Dove la terra finisce
"i lucani in Cile"

 

 

PARTE II°  -  A IQUIQUE E PICA. LE IDEE NUOVE DEI LUCANI - Maria Schirone
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A Iquique. Dove il deserto incontra l'oceano - 1° A Iquique. Dove il deserto incontra l'oceano - 2° A Iquique. Dove il deserto incontra l'oceano - 3°
A Iquique. Dove il deserto incontra l'oceano - 4° A Pica

Il fuoco devastante. Le associazioni italiane di Vigili del fuoco.

In un territorio tra i più aridi del pianeta e con il problema quotidiano dell’approvvigionamento idrico, non stupisce che in alcune delle storie narrate siano drammaticamente evocate tragedie connesse ai catastrofici incendi che a più riprese hanno devastato interi quartieri di Iquique, i cui edifici spesso erano realizzati interamente in legno, dal pavimento alle verande. Vi era infatti abbondante disponibilità di legname, soprattutto pino dell’Oregon67, che costituiva la zavorra delle navi nordAméricane le quali, una volta a Iquique, l’abbandonavano nel porto e imbarcavano minerali.

 

E’ ancora Canio Sciaraffia a raccontare:

 

«EI día 4 de Septiembre de 1900, a los 8:10 horas, se declara un aterrador incendio en calle Errazuriz con San Martín, donde mis abbuelos tenían un almacen y su vivienda. El origeli del fuego fué la explosión de una fábrica de fuegos artificiales que voló el 2° piso donde se encontraba, la cual tenía gran cantidad de material explosivo almacenado por la cercanía del 18 de Septiembre (Fiesta de la Indipendencia).

Mi madre que contaba 7 años logró sacar a su hermana Berta de aproximadamente 4 meses de edad, yo creo que logró salva ne porque debe haberla tenido en brazos en ese momento, no logró salvar a María porque el techo se desplomó sobre su cuna.

Yo no puedo describir eI dolor de mis abuelos que en el momento del incendio no se encontraban presente pues atendían un puesta de vento de leche en la ‘Recava’ (Mercado Antiguo). Lo que si sé es que mi abuela perdió la razón y estuvo un buen tiempo enferma.»

«Il 4 settembre 1900, alle ore 8,10, divampò un terribile incendio in colle Errazuriz con San Martin, dove i miei nonni tenevano un deposito e la propria abitazione. La causa fu l’esplosione di una fabbrica di fuochi artificiali che invase il secondo piano dove c’era una gran quantità di materiale esplosivo immagazzinato per l’approssimarsi del 18 settembre, festa dell’Indipendenza.

Mia madre che aveva allora 7 anni riuscì a mettere in salvo sua sorella Berta, di circa 4 mesi, io credo che sia riuscita a salvarla per averla tenuta in braccio in quel momento, non riuscì invece a salvare Maria perché il tetto crollò sulla culla.

Non posso descrivere il dolore di mio padre che non si trovò al momento dell’incendio perché vendeva latte alla “Recava “, Mercado Antiguo. Ciò che si può capire è che mia nonna perdette la ragione e rimase ammalata per molto tempo.»

 

67 Case in pino dell’Oregon del principio del secolo sono ancora visibili in calle Baquedano, a lquique.

 

In quella circostanza i nonni furono aiutati da una famiglia, a sua volta colpita da un altro incendio poco tempo prima, il 28 giugno. E’ la famiglia di don Demetrio Sampson che, a quasi 100 anni da quella tragedia, Canio Sciaraffia sente ancora di ringraziare.

Le avversità della famiglia Sciaraffia non erano terminate. Dopo la Prima Guerra Mondiale in Cile imperversò una grave crisi del salnitro. Come molti altri, il nonno prese la decisione di vendere tutto (le proprietà erano ormai molte) e di tornare a Oppido col figlio Vittorio. In Cile sarebbero rimaste Rosa, sposata con Canio Sciaraffia Provenzale, Berta, moglie di Francesco La Sala Giordano e, al cimitero, la piccola Maria. Così tornarono al paese. Il 20 agosto 1923 nonno Vittorio si trovava sul balcone della sua casa di Oppido quando cominciò un temporale e un fulmine lo uccise sul colpo. Altro dolore per nonna Felicia che, insieme al figlio, tornò definitivamente a Iquique, dove morì a 71 anni, il 29ottobre del 1938.A Oppido c era solo la tomba di nonno Vittorio: “c’era”, perché fu distrutta dal terremoto del 1980. “EI no encontrar la tumba de mi abuelo fué uno de los dolores más grandes que he sentido en mi vida  , conclude Canio Sciaraffia.

