PINO GENTILE
 - La Città delle scale
 

- Capitolo 1 -
Storia Antica della Città

  1. Potenza fu abitata dal VI secolo a.C.

  2. L'Historia del Rendina (1668-1673)

  3. Cronaca potentina (1799-1882)

L'Historia del Rendina  ( 1668 - 1673 )

 

Un aspetto di oggi del Palazzo Loffredo

Chi era Rendina

 

Ecco cosa scrive sul Rendina Luigi Montesano nel volumetto “Franza Franza! Spagna Spagna!, pubblicato nel 1920 a Potenza dallo Stabilimento Tipografico “Fulgur” per le nozze di Maria Montesano e Domenico Bonifacio.

 

“Rendina! Se ne domandate a Potenza, udrete quasi di sicuro manzonianamente rispondervi: Rendina!. E chi era costui? La città che gli diede i natali, ha del tutto obliato questo suo benemerito figlio; a mala pena e quasi di straforo, ne rammenta il casato un vicoletto presso il palazzo che, secondo ogni indizio, fu suo, poscia dei Falcinelli ed in ultimo delle Gerolomine.

 

La tabella viaria fa ancora mostra di sé, nonostante la strage che della toponomastica locale, senza ragione al mondo, una commissione del Municipio decretò nel 1900, citando, quasi a ludibrio, il professore Graziadio Ascoli, il quale aveva insegnato che ogni denominazione di luoghi offre alcun che di peregrino nel rispetto del linguaggio, oppure rispecchia vicende politiche, religiose, sociali ed economiche di ogni maniera, e sarebbe certamente improvvida trascuranza l’omissione e l’abbandono di nomi tradizionali, quando nella nostra Italia ogni rudero ha la sua storia, ogni piazza, ogni strada può richiamare alla memoria un ricordo antico, una gloria, un dolore”.

 

Nel periodo in cui l’Arcidiacono D. Giuseppe Rendina scrive la sua Histona (1668-1673), il potere feudale è saldamente consolidato in mano ai Loffredo; l'alleanza tra comunità cittadina e clero è tesa unicamente a guadagnare spazi di libertà sul piano amministrativo e politico; il ceto civile stenta a differenziarsi dalla massa del popolo per mancanza di spazio in una società essenzialmente rurale e in un’ economia senza circolarità e senza sbocchi; un esiguo ceto nobiliare inizia ad apparire nell’ambito giurisdizionale della parrocchia della cattedrale, mentre aumentano i bisogni delle classi meno abbienti e l’ordito urbano, pur mantenendo il suo caposaldo nella città murata di ascendenza medievale, conosce i primi sintomi di quella crescita e di quelle trasformazioni tipiche del secolo successivo.

 

Il periodo che va dalla peste del 1656 alla fine del Seicento è segnato da grandi calamità naturali che falcidiano un gran numero di vite umane e creano situazioni di miseria determinata dalla contrazione delle rendite per l’abbandono dei campi e per la mancanza di braccia che possano lavorare. Chiusa, quindi, per sempre con la morte di Federico 11 un’ epoca di grande fioritura e sviluppo, una lenta e plurisecolare decadenza si protrarrà fino al decennio francese, quando comincia il mondo nuovo, per dirla col Racioppi, che trasforma la condizione economica e anche l’assetto sociale.

 

È questo il senso del manoscritto del Rendina sulle origini di Potenza, trascritto nel maggio 2000 da Rocchina Maria Abbondanza Blasi edito da Edisud Salerno, realizzato con il concorso dell’Università degli Studi di Salerno, l’Associazione per la Storia Sociale del Mezzogiorno e dell’area mediterranea, la Biblioteca Provinciale di Potenza, di cui riportiamo una sintesi.

 

 

 

 

Le origini della città

 

Diverse ipotesi si riportano sulle origini della città di Potenza, definita “città antichissima della Lucania”.

Secondo una prima, essa sarebbe stata edificata nel 68 a.C. da quei Corsari dei Mari che, sconfitti da Pompeo Magno, furono mandati dai romani per ulteriore punizione in un luogo situato al centro dell’Antica Lucania, “campagna situata, si può dire in mezzo alla terra”, in un luogo cioè lontano dal mare, per un popolo così dedito ad attività marinaresche.

