempre menzionata Potenza dagli
scrittori, il Rendina, riporta a testimonianza dell’antichità della città la
tesi avanzata da Padre Ruggilo Castellucci il quale, rifacendosi a Strabone,
dice che Potenza fiorì sotto l’impero di Augusto, “non ad altro titolo che
di Paese dè Lucani”.
Nelle aggiunte riportate dal
Picernese al primo capitolo del Rendina si riporta, non solo la tesi
avanzata da Padre Ruggilo, ma si sfata anche l'altra ipotesi che vuole
Potenza Colonia dei Romani condotta nell’anno di Roma 566, perché coloro che
hanno sostenuto tale ipotesi si sono molto facilmente ingannati sul nome.
Entrambi, quindi, concludono accettando la tesi di Ughelli che la chiama
“città antichissima, ma di ignoti Principi”. Era, all’ inizio, nella valle,
lungo le rive del fiume Basento. Al tempo in cui scrive Rendina essa è
situata sul colle sovrastante lo stesso fiume. A metà strada tra Taranto e
Salerno; è contea della famiglia Loffredo ed ha “salutifero clima,
popolazione numerosa, estensione considerevole e va colle prima di quella
provincia”.
Sito e territorio
Al tempo del Rendina, la
città è situata su un piano colle dell’Appennino e le montagne che la
circondano distano da essa circa due miglia.
il centro abitato, lungo 2/3
di miglio e con larghezza proporzionata, segue la dorsale piana della
collina con edifici che offrono “una vaghissima
apparenza ai riguardanti”. Situata in luogo molto elevato, la città non solo
è fortificabile, ma è anche fortificata dalla natura e facile ad essere
difesa da assalti nemici. È bagnata dal fiume Basento che scorre ai suoi
piedi e man mano che si allontana dal suo territorio, acquistando come
affluenti rivi e torrenti, s’ingrossa e inoltrandosi in altre contrade,
“fatto forastiero insolente e battagliando tra sassi, strepita e rumoreggia
in modo che assorda il contorno”. Ma, nonostante i vari dislivelli
attraverso cui scorre, non è avaro di pesci, soprattutto trote e anguille
che dispensa alla città e nei luoghi che attraversa.
La città è ubertosa e ricca
soprattutto di frumento e biade, tanto che si pensa che senza di essa “non
potrebbero vivere in Salerno, Costa d’Amalfi e Cilento”, zone che si
approviggionano dei suoi grani e soprattutto di quello chiamato Risciola.
È ricca di vini, non corposi, ma delicati e soavi, quali malvasie e
moscarelli. Ha formaggi di gran quantità, soprattutto i Casocavalli
che si fanno nella montagna detta Li Foi, molto conosciuti anche fuori
d’Italia, la cui bontà dipende e dagli erbaggi delicati e dall’acqua
freddissima che scaturisce dalle cime della montagna.
L’agro potentino è ampio, al
pari di quello di qualsiasi grande città del Regno. È frammezzato da piani e
colli ed è circondato ai confini, oltre che al centro, da boschi e selve
ricche di querce, ceni e faggi, a volte frammisti a frutteti, che vanno man
mano scomparendo, così come le campagne che “oggidi non si vedono
nemmeno mezzane” per il pascolo dei buoi e di altri animali. Ma, ciò che
“più meravigliosa” la rende è che il territorio è tutto coltivabile, sia in
pianura, che in collina, tanto che non vi è palmo di terreno che non sia
coltivato.
La città confina ad oriente
con un distretto a forma di canale; a mezzogiorno è riparata dall’insolenza
dello scirocco dalla montagna di Rifreddo, alberata di cerri e faggi
altissimi, tranne che in cima a dimostrazione della sua antichità, ricca di
acque limpide e gelide a causa della densità della vegetazione che non
permette la penetrazione dei raggi del sole, abbondante di nobilissimi
pascoli per aver le falde erbose; ad occidente confina con un altro
distretto che a forma di lunga valle dirige il cammino in direzione di
Salerno; a settentrione confina, poi, con nude montagne e poiché non vi si
permette all'allignare di luoghi infecondi, sono per la maggior parte
coltivate a biade.
