Dove la terra finisce
"i lucani in Cile"
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Il fuoco devastante. — Le associazioni italiane di Vigili del fuoco.
In un territorio tra i più aridi del pianeta e con il problema
quotidiano dell’approvvigionamento idrico, non stupisce che in
alcune delle storie narrate siano drammaticamente evocate tragedie
connesse ai catastrofici incendi che a più riprese hanno devastato
interi quartieri di Iquique, i cui edifici spesso erano realizzati
interamente in legno, dal pavimento alle verande. Vi era infatti
abbondante disponibilità di legname, soprattutto pino dell’Oregon67,
che costituiva la zavorra delle navi nordAméricane le quali, una
volta a Iquique, l’abbandonavano nel porto e imbarcavano minerali.
E’ ancora Canio Sciaraffia a raccontare:
67 Case in pino dell’Oregon del principio del secolo sono ancora visibili in calle Baquedano, a lquique.
In quella circostanza i nonni furono aiutati da una famiglia, a sua
volta colpita da un altro incendio poco tempo prima, il 28 giugno.
E’ la famiglia di don Demetrio Sampson che, a quasi 100 anni da
quella tragedia, Canio Sciaraffia sente ancora di ringraziare.
Le avversità della famiglia Sciaraffia non erano terminate. Dopo la
Prima Guerra Mondiale in Cile imperversò una grave crisi del
salnitro. Come molti altri, il nonno prese la decisione di vendere
tutto (le proprietà erano ormai molte) e di tornare a Oppido col
figlio Vittorio. In Cile sarebbero rimaste Rosa, sposata con
Canio Sciaraffia Provenzale, Berta, moglie di Francesco La
Sala Giordano e, al cimitero, la piccola Maria. Così
tornarono al paese. Il 20 agosto 1923 nonno Vittorio si trovava sul
balcone della sua casa di Oppido quando cominciò un temporale e un
fulmine lo uccise sul colpo. Altro dolore per nonna Felicia che,
insieme al figlio, tornò definitivamente a Iquique, dove morì a 71
anni, il 29ottobre del 1938.A Oppido c era solo la tomba di nonno
Vittorio: “c’era”, perché fu distrutta dal terremoto del 1980.
“EI no encontrar la tumba de mi abuelo fué uno de los dolores más
grandes que he sentido en mi vida
, conclude Canio Sciaraffia.
Non abbiamo voluto interrompere l’unità di questo racconto dal quale
traspaiono comprensibili sentimenti. Il fuoco poteva dunque
divampare per motivi diversi, ma un incidente diventava subito una
catastrofe.
Iris Di Caro ci accoglie
nella sua bella casa di Iquique, ampia e soleggiata, arredata con
gusto e con l’attenzione alle piccole cose che possano rendere un
ambiente confortevole anche per gli ospiti. «All’epoca
dell’arrivo dei lucani a lquique — racconta mentre ci offre un
pisco sour aromatizzato con i limoncelli verdi di Pica, le
famose ‘limette’ —‘ gran parte della città era realizzata in
legna. Poiché allora si cucinava con carbone, legna o paraffina,
sempre si era esposti al pericolo di incendi, che diventavano di
vaste proporzioni in giornate particolarmente ventose.
Una volta il fuoco distrusse sette magazzini. In quella circostanza
mi Case interamente in legno erano anche quelle di molti lucani: della famiglia Lioi Sciaraffia (originaria di Oppido, il cui padre giunse a Iquique nel 1903); di Benedetto Napoli Sciaraffia, di Donato Pisani Zingaro (di Oppido, a Iquique dal 1928); della famiglia di Donato Giannone Cistarelli (originaria di Oppido, a Iquique dal 1905); di Nicola Schettini, contadino di Lagonegro, che in un incendio perse tutto e dovette ricominciare daccapo con grandi difficoltà. Era a Iquique dal 1932 e faceva il calzolaio.