 

Non abbiamo voluto interrompere l’unità di questo racconto dal quale traspaiono comprensibili sentimenti. Il fuoco poteva dunque divampare per motivi diversi, ma un incidente diventava subito una catastrofe.

Iris Di Caro ci accoglie nella sua bella casa di Iquique, ampia e soleggiata, arredata con gusto e con l’attenzione alle piccole cose che possano rendere un ambiente confortevole anche per gli ospiti. «All’epoca dell’arrivo dei lucani a lquique — racconta mentre ci offre un pisco sour aromatizzato con i limoncelli verdi di Pica, le famose ‘limette’ —‘ gran parte della città era realizzata in legna. Poiché allora si cucinava con carbone, legna o paraffina, sempre si era esposti al pericolo di incendi, che diventavano di vaste proporzioni in giornate particolarmente ventose.

Una volta il fuoco distrusse sette magazzini. In quella circostanza mi o padre, Paolo Di Caro De Rosa, perdette tutto. Mia madre salvò mia sorella Maria Maddalena avvolgendola nel telo che aveva a portata di mano perché stava per farle il bagno. Mio padre, intanto, vedendo da lontano uscire del fumo nei pressi di casa, chiese aiuto a un amico (il cui nome non ricordo), di Oppido, ma il fuoco stava avanzando anche verso la sua casa. Mio padre ricordava almeno altri due incendi devastanti in Iquique. »

Case interamente in legno erano anche quelle di molti lucani: della famiglia Lioi Sciaraffia (originaria di Oppido, il cui padre giunse a Iquique nel 1903); di Benedetto Napoli Sciaraffia, di Donato Pisani Zingaro (di Oppido, a Iquique dal 1928); della famiglia di Donato Giannone Cistarelli (originaria di Oppido, a Iquique dal 1905); di Nicola Schettini, contadino di Lagonegro, che in un incendio perse tutto e dovette ricominciare daccapo con grandi difficoltà. Era a Iquique dal 1932 e faceva il calzolaio.

A suo modo positivo fu l’epilogo dell’incendio del 1920: « Al principio del secolo si verificavano ancora numerose e gravi epidemie: fiebre amarilla’, peste bubbonica, febbri particolarmente virulente. Nel 1920 sulla nave ‘Santa Lucia’, già carica di centomila quintali di salnitro e prossima a salpare, divampò un violento incendio che distrusse l’intero carico. Il fumo e i gas sprigionatisi dai nitrati avvolsero la città come in una formidabile nube disinfettante che mise fine alle epidemie in corso.»68.

La convivenza col fuoco in agguato e con altre calamità naturali accomuna la regione del nord cileno e i confinanti territori peruviani. In entrambi i casi si distinguono le Associazioni di Pompieri, cui s’è fatto cenno in un paragrafo precedente69, e la cui presenza diffusa assume connotazioni diverse rispetto a quelle a noi più consuete. Intanto, una funzione di soccorso che, com’è noto, va al di là dell’emergenza-incendi. Possono abbattersi sulla popolazione calamità diverse, come epidemie per gravi malattie, o inondazioni, o tremendi terremoti (l’intero territorio è ad alta sismicità).

Come l’epidemia di colera che, diffusasi da Buenos Aires, si abbatté sul Cile nell’ottobre del 1886. Anche in quell’occasione si distinsero i volontari italiani che nel porto di Valparaíso organizzarono tempestivamente la “Ambulancia Italiana de la Cruz BIanca “, cui aderirono oltre 40 connazionali tra i quali medici, farmacisti e infermieri. A questo proposito, Nicolás Lioi Sciaraffia riferisce che la famiglia di suo padre (oppidese) ebbe molto a soffrire durante un’epidemia di peste bubbonica.

O come per il terremoto del 9 maggio 1877, che a Iquique provocò morte, incendi, distruzioni e a cui fece seguito un terribile maremoto che letteralmente inghiottì nel mare numerosi edifici.

