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LA PROCESSIONE |
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LA PROCESSIONE
Così s’avventura nella vita Gaetano Dimatteo solo i colori gli terranno compagnia... recitano i versi dedicati da Dario Bellezza all’amico pittore lucano. I colori di Dimatteo sono pallidi, dispersi, selenici, quasi spettrali, e altrove violenti, bluviola, tragicamente solari. Accompagnano una solitudine desolata, smarrita, inesorabilmente diversa, e insieme violenta, ostentata, urlata, corteggiata con impeto. Solitudine ed emarginazione di confine: di una polverosa Lucania dai calanchi spogli, terra inaridita nutrita di malinconia e solitudine delle coste calabre, corposa, lussuriosa, legata ai volti solari di una mascolinità antica. Di una sensualità effimera, peritura e luttuosa, sono impastate le processioni tragicamente carnali del Sud . C’è il Santo, alto sul suo catafalco, nudo e piagato, o drappeggiato e benedicente, troneggiante sulla marea oscillante degli umani destini. Ci sono bambini cherubini, rigidi chierichetti vestiti di bianco a precedere il santo, e bambini diavoli, discinti e stracciati, che inseguono accaldati il corteo. Ci sono donne, fili corvini, oro, argento che sfuggono ai veli, ombre nere e cori altissimi. E ci sono gli uomini, giovani e vecchi riuniti nella banda. Anche a Pisticci. S. Rocco in processione è magro, pallido, un Cristo sofferente in compagnia di un cane randagio, un lupo magro e mansueto riparato da Gubbio in Lucania; paterno nel suo ampio mantello, è circondato dia adolescenti dai grandi ciuffi, i colli lunghissimi, bianchi ed imberbi, giovinetti acerbi dalla sessualità indefinita, diafani fiori d’amore della Magna Grecia, angeli con voci indecise e mutevoli. Alla processione Carmela - per l’occasione si è acconciata i capelli - snocciola il rosario con lo sguardo chino, e c’è Ernesto, baschetto e zigomi sporgenti. silenzioso pastore di presepe, scolpito nel legno. E suonano gli altri uomini riuniti nella banda, suonano in cieli diversi: Salvatore soffia nella tromba, gli occhi spalancati nello sforzo, in una nota blu, calda ed omogenea; Emanuele e Sergio, guance gonfie e occhi chiusi, inarcano il trombone al globo di fuoco, al bianco e al verde; Michelino percuote i piatti e la luce si scompone in tasselli viola, bianchi, rossi, gialli, e ogni suono si frantuma in un caleidoscopio di acuti; Gerardo, il fazzoletto ai collo, la mascella quadrata e la zazzera sopra le orecchie, suona la fisarmonica, e segue lo strumento stringendo le palpebre e le tumide labbra di fragola; Samuele, il cappello con le falde sollevate, percuote spavaldo il tamburello, non come Ludovico, frangetta e sopracciglia folte sul volto scuro, compreso nella serietà dei colpi gravi e ritmati del proprio tamburo. Alla processione di S. Rocco, da un lato Gaetano Dimatteo svela d’appresso i volti di un popolo commosso, coinvolto nella solennità del rito, e con una garbata sfacciataggine di macchie di colore acceso ne interpreta la devozione, i sentimenti, la fisicità, gli umori; dall’altro suggerisce un Santo senza volto, lontano, con un’ omogeneità di toni, una trasparenza velata non più di questa terra, presagisce una struggente umanità ideale. Sta nel mezzo Dimatteo, anima duplice e partecipe, al limite tra Lucania e Calabria, guarda ai due mondi con distacco, e insieme li ama con la passione lacerante di chi sa che alla fine niente, e dunque tutto, ci assomiglia.
Roma, febbraio 1998 Mia Lecomte |
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