A suo modo positivo fu l’epilogo dell’incendio del 1920: « Al
principio del secolo si verificavano ancora numerose e gravi
epidemie: fiebre
La convivenza col fuoco in agguato e con altre calamità naturali
accomuna la regione del nord cileno e i confinanti territori
peruviani. In entrambi i casi si distinguono le Associazioni di
Pompieri, cui s’è fatto cenno in un paragrafo precedente69,
e la cui presenza diffusa assume connotazioni diverse rispetto a
quelle a noi più consuete. Intanto, una funzione di soccorso che,
com’è noto, va al di là dell’emergenza-incendi. Possono abbattersi
sulla popolazione calamità diverse, come epidemie per gravi
malattie, o inondazioni, o tremendi terremoti (l’intero territorio è
ad alta sismicità).
Come l’epidemia di colera che, diffusasi da Buenos Aires, si abbatté
sul Cile nell’ottobre del 1886. Anche in quell’occasione si
distinsero i volontari italiani che nel porto di Valparaíso
organizzarono tempestivamente la “Ambulancia Italiana de la Cruz
BIanca “, cui aderirono oltre 40 connazionali tra i quali
medici, farmacisti e infermieri. A questo proposito, Nicolás Lioi
Sciaraffia riferisce che la famiglia di suo padre (oppidese)
ebbe molto a soffrire durante un’epidemia di peste bubbonica.
O come per il terremoto del 9 maggio 1877, che a Iquique provocò
morte, incendi, distruzioni e a cui fece seguito un terribile
maremoto che letteralmente inghiottì nel mare numerosi edifici.
O, ancora, come in un frangente di questo tipo: «Il 22 giugno del
1911 si scatenò una terribile bufera di vento e sabbia. Inizialmente
si formò una brezza calda, che divenne poi di una violenza inaudita:
distrusse l’illuminazione pubblica, i tetti delle case, il
ristorante Balmelli di Cavancha (penisola iquiqueña), il campanile
della chiesa dei salesiani e la stessa torre della Compagnia dei
pompieri (la ‘Bomba Tarapacá), e causò inoltre I ‘affondamento della
nave italiana ‘Cavaliere di Ciappa ‘... » (Iris Di Caro).
Anche queste erano “competenze” dei Pompieri.
Al ruolo di soccorso ed emergenza, efficiente sia sul piano
quantitativo che strumentale, si affianca un ruolo di
associazionismo culturale che coagula le comunità italiane presenti
nei due Paesi (Cile e Perù). E’ il caso delle Compagnie Pompa
Italia di Santiago, Umberto I° di Talcahuano,
Cristoforo Colombo di
Valparaíso e della Pompa Ausonia di Iquique, le quali, mentre
offrono le proprie competenze ove necessario per l’intera comunità,
hanno rappresentato sin dalle origini uno dei punti di riferimento
della cultura e dell’identità nazionale. E continuano ad esserlo
oggi anche per i ragazzi organizzati nella Squadra Giovanile della
Pompa Ausonia.
68 Durante una di queste violenti epidemie persero la vita in tenera
età due figli di Rocco Lancellotti Guglielmucci, oppidese. 69 V. Le organizzazioni associative degli italiani.
Il Norte Grande è composto dalle Regioni I (Tarapacá) e Il
(Antofagasta) e dalla parte più settentrionale della Regione III
(Atacama). L’ambiente naturale comprende di tutto: dall’oceano alle
alte vette delle Ande, passando per il deserto, le oasi e
l’altopiano. Prima della colonizzazione le oa
Lo sfruttamento dei giacimenti minerari nella zona di Iquique e la
creazione delle oficinas per la lavorazione dei nitrati diede
luogo alla creazione di numerosi porti e calette di imbarco lungo il
litorale del nord e piccoli insediamenti nell’interno. L’argento di
Huantajaya determinò la nascita di Iquique; il guano favorì gli
insediamenti di Pica e il porticciolo di Punta Lobos; il salnitro
della Pampa causò infine l’antropizzazione della Pampa del Tamarugál
e il formidabile sviluppo del porto di Iquique (il primo cargo salpò
nel 1820 alla volta di Liverpool).