O, ancora, come in un frangente di questo tipo: «Il 22 giugno del 1911 si scatenò una terribile bufera di vento e sabbia. Inizialmente si formò una brezza calda, che divenne poi di una violenza inaudita: distrusse l’illuminazione pubblica, i tetti delle case, il ristorante Balmelli di Cavancha (penisola iquiqueña), il campanile della chiesa dei salesiani e la stessa torre della Compagnia dei pompieri (la ‘Bomba Tarapacá), e causò inoltre I ‘affondamento della nave italiana ‘Cavaliere di Ciappa ‘... » (Iris Di Caro). Anche queste erano “competenze” dei Pompieri.

Al ruolo di soccorso ed emergenza, efficiente sia sul piano quantitativo che strumentale, si affianca un ruolo di associazionismo culturale che coagula le comunità italiane presenti nei due Paesi (Cile e Perù). E’ il caso delle Compagnie Pompa Italia di Santiago, Umberto I° di Talcahuano, Cristoforo Colombo di Valparaíso e della Pompa Ausonia di Iquique, le quali, mentre offrono le proprie competenze ove necessario per l’intera comunità, hanno rappresentato sin dalle origini uno dei punti di riferimento della cultura e dell’identità nazionale. E continuano ad esserlo oggi anche per i ragazzi organizzati nella Squadra Giovanile della Pompa Ausonia.

 

68 Durante una di queste violenti epidemie persero la vita in tenera età due figli di Rocco Lancellotti Guglielmucci, oppidese.

69 V. Le organizzazioni associative degli italiani.

 

Inventarsi un lavoro nel deserto. Idee nuove dei lucani.

 

«Il treno parte da Antofagasta, sulla costa settentrionale cilena, e inizia un viaggio di seicento chilometri in direzione nord-est, attraverso il deserto più arido del pianeta, quello di Atacama.(...) Lungo tutta la strada non si vede un albero, né un arbusto, né un cespuglio, né un filo d’erba, né un animale, né un insetto, né un solo uccello. Solitudine, e ancora solitudine. Deserto, saline, fabbriche di salnitro abbandonate, scheletri di costruzioni degli inizi del secolo, veicoli mummificati, sembrano indicare che questa regione non è altro che un castigo...

(...) il sole picchia senza pietà, e la notte il freddo permette di ascoltare il silenzio: per millenni si sono spaccate quelle che un tempo erano rocce e ora sono sassi. Quel suono interminabile di pietre che si sgretolano a causa del violento sbalzo di temperatura è la migliore dimostrazione che anche il silenzio si può ascoltare.»

(L. Sepúlveda, Patagonia Express).

 

Atacama

Voz insufrible, diseminada
sal, substituída

ceniza, ramo negro

en cuyo extremo aljófar, aparece la luna
ciega, por corredores enlutados de cobre.

[. . .]

Oh, madre del oceano! productora
del ciego jaspe y la dorada sìlice...

 

(P. Neruda, da Canto General)

Atacama

Voce insopportabile, disseminato
sale, mutata

cenere, ramo nero

alla cui estrema perla appare la luna
cieca, per i corridoi anneriti di rame.

[. . .]

Oh, madre dell’oceano, che produci
il cieco diaspro e la dorata silice!

 

Il Norte Grande è composto dalle Regioni I (Tarapacá) e Il (Antofagasta) e dalla parte più settentrionale della Regione III (Atacama). L’ambiente naturale comprende di tutto: dall’oceano alle alte vette delle Ande, passando per il deserto, le oasi e l’altopiano. Prima della colonizzazione le oasi del deserto erano legate più agli altipiani del Perù e della Bolivia che non alla costa. Anche le straordinarie testimonianze archeologiche preispaniche sono considerate il complemento dell’archeologia dei due stati confinanti.

Lo sfruttamento dei giacimenti minerari nella zona di Iquique e la creazione delle oficinas per la lavorazione dei nitrati diede luogo alla creazione di numerosi porti e calette di imbarco lungo il litorale del nord e piccoli insediamenti nell’interno. L’argento di Huantajaya determinò la nascita di Iquique; il guano favorì gli insediamenti di Pica e il porticciolo di Punta Lobos; il salnitro della Pampa causò infine l’antropizzazione della Pampa del Tamarugál e il formidabile sviluppo del porto di Iquique (il primo cargo salpò nel 1820 alla volta di Liverpool).