Si giunge alla città da
quattro accessi: ad oriente da Taranto ed altri luoghi; ad occidente da
Napoli e da Salerno; a mezzogiorno da Laurenzana ed altri luoghi; a
settentrione da Melfi ed altre città. Ma, da qualsiasi parte visi giunga, la
veduta della città, con quattro elevatissimi campanili ed una elevatissima
torre, è maestosa. Anticamente, però, la città era molto più estesa e il
Rendina riferisce che vi erano numerose ville e casali; Rivisco e Sant’Elia,
distanti da essa circa due miglia; Santa Maria della Pila, San Pietro ed
altri casali, ormai completamente distrutti, di cui è rimasto solo il nome.
C’erano, inoltre, molti
borghi intorno alla città come S. Maria del Sepolcro e la Nunziata, che
erano chiese collegiate con proprio clero. Mentre la seconda è andata
distrutta, la prima è posseduta dai Padri Riformati, che ne hanno
ristrutturato la fabbrica, ed abbellito la chiesa con pitture e cappelle,
soprattutto quella in cui è deposto il sangue di Nostro Signore Gesù Cristo,
trasportato colà da Monsignor Claverio, vescovo della città. Questa cappella
lavorata con stucchi, fogliami, colonne e travertini, ha ai lati e nella
parte superiore tre bellissime statue dei tre arcangeli Michele, Gabriele e
Raffaele. Il convento, annesso alla chiesa, ospita quaranta frati, oltre ai
passeggeri, che vivono comodamente in virtù della grande devozione dei
potentini ed in esso si tengono continuamente studi di teologia.
Poiché la città si
estendeva, ad ovest, sino al Basento, come attestano le vestigia di antichi
edifici, presenti in detti luoghi al tempo dell’Autore, compresa la chiesa
di S. Caterina, ormai distrutta, egli ne deduce che anticamente questa zona
rappresentava la cittadella o Castello di tutta la città, per essere situata
nella parte più alta di essa. E, stando all’estensione del sito, sicuramente
di circa tre miglia, conclude che la città doveva essere densamente
popolata.
Ma ciò che desta meraviglia
è che mentre molte altre città della Lucania, ad esempio Paestum, Grumento,
Metaponto ed altre, sono state distrutte e rovinate a tal punto che se ne è
perduta la memoria, il nome e non si conosce il luogo in cui erano situate,
solo Potenza conserva non solo il nome ma anche il territorio. Un’ altra
meraviglia è che pur essendo situata la città su di un colle, ovunque si
scavano pozzi si rinvengono sorgenti d’acqua copiose e adatte ad ogni uso,
tanto che non vi è casa che non abbia il suo pozzo, ed alcune più di uno. Al
contrario di quanto insegnano i filosofi che “ogni cosa grave e pesante
tiene naturale inclinazione a scendere al basso”, qui si verifica il detto
del Salmista: “super montes stabunt aquae”, ha infatti abbondante acqua
nonostante 1’ altezza del sito.
Per questo motivo, secondo
l’Autore, la città non è soggetta ai terremoti, perché l’esalazioni
evaporerebbero attraverso gli infiniti meati fatti dai fabbri per trarre
1’acqua. Infatti, il terremoto del 1567, che sconvolse tutto il Regno e, tra
le terre vicino alla città, Tito fu rasa al suolo, Potenza non solo non subì
danni, ma non avverti neanche la scossa. In quello del 1694 che “rovinò il
Regno tutto” a Potenza cadde solo la cima del campanile della chiesa
collegiata della SS.ma Trinità e, “non tanto pel terremoto, quanto dal peso
dell’orologio, che molto pesante ivi era” e che fu poi trasportato sopra il
Sedile della Piazza. Pregio della città, infine, è la sua aria “sottile e
perfetta” che agevola la rimarginazione delle ferite riportate alla testa
che, “se divisa in due parti da ferita d’amica o nemica mano, con
grandissima facoltà si risana, conforme, aggiunge l’Autore, ho visto più
volte coll’esperienza in casi particolarissimi”. Al contrario nelle gambe si
verifica l’opposto, poiché “ogni poca tozzatura con difficoltà si cura”.