Una seconda ipotesi che vuole la città di Potenza edificata da re Tolomeo, il Rendina la rinviene nell’orazione latina manoscritta che Francesco Teleo, nobile cittadino potentino, profondamente erudito nelle Umane e Divine lettere e Famosissimo legista, vissuto nel sec. XVI, recitò il giorno in cui “entrò Dottone nella nostra città”, alla presenza di tanti “virtuosi e letterati, dè quali allora la Città di Potenza sommamente fioriva”. E, certamente il Teleo, a parere del Rendina, non avrebbe fatto tale affermazione, alla presenza di chi poteva, con dottrine, censurarlo, senza il sostegno di testimonianze storiche, specialmente se si considera che ciò avvenne anche alla presenza del conte Alfonso de Guevara, “chiarissimo, secondo quanto testifica Agostino di Sessa nelle sue opere, non solo per altezza del sangue e grandezza dè Stati, ma per la piena cognizione della Filosofia e Medicina”.

 

Ma pur se il Rendina è persuaso che il Teleo non avrebbe parlato in tal maniera senza “stabilissimo Fondamento di antichi scrittori”, avanza una terza ipotesi che gli sembra assai vicina alla verità e cioè che Potenza fosse stata edificata dai popoli Potentini della Marca d’Ancona, oppure che possa essere avvenuto il contrario. Comproverebbe questa ipotesi l’abitudine degli antichi di dare ai luoghi di nuova abitazione ed edificazione il nome di quelli da cui traevano origine o da cui provenivano e, nel caso di Potenza, questa usanza sarebbe confermata oltre che dal nome dato alla città, anche dall’ uniformità dei fiumi. Potrebbero quasi certamente esserci altre conformità nei nomi, ma mancano notizie certe poiché Potenza della Marca d’Ancona fu completamente distrutta da Totila, re dei Goti, circa undici secoli prima che il Rendina se ne occupasse onde “appena se ne veggono oggi - egli dice - poche rovine e rare vertigi”. A dimostrazione, comunque, delle origini antiche, anzi antichissime, di Potenza della Marca d’Ancona si riportano testimonianze di Cicerone, di Plinio, secondo il quale si chiamò anche Correa, e di Velleo Patercolo.

 

Intanto, per poter sostenere che la nostra Potenza fosse la più antica città della Lucania e forse anche più antica di quella situata nel Piceno, il Rendina tratta dei primi abitanti dell’ Italia. Parte dal diluvio universale, finito il quale Noè cominciò a popolare l’Armenia, passando dopo centotto anni, con alcuni dei suoi, a popolare l’Italia, dove fu chiamato Giano. Gli uomini del suo seguito furono chiamati Aborigini cioè senza origini, ed anche Ianigeni Indigeni. Dopo gli Aborigini abitarono l’Italia gli Ausoni gli Arcadi e dopo questi i Pelagi Dagli Ausoni detti anche Qici, trassero origine i popoli Sabini e da questi i Sabelli. Essi, dliscacciati gli Opici, abitarono il Sannio e furono detti Sanniti. Guerreggiarono per circa cinquanta-ottanta anni con i Romani, con alterna fortuna. I Sanniti, avrebbero, poi, popolato la Lucania e probabilmente abitato la città di Potenza. Ritornati nella Sabina, nella città di Correa, avrebbero dato ad essa, per averla rifatta ed ampliata, il nome di Potenza ed anche i nomi di alcuni luoghi della Potenza Lucana ai principali luoghi della nuova Potenza. Tale ipotesi è avvalorata, poi, dal fatto che anche i Piceni traggono origine dai Sabini.

 

In conclusione, secondo tale ipotesi, la città di Potenza situata in Lucania, avrebbe dato il proprio nome a quella della Marca d’Ancona.