Da un punto di vista insediativo il clima rende l’area dell’Atacama tra le più difficili da gestire: non piove, si dice, dai tempi della colonizzazione spagnola (quattro secoli fa: ma chi può testimoniarlo?), e il solo tipo di “precipitazione” è dato dalle nebbie convettive note come camanchaca o garúa, che si formano per l’incontro con l’aria fredda e umida della “corrente di Humboldt”. La camanchaca rappresenta l’unico sollievo per la sparsa e scarsa vegetazione di tamarugo della Pampa. Solo verso la precordigliera i contadini aymara coltivano foraggi, cereali andini, patate e pascolano lama, alpaca e pecore.

 

Quali attività dunque avrebbero potuto intraprendere i lucani nel nord cileno?

Che cosa aveva questa terra di interessante?... — si chiedono Julia Saluzzi e Iris Di Caro E’ una domanda che tutti ci facciamo e che resta un’incognita. Sappiamo che la fertile campagna dalla quale venivano i nostri padri non somiglia affatto a Iquique, a parte quelli che videro nell’oasi di Pica una piccola scintilla della terra natale... Avremmo tanto da dire sulle vere ragioni che catturarono i loro passi in questo nord... Forse con grande volontà decisero di ricostruirla qui, come una sorella gemella, perché Iquique ha l’anima ospitale.(Julia Saluzzi, Iris Di Caro).

 

Abbiamo già affermato che i primi lucani che giungevano in Cile spesso non sapevano, alla partenza dalla Basilicata, che alla fine sarebbero arrivati proprio nella terra più estrema dell’América latina. Il Cile rappresentava uno dei tentativi, in genere l’ultimo, dopo aver tentato di costruire il proprio destino nel NordAmerica o in Argentina, Perù e altri paesi confinanti.

Provenienze avventurose di questo tipo sono quelle di Vittorio Sciaraffia Saluzzi (delle cui precedenti peripezie in California e in Perù, prima di avventurarsi in Iquique, abbiamo già riferito attraverso la testimonianza del nipote Canio); del padre di Angela Calzaretta Frontuto, arrivato nel 1925 da Tolve a Buenos Aires, e successivamente approdato prima a Iquique poi a Pica dopo due anni di tentativi in terra argentina. In Argentina avevano provato a costruirsi un avvenire, prima degli anni Venti, anche Rocco Lancellotti Guglielmucci; Donato Daponte Pepe e Anna Maria Lioi Sciaraffia; Donato Lancellotti Morelli (oggi ottantatreenne), Antonio Pepe Lancellotti, i Saluzzi-Merenda; Paolo Di Caro (n. l’8.3.1876), passato per il Brasile e per Buenos Aires prima di arrivare in Cile nel 1893. Tutti oppidesi.

Infine, il padre di Rocco Frontuto Caputo, tolvese, giunto in Cile dopo aver maturato una dura esperienza nelle miniere del Belgio. Ne riparleremo a proposito dei lucani a Pica.

 

Scrive Iris Di Caro:

Gli emigranti che arrivarono in questa terra conobbero la sofferenza dell’apolide, però a loro volta portavano il magnifico dono della tenacia e delle capacità. Vissero come fratelli e insieme si spartirono il pane. Fanno onore alla leggenda del nostro passato”.

 

Per chi giungeva intenzionalmente nella regione del Norte Grande, il richiamo in un primo momento era dovuto senza dubbio all’industria dell’oro blanco e alle numerose opportunità che essa offriva.

Nella sola area intorno a Iquique erano attive circa 40 salitrere. Nel 1928 — anno della massima espansione dell’attività estrattiva — lavoravano circa sessantamila addetti. Nonostante la grande crisi dei nitrati nel ‘32, allorché cominciarono a diffondersi i prodotti di sintesi, le oficinas rimasero pienamente attive fino a tutta la II° guerra mondiale. Subito dopo, il declino accelerò fino alla chiusura negli anni ‘70 (l’ultima, la “Victoria”, chiuse nel 1979) e l’economia si convertì alle attività della pesca. Allora in numero massiccio i lavoratori delle salitrere si spinsero verso le aree del rame: Chuquicamata, Potrerillos, Mantos Blancos ecc.; oppure emigrarono verso le città portuali: Arica, Iquique, Antofagasta. O ancora verso la capitale. I più anziani restarono a invecchiare nei piccoli insediamenti del deserto: La Tirana, La Huayca, Pica, Carmen Alto, Pueblo Hundido.