Secondo quanto sostengono,
invece, il Pedio, il Lombardi e il Racioppi, la città sarebbe stata
costruita in epoca precedente al II sec a. C., non lungo il Basento, ma
nell’attuale sito, dove è testimonianza anche di un preistorico insediamento
umano.
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Il campanile della chiesa
della SS. Trinità |
Potrebbe essere stata
costruita, cioè, dagli abitanti scampati alla distruzione della antica città
fortificata dei Lucani, della quale non si conosce il nome, a Serra di
Vaglio, rasa al suolo a metà del III secolo a.C., i quali vi avrebbero
trasferito con il toponimo, i loro penati. Se, invece, preesistente alla
distruzione della città fortificata a Serra di Vaglio, essa avrebbe potuto
accoglierne la popolazione ed esserne stata indicata con il nome della città
distrutta. Ciò sarebbe avvalorato, poi, anche dal fatto che nella Potentia
romana era praticato il culto della dea Mefite, alla quale la città che
sorgeva a Serra di Vaglio aveva innalzato un tempio, intorno al 350 a.C.,
frequentato fino alla metà del I sec. a.C. Sarebbe stato, quindi, il colle
potentino un avamposto di controllo e di avvistamento in relazione al più
importante centro lucano. Avrebbe subito, poi, una profonda
ristrutturazione, come la maggior parte degli insediamenti lucani,
all’arrivo dei Romani che, dopo le guerre pirriche e puniche, come già
detto, consolidarono con l'istituzione di colonie, la conquista del
territorio lucano.
I sostenitori della prima
tesi affermano, infine, che la città sarebbe stata in seguito trasferita
sulle rive del Basento sull’attuale colle. Ma, relativamente all’epoca dello
spostamento, la discussione è ancora aperta tra gli storici, nonostante che
vari rinvenimenti archeologici attestino la presenza di un centro di periodo
lucano insediato nel sito dell’attuale capoluogo. Ciò che sembra certo è che
il sito dell’odierna città sarebbe stato abitato altre volte e, quasi
certamente, ancor prima che i Romani vi lasciassero numerose vestigia.
Circa il sito della città,
da quanto sin qui riferito dal Rendina, dovrebbe trarsi la conclusione che
Potentia sarebbe stata costruita sul Casuentus, l’odienro Basento e che il
borgo di S. Maria del Sepolcro ne costituiva la parte più alta. Tale tesi
trova conferma in Nicola Corcia che, richiamandosi al De Subfeudis Baronum
di Mario Freccia e al Dizionario geografico di Lorenzo Giustuniani la
ritiene costruita sul Casuentus all’inizio del II sec. a. C., quando Roma
iniziò la costruzione delle strade nelle regioni a Sud dell’Appia.
Ritornando al discorso
sull’assetto urbano della città, si può concludere che essa, al tempo del
saccheggio da parte di Carlo d’Angiò, si stendeva già sul colle attuale.
Da tale saccheggio ne usci
distrutta. Le mura furono abbattute, la popolazione fu in parte uccisa e in
parte messa in fuga. All’incirca novant’anni dopo la città “si vede
risuscitata si magnifica, con numeroso popolo e clero”, nonostante che il
terremoto del 1273 l’avesse nuovamente distrutta essa venne riedificata
sulle sue stesse rovine e, forse, risale a quegli anni (1273-1353) la
ricostruzione delle mura, con quattro porte di accesso ai quattro lati e,
all’interno del loro perimetro lo sviluppo dell’abitato medievale arroccato
intorno ad alcune emergenze architettoniche (chiese, conventi, Palazzo del
Sedile) ed estese secondo quella particolare disposizione urbanistica con
vicoli chiusi e senza sbocco verso l’esterno, le quintane, che avrebbero
fatto guadagnare a Potenza il nome di città murata.