 

Di Potenza scrivono, poi, Horterio, Filippo Cluerio, il Trezza e Giovanni di Anania. Scartata l’ipotesi che Potenza fosse stata edificata dai Corsari di Mare, poiché essi, vinti da Pompeo, furono confinati nella Cilicia e nell’Acaia, e, scartata anche l’ipotesi che la vuole fondata da Tolomeo, non solo perché egli, descrivendo la città mediterranea della Lucania fa menzione dei Potentini, ma anche perché già Plinio, scrivendo circa quarant’anni prima di Tolomeo, annoverando similmente i popoli mediterranei della Lucania parla non solo dei Potentini, ma afferma anche che mentre di tutti gli altri popoli non si trova memoria alcuna, di Potenza “non solo si conserva il nome, ma anco il sito, ancorché assai più ristretto di quello, che era per l'addietro, di modo che si troverà sempre menzionata Potenza dagli scrittori, il Rendina, riporta a testimonianza dell’antichità della città la tesi avanzata da Padre Ruggilo Castellucci il quale, rifacendosi a Strabone, dice che Potenza fiorì sotto l’impero di Augusto, “non ad altro titolo che di Paese dè Lucani”.

 

Nelle aggiunte riportate dal Picernese al primo capitolo del Rendina si riporta, non solo la tesi avanzata da Padre Ruggilo, ma si sfata anche l'altra ipotesi che vuole Potenza Colonia dei Romani condotta nell’anno di Roma 566, perché coloro che hanno sostenuto tale ipotesi si sono molto facilmente ingannati sul nome. Entrambi, quindi, concludono accettando la tesi di Ughelli che la chiama “città antichissima, ma di ignoti Principi”. Era, all’ inizio, nella valle, lungo le rive del fiume Basento. Al tempo in cui scrive Rendina essa è situata sul colle sovrastante lo stesso fiume. A metà strada tra Taranto e Salerno; è contea della famiglia Loffredo ed ha “salutifero clima, popolazione numerosa, estensione considerevole e va colle prima di quella provincia”.

 

 

 

 

Sito e territorio

 

Al tempo del Rendina, la città è situata su un piano colle dell’Appennino e le montagne che la circondano distano da essa circa due miglia.

il centro abitato, lungo 2/3 di miglio e con larghezza proporzionata, segue la dorsale piana della collina con edifici che offrono “una vaghissima apparenza ai riguardanti”. Situata in luogo molto elevato, la città non solo è fortificabile, ma è anche fortificata dalla natura e facile ad essere difesa da assalti nemici. È bagnata dal fiume Basento che scorre ai suoi piedi e man mano che si allontana dal suo territorio, acquistando come affluenti rivi e torrenti, s’ingrossa e inoltrandosi in altre contrade, “fatto forastiero insolente e battagliando tra sassi, strepita e rumoreggia in modo che assorda il contorno”. Ma, nonostante i vari dislivelli attraverso cui scorre, non è avaro di pesci, soprattutto trote e anguille che dispensa alla città e nei luoghi che attraversa.

 

La città è ubertosa e ricca soprattutto di frumento e biade, tanto che si pensa che senza di essa “non potrebbero vivere in Salerno, Costa d’Amalfi e Cilento”, zone che si approviggionano dei suoi grani e soprattutto di quello chiamato Risciola. È ricca di vini, non corposi, ma delicati e soavi, quali malvasie e moscarelli. Ha formaggi di gran quantità, soprattutto i Casocavalli che si fanno nella montagna detta Li Foi, molto conosciuti anche fuori d’Italia, la cui bontà dipende e dagli erbaggi delicati e dall’acqua freddissima che scaturisce dalle cime della montagna.

L’agro potentino è ampio, al pari di quello di qualsiasi grande città del Regno. È frammezzato da piani e colli ed è circondato ai confini, oltre che al centro, da boschi e selve ricche di querce, ceni e faggi, a volte frammisti a frutteti, che vanno man mano scomparendo, così come le campagne che “oggidi non si vedono nemmeno mezzane” per il pascolo dei buoi e di altri animali. Ma, ciò che “più meravigliosa” la rende è che il territorio è tutto coltivabile, sia in pianura, che in collina, tanto che non vi è palmo di terreno che non sia coltivato.