Da un punto di vista insediativo il clima rende l’area dell’Atacama
tra le più difficili da gestire: non piove, si dice, dai tempi della
colonizzazione spagnola (quattro secoli fa: ma chi può
testimoniarlo?), e il solo tipo di “precipitazione” è dato dalle
nebbie convettive note come camanchaca o garúa, che si
formano per l’incontro con l’aria fredda e umida della “corrente di
Humboldt”. La camanchaca rappresenta l’unico sollievo per la
sparsa e scarsa vegetazione di tamarugo della Pampa. Solo
verso la precordigliera i contadini aymara coltivano foraggi,
cereali andini, patate e pascolano lama, alpaca e pecore.
Quali attività dunque avrebbero potuto intraprendere i lucani nel nord cileno?
“Che cosa aveva questa terra di interessante?... — si
chiedono Julia Saluzzi e Iris Di Caro — E’
Abbiamo già affermato che i primi lucani che giungevano in Cile
spesso non sapevano, alla partenza dalla Basilicata, che alla fine
sarebbero arrivati proprio nella terra più estrema dell’América
latina. Il Cile rappresentava uno dei tentativi, in genere
l’ultimo, dopo aver tentato di costruire il proprio destino nel
NordAmerica o in Argentina, Perù e altri paesi confinanti.
Provenienze avventurose di questo tipo sono quelle di Vittorio
Sciaraffia Saluzzi
(delle cui precedenti peripezie in California e in Perù, prima di
avventurarsi in Iquique, abbiamo già riferito attraverso la
testimonianza del nipote Canio); del padre di
Angela Calzaretta Frontuto, arrivato nel 1925 da Tolve a Buenos
Aires, e successivamente approdato prima a Iquique poi a Pica dopo
due anni di tentativi in terra argentina. In Argentina avevano
provato a costruirsi un avvenire, prima degli anni Venti, anche
Rocco Lancellotti Guglielmucci; Donato Daponte Pepe e
Anna Maria Lioi Sciaraffia; Donato Lancellotti Morelli
(oggi ottantatreenne), Antonio Pepe Lancellotti, i
Saluzzi-Merenda;
Paolo Di Caro (n. l’8.3.1876), passato per il Brasile e per
Buenos Aires prima di arrivare in Cile nel 1893. Tutti oppidesi. Infine, il padre di Rocco Frontuto Caputo, tolvese, giunto in Cile dopo aver maturato una dura esperienza nelle miniere del Belgio. Ne riparleremo a proposito dei lucani a Pica.
Scrive Iris Di Caro: “Gli emigranti che arrivarono in questa terra conobbero la sofferenza dell’apolide, però a loro volta portavano il magnifico dono della tenacia e delle capacità. Vissero come fratelli e insieme si spartirono il pane. Fanno onore alla leggenda del nostro passato”.
Per chi giungeva intenzionalmente nella regione del Norte Grande,
il richiamo in un primo momento era dovuto senza dubbio
all’industria dell’oro blanco e alle numerose opportunità che
essa offriva.
Nella sola area intorno a Iquique erano attive circa 40
salitrere. Nel 1928 — anno della massima espansione
dell’attività estrattiva — lavoravano circa sessantamila addetti.
Nonostante la grande crisi dei nitrati nel ‘32, allorché
cominciarono a diffondersi i prodotti di sintesi, le oficinas
rimasero pienamente attive fino a tutta la II° guerra mondiale.
Subito dopo, il declino accelerò fino alla chiusura negli anni ‘70
(l’ultima, la “Victoria”, chiuse nel 1979) e l’economia si
convertì alle attività della pesca. Allora in numero massiccio i
lavoratori delle salitrere si spinsero verso le aree del
rame: Chuquicamata, Potrerillos, Mantos Blancos ecc.; oppure
emigrarono verso le città portuali: Arica, Iquique, Antofagasta. O
ancora verso la capitale. I più anziani restarono a invecchiare nei
piccoli insediamenti del deserto: La Tirana, La Huayca, Pica, Carmen
Alto, Pueblo Hundido.