Il lavoro delle miniere di salnitro era quanto di più ingrato si possa immaginare, sia per la fatica richiesta dall’attività estrattiva vera e propria, sia in considerazione delle terribili condizioni climatiche nell’arido e salato deserto dell’Atacama. A svolgere le mansioni peggiori, per 14-16 ore al giorno, erano soprattutto boliviani, peruviani, cileni poverissimi (per lo più indios aymara), costretti a spostarsi da un’oficina all’altra a seconda della richiesta di manodopera. Oltre che nel vero e proprio lavoro di scavo si trattava di offrirsi nel lavoro di trasporto a spalla dei sacchi pieni fino alle stazzioncine di ferrocarriles che congiungevano la pampa al porto. I sacchi pesavano un quintal español. Erano viaggi di giorno sotto il sole implacabile del deserto, di notte al freddo fino a tumefarsi le mani     y los indios, para matar el hambre, mascaban coca todo el tiempo"70. Ma erano anche polacchi, italiani, tedeschi, croati, cinesi, arabi: il cui sudore si trasformava nella sontuosa architettura dei palazzi padronali edificati e ancora visibili nei centri di Iquique, Santiago, Valparaiso, Viñadelmar, e la cui oppressione diede vita a un movimento operaio tra i più vigorosi del continente latinoamenicano.

 

 70 "... e gli indios, per ingannare la fame, masticavano coca tutto il tempo”: F.R. Vilca, Historia de Oficinas Salitreras de las Provincias de Tarapacá Antofagasta, in El Salitre: pasado imborrable, lquique 1995. p. 32.

 

 

Non tutti gli immigrati lavorarono per I’oro bIanco. Molti si occuparono del commercio di carne e pesce (cinesi); furono venditori ambulanti (spagnoli e turchi); aprirono cantine e dormitori (slavi e spagnoli).

Le mansioni impiegatizie e dirigenziali degli stabilimenti erano appannaggio dei ‘quadri’ organizzativi costituiti da cileni ed europei forniti di un qualche livello d’istruzione; la direzione era in mani britanniche.

Gli italiani si dedicavano ad attività commerciali e industriali e nel settore portuale. Un famoso italiano industriale del salnitro fu Pedro Perfetti, proprietario di numerose oficinas nonché di una imbarcazione di 580 tn. in servizio tra Iquique e Valparaíso. Altri industriali italiani si occuparono dello sfruttamento minerario del rame e dell’argento.

Oggi le officine salitrere appaiono come villaggi fantasma, intatti e deserti, come Humberstone (v. scheda), che sembra abbandonata da pochi mesi. Di un solo lucano che abbia lavorato nelle salitrere dell’Atacama siamo venuti a conoscenza, e si trattava del padre di don Vito Carcuro71. Un lavoro, quello del padre, svolto come operaio-minatore alla fine del secolo scorso.

Ma i lucani sanno bene le lotte durissime del nascente movimento operaio delle salitrere. Come il grande sciopero del 1907 di cui ci parlano Giovanni e Pasquale Schettini (originani di Lagonegro nati a Iquique), quando gli operai in sciopero confluiti nella Scuola di Santa María di Iquique furono fucilati dall’esercito. Di quell’episodio, tristemente noto come “la matanza “, rimasero più di duemila morti sul selciato (v. scheda V°). Non era stato il primo, non fu l’ultimo. In altre officine, altre lotte per il riconoscimento della dignità nel lavoro finirono in un bagno di sangue:

Ramirez (1891), Buena Ventura, Pontevedra e Barrenechea (1907), Maroussia e La Corufia (1925): “La sangre del trabajador pampino cumbrió de flores salvajes la tierra tórrida y estéril.72.

 

 

71 Vito Carcuro, classe 1905, originario di Genzano nato a lquique, vissuto alcuni anni nel paese paterno e definitivamente tornato in Cile nel 1922.

72 S.I. Durán Gutierrez, EI drama de los enganchados del salitre, in Tarapacá: una aventura en el tiempo, lquique 1994, p. 15.

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