 

La città confina ad oriente con un distretto a forma di canale; a mezzogiorno è riparata dall’insolenza dello scirocco dalla montagna di Rifreddo, alberata di cerri e faggi altissimi, tranne che in cima a dimostrazione della sua antichità, ricca di acque limpide e gelide a causa della densità della vegetazione che non permette la penetrazione dei raggi del sole, abbondante di nobilissimi pascoli per aver le falde erbose; ad occidente confina con un altro distretto che a forma di lunga valle dirige il cammino in direzione di Salerno; a settentrione confina, poi, con nude montagne e poiché non vi si permette all'allignare di luoghi infecondi, sono per la maggior parte coltivate a biade.

 

Si giunge alla città da quattro accessi: ad oriente da Taranto ed altri luoghi; ad occidente da Napoli e da Salerno; a mezzogiorno da Laurenzana ed altri luoghi; a settentrione da Melfi ed altre città. Ma, da qualsiasi parte visi giunga, la veduta della città, con quattro elevatissimi campanili ed una elevatissima torre, è maestosa. Anticamente, però, la città era molto più estesa e il Rendina riferisce che vi erano numerose ville e casali; Rivisco e Sant’Elia, distanti da essa circa due miglia; Santa Maria della Pila, San Pietro ed altri casali, ormai completamente distrutti, di cui è rimasto solo il nome.

 

C’erano, inoltre, molti borghi intorno alla città come S. Maria del Sepolcro e la Nunziata, che erano chiese collegiate con proprio clero. Mentre la seconda è andata distrutta, la prima è posseduta dai Padri Riformati, che ne hanno ristrutturato la fabbrica, ed abbellito la chiesa con pitture e cappelle, soprattutto quella in cui è deposto il sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, trasportato colà da Monsignor Claverio, vescovo della città. Questa cappella lavorata con stucchi, fogliami, colonne e travertini, ha ai lati e nella parte superiore tre bellissime statue dei tre arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Il convento, annesso alla chiesa, ospita quaranta frati, oltre ai passeggeri, che vivono comodamente in virtù della grande devozione dei potentini ed in esso si tengono continuamente studi di teologia.

 

Poiché la città si estendeva, ad ovest, sino al Basento, come attestano le vestigia di antichi edifici, presenti in detti luoghi al tempo dell’Autore, compresa la chiesa di S. Caterina, ormai distrutta, egli ne deduce che anticamente questa zona rappresentava la cittadella o Castello di tutta la città, per essere situata nella parte più alta di essa. E, stando all’estensione del sito, sicuramente di circa tre miglia, conclude che la città doveva essere densamente popolata.

 

Ma ciò che desta meraviglia è che mentre molte altre città della Lucania, ad esempio Paestum, Grumento, Metaponto ed altre, sono state distrutte e rovinate a tal punto che se ne è perduta la memoria, il nome e non si conosce il luogo in cui erano situate, solo Potenza conserva non solo il nome ma anche il territorio. Un’ altra meraviglia è che pur essendo situata la città su di un colle, ovunque si scavano pozzi si rinvengono sorgenti d’acqua copiose e adatte ad ogni uso, tanto che non vi è casa che non abbia il suo pozzo, ed alcune più di uno. Al contrario di quanto insegnano i filosofi che “ogni cosa grave e pesante tiene naturale inclinazione a scendere al basso”, qui si verifica il detto del Salmista: “super montes stabunt aquae”, ha infatti abbondante acqua nonostante 1’ altezza del sito.

 

Per questo motivo, secondo l’Autore, la città non è soggetta ai terremoti, perché l’esalazioni evaporerebbero attraverso gli infiniti meati fatti dai fabbri per trarre 1’acqua. Infatti, il terremoto del 1567, che sconvolse tutto il Regno e, tra le terre vicino alla città, Tito fu rasa al suolo, Potenza non solo non subì danni, ma non avverti neanche la scossa. In quello del 1694 che “rovinò il Regno tutto” a Potenza cadde solo la cima del campanile della chiesa collegiata della SS.ma Trinità e, “non tanto pel terremoto, quanto dal peso dell’orologio, che molto pesante ivi era” e che fu poi trasportato sopra il Sedile della Piazza. Pregio della città, infine, è la sua aria “sottile e perfetta” che agevola la rimarginazione delle ferite riportate alla testa che, “se divisa in due parti da ferita d’amica o nemica mano, con grandissima facoltà si risana, conforme, aggiunge l’Autore, ho visto più volte coll’esperienza in casi particolarissimi”. Al contrario nelle gambe si verifica l’opposto, poiché “ogni poca tozzatura con difficoltà si cura”.