Visse la città più o meno
tranquillamente durante il regno di Carlo II (1285-1309), di Roberto d’Angiò
(1309-1343) ed anche durante il regno di Giovanna I (1343-1382), pur se in
questo periodo, manifestandosi pienamente la crisi già latente al tempo di
Roberto, lo stato napoletano appariva in completa disgregazione, in balia di
forze e sovrani stranieri, lacerato dai contrasti e dall’anarchismo della
sua feudalità. Nell’aspra guerra tra angioini e durazzeschi per la
successione al trono, i potentini si schierarono con Luigi II d’Angiò,
commettendo non pochi misfatti, e, nel 1399, Potenza fu assediata da
Ladislao di Durazzo con un esercito di ventimila uomini.
Per sfuggire all’assedio
i potentini, secondo quanto riferisce il Rendina, fecero fare "ricotte
fresche di latte di donne" e buttateli agli assedianti affine di assicurarli
che nella città v'era abbondanza di viveri, riuscirono ad ingannare Ladislao
che si accordò con la città.
È facilmente dimostrabile
che si tratta di una pura e semplice leggenda, mentre il vero motivo che
fece desistere Ladislao dall’assedio va ricercato nel fatto che egli aveva
ormai logorato l’avversario ed era sicuro della conquista del regno. Fu,
infatti, perdonata la città del delitto di lesa maestà ed assolta da quello
di ribellione. Fu, inoltre, ordinato che la città non dovesse essere più
inquisita per il futuro e che non si doveva svolgere, per lo spazio di dieci
anni, nessun giudizio e inchiesta relativamente alle scelleraggini commesse
fra i cittadini e che, solo dopo tale scadenza, la città si sarebbe dovuta
attenere alla sovrana volontà.
Potenza colpita
dalla peste delle ghiandole
Nel primo decennio del sec.
XV Potenza fu colpita dalla peste delle ghiandole. Durava ancora nel
1413 “della quale ne morirono assaissimi in questo anno”. La città ne fu
quasi distrutta ed anche se l’èpidemia, riferisce il Rendina, “non fu
maggiore di quella che negli anni passati ha colpito il Regno” - è chiaro
che si riferisce alla peste del 1656 - certamente fu più crudele, stando al
numero dei testamenti e degli atti di compravendita a vilissimo prezzo,
fatti dagli appestati, dal momento che “i cittadini di Potenza col
riflettere vicina la morte che gli sovrasta, non badavano ad interesse
veruno”.
Durante il regno di Giovanna
II (1414 - 1435), succeduta al trono al fratello Ladislao, i potentini
mostrarono particolare affezione per essa, sostenendola nella lotta e nella
guerra scoppiata per la successione al trono. Inviò la regina, il 22 giugno
1426, da Aversa, ampio privilegio alla città di Potenza, nominandola
fedelissima e in ricompensa del sangue sparso dai suoi cittadini a
servizio della corona e delle gravi perdite subite nella “Robba”, elargì ad
essa il privilegio, omni futuro tempore, che “per ogni Colta da
impossessarsi della Regia Corte, si paghi oncia quindici tantum e si
rilascino once cinque per ogni colta. Venne, cioè, la città sgravata della
quarta parte su ogni aggravio che in seguito avrebbe imposto l’autorità
regia. Con un altro Privilegio, riportante la stessa data, stabilendo
la regina che i cittadini di Potenza “non potessero per qualsiasi delitto,
essere trasportati alli carceri fuori della città”, tranne per il crimine di
Lesa Maestà, concesse alla città di costruire le sue carceri. E, con un
altro Privilegio, dato in Nola il 25 giugno del 1423, la regina aveva dato
incarico ad Angelo di Napoli, arcivescovo potentino e suo Consigliere, di
andare in Calabria come inquisitore generale “contro Catalani, dichiarati
nemici della Corona, e tutti li loro aderenti e seguaci delli Re Aragonesi,
con facoltà di confiscare anco tutti i loro Beni”.1
1) Rocchina Maria
Abbondanza Blasi - “Storia di una città - Potenza”
(Da un manoscritto della
seconda metà del sec. XVII — Edisud Salerno - stampato nel
mese di
Maggio 2000
dalla GRG Tipolitograflca s.r.l.
-
Salerno) |