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PER L’ARCHIMANDRITA PIETRO CAMODECA de’CORONEJ
AL CENTENARIO DELLA SUA MORTE
( Lo spirito contraddittorio anima la nostra razza )

FRANCESCO MOLFESE - GIUSEPPE MOLFESE - ANTONIO MOLFESE
 

PARTE SECONDA

DIARIO DI UN VIAGGIO IN ALBANIA ALLA RICERCA DELLE RADICI

L’idea di trascorrere un primo maggio a Tirana ci stimolò a tal punto che decidemmo di andare a conoscere la patria dei nostri antenati, che nel 1500 lasciarono l’Albania sotto la pressione dei turchi.
La curiosità era immensa, anche da parte di mia madre, Arberesche di Castroregio (Cosenza), appartenente alla famiglia Camodeca de’ Coroney, che, all’età di 84 anni, aveva voluto rendersi conto dei luoghi di origine dei suoi antenati. Ci imbarcammo a Pescara sulla nave Tiziano per sbarcare a Spalato, dal momento che i porti di Albania erano chiusi al traffico turistico. Il traghetto appena fuori dal porto fu investito da un mare lungo che mise in difficoltà tutto il gruppo, compresa mia madre, che per la prima volta si imbarcava, e che riuscii a far riposare per tutto il tragitto in una cabina del traghetto. Il gruppo era formato da trenta persone, tutte aderenti al movimento marxista -leninista e simpatizzanti del regime albanese, fatta eccezione per noi che avevamo scelto di visitare l’Albania per motivi eminentemente turistici. Il primo impatto lo avemmo alla frontiera iugoslava, dove fummo invitati a consegnare tutti i prodotti commestibili che alcuni avevano portato in regalo alle famiglie albanesi che andavano a visitare. Dopo un pernottamento a Spalato, l’indomani, a bordo di un pullman, iniziammo verso il confine dell’Albania il viaggio che durò circa 18 ore. Durante le prime ore immergemmo la mente e gli occhi nei paesaggi della Yugoslavia, ma dopo un po’la noia e la stanchezza cominciarono a prendere il sopravvento e non vedevamo l’ora di giungere alla frontiera albanese, anche perché curiosi di conoscere questo paese sempre più avvolto dal mistero. Il pullman al confino iugoslavo ci lasciò alla sbarra e dovemmo attraversare la terra di nessuno con « armi e bagagli ›› in un coro di voci che è solito degli italiani, specie dei meridionali. Appena in Albania, al confine, presidiato da guardie con fucile mitragliatore, fummo accolti dalle nostre due guide, una turistica e l’altra politica, che ci avrebbero fatto compagnia durante tutta la nostra permanenza. La guida turistica era un insegnante di matematica mentre la guida politica era un odontotecnico. Dopo una accurata ispezione ai bagagli e completate le pratiche burocratiche, iniziò il viaggio per Tirana: strade strette e polverose, numerose buche e traffico di carretti dipinti in colori vivaci trainati da cavalli; traffico automobilistico inesistente. Attraversammo delle immense pianure tutte coltivate,tenute in ordine da torme di persone che lavoravano i campi e che al nostro passare levavano le mani in segno di saluto. Era un’agricoltura molto curata, con colture irrigue e con un buon sfruttamento del suolo,dal momento che con il raccolto dovevano soddisfare i loro bisogni minimi ed esportare la rimanenza dei prodotti, che avrebbero portato alle casse dello stato valuta pregiata. Lungo tutto il percorso si potevano osservare colture pregiate in serra, curate da contadine che al nostro passaggio alzavano la testa e momentaneamente la distoglievano dal lavoro. Nel tardo pomeriggio giungemmo a Skodra e non un’auto era parcheggiata nella grande piazza, dove facemmo una sosta per rifocillarci e per soddisfare i nostri bisogni corporali. C’erano solo biciclette e carretti variopinti che avevamo incrociato e che scorazzavano per le strade e trasportavano frotte di contadini di ritorno dal lavoro. Durante il percorso ogni tanto sulle case più elevate e su terrazzamenti protetti erano appostate delle mitragliatrici a difesa del territorio. Verso mezzanotte, ubriachi di stanchezza, giungemmo a Tirana e di corsa andammo in albergo, nel migliore della capitale, ad assaporare il meritato riposo. L’albergo era pulito e il vitto accettabile. La vita nella terra albanese scorreva secondo metodi antichi scanditi dalle stagioni e dalla povertà, dignitosa, tipica dei popoli slavi.