 

Secondo quanto sostengono, invece, il Pedio, il Lombardi e il Racioppi, la città sarebbe stata costruita in epoca precedente al II sec a. C., non lungo il Basento, ma nell’attuale sito, dove è testimonianza anche di un preistorico insediamento umano.

 

Il campanile della chiesa della SS. Trinità

Potrebbe essere stata costruita, cioè, dagli abitanti scampati alla distruzione della antica città fortificata dei Lucani, della quale non si conosce il nome, a Serra di Vaglio, rasa al suolo a metà del III secolo a.C., i quali vi avrebbero trasferito con il toponimo, i loro penati. Se, invece, preesistente alla distruzione della città fortificata a Serra di Vaglio, essa avrebbe potuto accoglierne la popolazione ed esserne stata indicata con il nome della città distrutta. Ciò sarebbe avvalorato, poi, anche dal fatto che nella Potentia romana era praticato il culto della dea Mefite, alla quale la città che sorgeva a Serra di Vaglio aveva innalzato un tempio, intorno al 350 a.C., frequentato fino alla metà del I sec. a.C. Sarebbe stato, quindi, il colle potentino un avamposto di controllo e di avvistamento in relazione al più importante centro lucano. Avrebbe subito, poi, una profonda ristrutturazione, come la maggior parte degli insediamenti lucani, all’arrivo dei Romani che, dopo le guerre pirriche e puniche, come già detto, consolidarono con l'istituzione di colonie, la conquista del territorio lucano.

 

I sostenitori della prima tesi affermano, infine, che la città sarebbe stata in seguito trasferita sulle rive del Basento sull’attuale colle. Ma, relativamente all’epoca dello spostamento, la discussione è ancora aperta tra gli storici, nonostante che vari rinvenimenti archeologici attestino la presenza di un centro di periodo lucano insediato nel sito dell’attuale capoluogo. Ciò che sembra certo è che il sito dell’odierna città sarebbe stato abitato altre volte e, quasi certamente, ancor prima che i Romani vi lasciassero numerose vestigia.

 

Circa il sito della città, da quanto sin qui riferito dal Rendina, dovrebbe trarsi la conclusione che Potentia sarebbe stata costruita sul Casuentus, l’odienro Basento e che il borgo di S. Maria del Sepolcro ne costituiva la parte più alta. Tale tesi trova conferma in Nicola Corcia che, richiamandosi al De Subfeudis Baronum di Mario Freccia e al Dizionario geografico di Lorenzo Giustuniani la ritiene costruita sul Casuentus all’inizio del II sec. a. C., quando Roma iniziò la costruzione delle strade nelle regioni a Sud dell’Appia.

Ritornando al discorso sull’assetto urbano della città, si può concludere che essa, al tempo del saccheggio da parte di Carlo d’Angiò, si stendeva già sul colle attuale.

 

Da tale saccheggio ne usci distrutta. Le mura furono abbattute, la popolazione fu in parte uccisa e in parte messa in fuga. All’incirca novant’anni dopo la città “si vede risuscitata si magnifica, con numeroso popolo e clero”, nonostante che il terremoto del 1273 l’avesse nuovamente distrutta essa venne riedificata sulle sue stesse rovine e, forse, risale a quegli anni (1273-1353) la ricostruzione delle mura, con quattro porte di accesso ai quattro lati e, all’interno del loro perimetro lo sviluppo dell’abitato medievale arroccato intorno ad alcune emergenze architettoniche (chiese, conventi, Palazzo del Sedile) ed estese secondo quella particolare disposizione urbanistica con vicoli chiusi e senza sbocco verso l’esterno, le quintane, che avrebbero fatto guadagnare a Potenza il nome di città murata.