Il lavoro delle miniere di salnitro era quanto di più ingrato si
possa immaginare, sia per la fatica richiesta dall’attività
estrattiva vera e propria, sia in considerazione delle terribili
condizioni climatiche nell’arido e salato deserto dell’Atacama. A
svolgere le mansioni peggiori, per 14-16 ore al giorno, erano
soprattutto boliviani, peruviani, cileni poverissimi (per lo più
indios aymara),
costretti a spostarsi da un’oficina all’altra a seconda
della richiesta di manodopera. Oltre che nel vero e proprio lavoro
di scavo si trattava di offrirsi nel lavoro di trasporto a spalla
dei sacchi pieni fino alle stazzioncine di ferrocarriles che
congiungevano la pampa al porto. I sacchi pesavano un quintal
español.
Erano viaggi di giorno sotto il sole implacabile del deserto, di
notte al freddo fino a tumefarsi le mani y los indios, para matar el hambre,
mascaban coca todo el tiempo"70.
Ma erano anche polacchi, italiani, tedeschi, croati, cinesi, arabi:
il cui sudore si trasformava nella sontuosa architettura dei palazzi
padronali edificati e ancora visibili nei centri di Iquique,
Santiago, Valparaiso, Viñadelmar, e la cui oppressione diede vita a
un movimento operaio tra i più vigorosi del continente
latinoamenicano.
70 "... e gli indios, per ingannare la fame, masticavano coca tutto il tempo”: F.R. Vilca, Historia de Oficinas Salitreras de las Provincias de Tarapacá Antofagasta, in El Salitre: pasado imborrable, lquique 1995. p. 32.
Non tutti gli immigrati lavorarono per I’oro bIanco. Molti si
occuparono del commercio di carne e pesce (cinesi); furono venditori
ambulanti (spagnoli e turchi); aprirono cantine e dormitori (slavi e
spagnoli).
Le mansioni impiegatizie e dirigenziali degli stabilimenti erano
appannaggio dei ‘quadri’ organizzativi costituiti da cileni ed
europei forniti di un qualche livello d’istruzione; la direzione era
in mani britanniche.
Gli italiani si dedicavano ad attività commerciali e industriali e
nel settore portuale. Un famoso italiano industriale del salnitro fu
Pedro Perfetti, proprietario di numerose oficinas nonché di
una imbarcazione di 580 tn. in servizio tra Iquique e Valparaíso.
Altri industriali italiani si occuparono dello sfruttamento
minerario del rame e dell’argento.
Oggi le officine salitrere appaiono come villaggi fantasma,
intatti e deserti, come Humberstone (v. scheda), che sembra
abbandonata da pochi mesi. Di un solo lucano che abbia lavorato
nelle salitrere dell’Atacama siamo venuti a conoscenza, e si
trattava del padre di don Vito Carcuro71.
Un lavoro, quello del padre, svolto come operaio-minatore alla fine
del secolo scorso.
Ma i lucani sanno bene le lotte durissime del nascente movimento
operaio delle salitrere. Come il grande sciopero del 1907 di
cui ci parlano Giovanni e Pasquale Schettini (originani di Lagonegro
nati a Iquique), quando gli operai in sciopero confluiti nella
Scuola di Santa María di Iquique furono fucilati dall’esercito. Di
quell’episodio, tristemente noto come “la matanza “, rimasero
più di duemila morti sul selciato (v. scheda V°).
Non era stato il primo, non fu l’ultimo. In altre officine, altre
lotte per il riconoscimento della dignità nel lavoro finirono in un
bagno di sangue:
Ramirez (1891), Buena Ventura, Pontevedra e Barrenechea (1907),
Maroussia e La Corufia (1925): “La sangre del
trabajador pampino cumbrió de flores salvajes la tierra tórrida y
estéril.“72.
71
Vito Carcuro, classe 1905, originario di Genzano nato a lquique,
vissuto alcuni anni nel paese paterno e definitivamente tornato in
Cile nel 1922.
72 S.I. Durán Gutierrez, EI drama de los enganchados del salitre,
in
Tarapacá: una |
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