Nel periodo di permanenza facemmo delle gite a Cruia, a Durazzo, a Valona, a Scutari per osservare le vestigia della dominazione romana ed i segni delle lotte sostenute dal popolo albanese, guidato dal loro eroe nazionale Giorgio Scanderberg. Durante il breve soggiorno chiedemmo di visitare un ospedale ma ci fu risposto che solo verso la fine del viaggio saremmo stati forse accontentati (cosa che non avvenne). La visita al museo ed al palazzo dell’esposizione e della tecnica fu molto interessante, anche perché veniva illustrato con immagini il progresso compiuto dal popolo albanese dalla liberazione dalle truppe nazi-fasciste ai giorni nostri. Il massimo della sorpresa venne raggiunto il primo maggio quando una folla oceanica di adulti, ma soprattutto di bambini, era schierata nella piazza principale di Tirana per festeggiare l’avvenimento. Erano vestiti, i maschi, con pantaloni neri corti, camicia azzurra e fazzoletto rosso al collo, le femminucce con gonna nera, camicetta bianca e fazzoletto rosso al collo. Tutti impettiti e agli ordini dei loro rispettivi insegnanti attendevano lo svolgimento della manifestazione, quando mi accorsi che alcuni di loro avevano i piedi coperti dalla tomaia ma senza la suola. Mi si strinse il cuore e mi venne alla mente che anche i nostri soldati furono mandati in guerra in mezzo alla neve con scarpe di cartone che al primo impatto con l’acqua si dissolvevano come neve al sole. Con canti popolari, discorsi ufficiali pronunciati dal presidente Halia in commemorazione di Henver Hogia, la cerimonia andò avanti per tutta la mattinata ed era tanta la partecipazione emotiva della folla che gridava a squarciagola che il loro cuore batteva al ritmo di Henver Hogia. Come in tutti i paesi dell’Est i ragazzi, specie quelli più piccoli, chiedevano alcuni regali, gomme da masticare o penne biro, a noi turisti in giro per la città. anche se le persone adulte che erano in loro compagnia con gli occhi e con i gesti vietavano ai bambini di fare queste richieste. A spasso per la città, sempre seguiti da un accompagnatore, visitammo i negozi, in genere poco forniti; davanti a quelli di generi alimentari, specie al mattino, vi erano delle lunghe code. Mi riferì una signora albanese che le file spesso, in alcuni giorni della settimana e per alcuni generi (zucchero, carni), iniziavano alle 4 del mattino e andavano avanti fino a quando il negozio chiudeva per esaurimento delle scorte. La visita alla tomba di Henver Hogia fu un momento di tensione collettiva, per il fatto che quasi tutti i partecipanti del gruppo erano marxisti-leninisti e quindi salutavano la tomba a pugno chiuso, mentre noi cattolici sulla tomba facemmo soltanto il segno di croce. Accadde però un fatto singolare, perché, nel momento in cui il gruppo di italiani visitava la tomba arrivò anche una coppia di donne provenienti dalla parte sud dell’Albania, che appena arrivate al cospetto della lapide, cominciarono a fare il « pianto greco ››, lamenti recitati e accompagnati da lacrime per il tempo che sostavano nel cimitero, ma appena fuori riprendevano il discorso che avevano interrotto prima di entrare. Il viaggio di ritorno fu faticoso come quello di andata; continuammo a vedere un’agricoltura ordinata e progredita e con buona redditività, anche se ottenuta a duro prezzo grazie al pesante lavoro dell’uomo che, chino sui campi, vivificava il raccolto con abbondanza del suo sudore. Anche durante il ritorno osservammo sparuti camion, ma soprattutto carretti trainati da cavalli, per le strade spesso polverose per lavori in corso, e carichi di lavoratori. I carretti colorati con tinte sgargianti erano tirati da ronzini, stanchi ma incoraggiati dal guidatore, che immancabilmente come tutti o la maggior parte dei suoi connazionali fumava. L’esperienza in definitiva per tutto il gruppo fu molto positiva. Potemmo vedere e visitare la terra dei nostri antenati e forse calcare il suolo che i nostri avi abbandonarono per sfuggire all’invasione turca.Per continuare questo tenue filo che ci lega all’Albania (terra che amo molto) ho posto le basi ad una collaborazione per sistemare un manoscritto riguardante un vocabolario albanese-italiano scritto dal Monsignor Pietro Camodeca nel lontano 1902. Mi auguro che questo vocabolario possa essere pubblicato con l’ausilio dei glottologi albanesi, che hanno mostrato molto interesse nel pubblicare le modifiche, le evoluzioni che ha avuto la lingua parlata nelle colonie albanesi della Calabria e della Basilicata, una lingua cui solo la tradizione orale permette di sopravvivere.

 

 

TERZA PARTE  - SEGUE >>       

 

 

 

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