 

Visse la città più o meno tranquillamente durante il regno di Carlo II (1285-1309), di Roberto d’Angiò (1309-1343) ed anche durante il regno di Giovanna I (1343-1382), pur se in questo periodo, manifestandosi pienamente la crisi già latente al tempo di Roberto, lo stato napoletano appariva in completa disgregazione, in balia di forze e sovrani stranieri, lacerato dai contrasti e dall’anarchismo della sua feudalità. Nell’aspra guerra tra angioini e durazzeschi per la successione al trono, i potentini si schierarono con Luigi II d’Angiò, commettendo non pochi misfatti, e, nel 1399, Potenza fu assediata da Ladislao di Durazzo con un esercito di ventimila uomini.

 

Per sfuggire all’assedio i potentini, secondo quanto riferisce il Rendina, fecero fare "ricotte fresche di latte di donne" e buttateli agli assedianti affine di assicurarli che nella città v'era abbondanza di viveri, riuscirono ad ingannare Ladislao che si accordò con la città.

 

È facilmente dimostrabile che si tratta di una pura e semplice leggenda, mentre il vero motivo che fece desistere Ladislao dall’assedio va ricercato nel fatto che egli aveva ormai logorato l’avversario ed era sicuro della conquista del regno. Fu, infatti, perdonata la città del delitto di lesa maestà ed assolta da quello di ribellione. Fu, inoltre, ordinato che la città non dovesse essere più inquisita per il futuro e che non si doveva svolgere, per lo spazio di dieci anni, nessun giudizio e inchiesta relativamente alle scelleraggini commesse fra i cittadini e che, solo dopo tale scadenza, la città si sarebbe dovuta attenere alla sovrana volontà.

 

 

 

 

Potenza colpita dalla peste delle ghiandole

 

Nel primo decennio del sec. XV Potenza fu colpita dalla peste delle ghiandole. Durava ancora nel 1413 “della quale ne morirono assaissimi in questo anno”. La città ne fu quasi distrutta ed anche se l’èpidemia, riferisce il Rendina, “non fu maggiore di quella che negli anni passati ha colpito il Regno” - è chiaro che si riferisce alla peste del 1656 - certamente fu più crudele, stando al numero dei testamenti e degli atti di compravendita a vilissimo prezzo, fatti dagli appestati, dal momento che “i cittadini di Potenza col riflettere vicina la morte che gli sovrasta, non badavano ad interesse veruno”.

 

Durante il regno di Giovanna II (1414 - 1435), succeduta al trono al fratello Ladislao, i potentini mostrarono particolare affezione per essa, sostenendola nella lotta e nella guerra scoppiata per la successione al trono. Inviò la regina, il 22 giugno 1426, da Aversa, ampio privilegio alla città di Potenza, nominandola fedelissima e in ricompensa del sangue sparso dai suoi cittadini a servizio della corona e delle gravi perdite subite nella “Robba”, elargì ad essa il privilegio, omni futuro tempore, che “per ogni Colta da impossessarsi della Regia Corte, si paghi oncia quindici tantum e si rilascino once cinque per ogni colta. Venne, cioè, la città sgravata della quarta parte su ogni aggravio che in seguito avrebbe imposto l’autorità regia. Con un altro Privilegio, riportante la stessa data, stabilendo la regina che i cittadini di Potenza “non potessero per qualsiasi delitto, essere trasportati alli carceri fuori della città”, tranne per il crimine di Lesa Maestà, concesse alla città di costruire le sue carceri. E, con un altro Privilegio, dato in Nola il 25 giugno del 1423, la regina aveva dato incarico ad Angelo di Napoli, arcivescovo potentino e suo Consigliere, di andare in Calabria come inquisitore generale “contro Catalani, dichiarati nemici della Corona, e tutti li loro aderenti e seguaci delli Re Aragonesi, con facoltà di confiscare anco tutti i loro Beni”.1

 

1) Rocchina Maria Abbondanza Blasi - “Storia di una città - Potenza”

(Da un manoscritto della seconda metà del sec. XVII Edisud Salerno - stampato nel mese di Maggio 2000 dalla GRG Tipolitograflca s.r.l. - Salerno)

 

 

 

 

[ Mailing List ] [ Home ] [ Scrivici ]

 

 

.